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CHI SONO - Giornalista, scrittore, appassionato di sport Bellezza musica. Gli studi classici hanno alimentato in me la voglia di dedicarmi alla scrittura. Nel 2020 ho fatto esordio nella narrativa con “La buona battaglia – Sognando i Giochi del Mediterraneo” (Passerino editore). Poi con “Benny per sempre”, nel 2021, ho inteso omaggiare la figura della campionessa Benedetta Pilato, baby fenomeno del nuoto e mia concittadina. In questo blog pubblico i miei articoli per fare esperienza di condivisione preservando il diritto alla ricerca delle notizie positive. Quelle da dare senza censura. A chi mi legge, do il benvenuto

Texas, giustiziato Ramiro Gonzales: la barbarie della pena di morte

Qualcuno la reintrodurrebbe. La invoca per reati abominevoli, come lo stupro e l’uccisione di una donna; ma la pena di morte non può salvare il mondo, né avere alcuna utilità giuridica. Alimenta solamente la sete di vendetta scambiata per giustizia. Anacronistico, o forse no, mantenerla (la logica dell’occhio per occhio è sempre imperante, in tempi di guerra), l’ultimo ad essere stato giustiziato in Texas è il 41enne Ramiro Gonzales: alle 18.50 di mercoledì scorso ventisei giugno, l’uomo è stato sottoposto a iniezione letale nel penitenziario statale di Huntsville, ed è morto nel giro di un minuto.  

L’abominio

I fatti risalgono al 2001. Allora Ramiro Gonzales si rese colpevole del rapimento e della morte della 18enne Bridget Townsend: il sequestro avvenne in una casa di campagna nella contea di Bandera. Dopo essere stata abusata la giovane fu uccisa. Solamente nell’ottobre del 2002 i suoi resti furono ritrovati grazie allo stesso killer, che aveva già ricevuto due ergastoli per aver rapito e violentato un’altra donna. Nel 2006 la condanna a morte: inutile la difesa dei legali, in appello dinanzi alla Corte Suprema, i quali cercavano di dimostrare come la non più pericolosità dell’individuo, e la buona condotta: il suo impegno nella fede cristiana, e la dedizione verso gli altri detenuti – anche i tentativi di donare un rene a uno sconosciuto. Con il voto di 7-0 il Texas Board of Pardons and Paroles si è rifiutato di concedergli la clemenza.

Il pentimento di Ramiro Gonzales

Non sappiamo se fosse sincero. Ma, consapevole del dolore causato, in più occasioni Ramiro Gonzales si era scusato con la famiglia Townsend. Dichiarando di aver continuato a vivere al meglio delle sue possibilità, per la restituzione, il ripristino, l’assunzione di responsabilità. E di non aver mai smesso di pregare per il perdono. Che non ha mai ricevuto.

La reazione della famiglia

“Abbiamo finalmente assistito alla giustizia. Questo giorno segna la fine di un lungo e doloroso percorso per la nostra famiglia: per oltre due decenni abbiamo sopportato un dolore e uno strazio inimmaginabili”. Queste le parole del fratello della vittima David Townsend alla notizia dell’esecuzione avvenuta. Uno sfogo di certo comprensibile, che non tiene conto della funzione rieducativa della pena, e della sacralità della vita.

La pena di morte nel mondo

Più di mille esecuzioni (1153) in 16 Paesi. Uccisioni avvenute soprattutto in Cina, poi in Iran, Arabia Saudita, Somalia e Stati Uniti. È la fotografia scattata da Amnesty International riferita all’anno scorso. La stessa organizzazione, sempre ferma nell’opporsi incondizionatamente alla pena di morte, precisa che sono state registrate 508 esecuzioni solo per reati legati alla droga. Alla fine del 2023, 112 Paesi erano completamente abolizionisti  e 144 in totale avevano abolito la pena di morte nella legge o nella pratica. Vige ancora in un Paese civile e democratico e potenza guida come gli Stati Uniti.

La sfida del cambiamento climatico: sconfiggere il maltempo con potenti esplosioni

Non è un metodo che rassicura. Ma magari funziona, l’idea da cui prendere spunto, nell’azione di contrasto a un processo divenuto ormai irreversibile, da porre come la madre di tutte le questioni: prevenire la formazione di vortici atmosferici come tornado e tifoni attraverso ordigni esplosivi. La teoria rivoluzionaria porta la firma degli scienziati russi. Per combattere gli effetti più devastanti del cambiamento climatico, servirebbero cinquanta ordigni con una capacità totale di 4 chilotoni, installati con competenza, al posto giusto. È fattibile?

Le potenze nucleari unite nella lotta al cambiamento climatico

“Tali esplosioni possono essere effettuate in qualsiasi stadio dello sviluppo del tifone. L’importante è che siano nei punti giusti e di potenza sufficiente: i calcoli hanno dimostrato che per fermare l’intera massa rotante alla base del ciclone, avremmo bisogno di un’energia molto grande”. Così Sergei Bautin sulla rivoluzionaria teoria. Lo stesso professore presso la sede del MEPhl di Snezhinsk ha chiarito: “Ci vorrebbe almeno una bomba atomica. Ma se si sa dove farla esplodere, ci si può limitare a esplosioni meno potenti”. “Per calcolarlo, dobbiamo conoscere la velocità del flusso ascensionale intorno al centro del ciclone – aggiunge – la sua geometria, i diametri e le distanze. In sostanza, dobbiamo fermare non il movimento circonferenziale, ma quello verticale verso l’alto dell’aria lungo l’intera circonferenza attorno al centro del vortice atmosferico”. In sostanza, la questione è assai complessa, e sebbene possa avere un certo fondamento scientifico, a noi pare essere una follia. E mai vorremmo assistere a una guerra nucleare spacciata per lotta al cambiamento climatico. A tal proposito, l’avvertimento degli scienziati è che un’esplosione di tale potenza dovrebbe essere coordinata con gli altri Stati.

Il metodo e l’applicazione

Al netto di una serie di problemi grossi da risolvere, secondo Sergei Bautin, non solo sarebbe possibile fermare un ciclone, ma pure ricavarne energia. Sulla stessa lunghezza d’onda il coordinatore del programma di rinverdimento industriale del Centro per la conservazione della fauna selvatica Ihor Shkradyuk sostiene che l’esplosione possa anche reindirizzare il flusso d’aria. Di diverso parere il ricercatore capo dell’Istituto di ricerca spaziale dell’Accademia delle scienze russa Sergei Pulinets, per il quale esistono modi più semplici per fermare i tifoni senza dover far esplodere nulla. Ad esempio riscaldando la parte superiore del ciclone tramite ionizzazione. Mikhail Leus infine ha precisato che per l’applicazione della rivoluzionaria teoria ci vorrebbe una potenza di esplosione di gran lunga superiore a quella delle bombe sganciate su Nagasaki e Hiroshima: gli scienziati dell’Istituto di Fisica e Tecnologia di Snezhinsk dell’Università nazionale di Ricerca nucleare MEPhl cercano di essere propositivi, positivi, e insieme realisti.

Guerra Ucraina: la libertà di informazione, tra i media russi, va salvaguardata sempre

Il dovere di informare. E pure di sparare “balle”, eventualmente, se la verità da accertare è un’altra, è un diritto da tutelare sempre: non tutti hanno accolto favorevolmente le nuove restrizioni che l’Unione europea intende introdurre sulle trasmissioni dei media russi. È già contraria la Svizzera. Che pure aveva adottato tutte le sanzioni imposte dell’Ue contro la Russia, a causa della guerra in Ucraina.

Il pensiero unico e le contraddizioni dell’Occidente

La comunità di esperti sottolinea che le azioni di Bruxelles contraddicono i principi di rispetto della parola e perseguono l’obiettivo di ripulire lo spazio informativo in Europa. A sottolinearlo è Izvestia. Il pensiero unico, insomma, sulla guerra in Ucraina, è dominante. La contrarietà della Svizzera invece è motivata dal suo portavoce del Ministero degli Esteri, Nicolas Bidault, il quale ha dichiarato che non si ha in programma di sospendere le trasmissioni di alcun media.

Guerra in Ucraina, le restrizioni contro la propaganda

Il Parlamento europeo è fiducioso che l’Ue possa compiere questo passo al più presto. Lo ha fatto sapere il rappresentante della Commissione europea e portavoce della politica estera Peter Stano. Le restrizioni erano state preannunciate dal Consiglio dell’Ue, lo scorso diciassette maggio, ai danni di tre media russi: RIA Novosti, Rossiyskaya Gazeta, e la stessa Izvestia. A questi si aggiunge Voice of Europe. Portale che è stato sottoposto a restrizioni. Lo stesso Peter Stano ha dichiarato che l’Ue è pronta a prendere in considerazione la messa al bando di altri media, qualora gli Stati membri concordino all’unanimità che questa misura sia necessaria in relazione a pubblicazioni specifiche che Bruxelles ritiene siano impegnate nella propaganda.

Il regolamento dovrebbe entrare in vigore verso la fine di giugno. Proprio quando la guerra in Ucraina sta entrando in una nuova e più pericolosa fase, verso l’escalation. La volontà sarebbe quella di imporre il divieto solo sulla trasmissione di queste risorse mediatiche. E non di ostacolare le attività professionali dei giornalisti che lavorano per i media sanzionati sul territorio dell’Unione europea. In realtà, l’ambito di applicazione delle nuove restrizioni “va oltre le trasmissioni televisive”. Ovvero si estende ai siti web. Tant’è che quelli di Izvestia, RIA Novosti e Rossiyskaya Gazeta hanno smesso di funzionare in Germania, il 25 maggio.

La discrezionalità a doppio senso

Qualsiasi decisione spetta ai singoli Paesi membri dell’Ue. Inoltre viene precisato che, con riferimento a quanto imposto ai media, è corretto parlare di divieti e non “sanzioni”, le quali colpiscono persone e organizzazioni includendo il congelamento dei beni e il divieto di viaggiare. La discussione è interna a ogni Stato. E non è escluso che alcuni possano inasprire le misure contro i media russi, rifiutando il confronto con i loro giornalisti, ad esempio. Ciò è intollerabile e inconciliabile con i valori difesi dall’Occidente. Lo rileva la parte avversa: il Ministero degli Esteri russo ha dichiarato che la mossa dell’Ue contro le pubblicazioni russe continua la pratica della censura politica e che Bruxelles sta trascurando i suoi obblighi internazionali di garantire il pluralismo dei media.

“La dea dell’arpa”, quella scintilla divina che è in Claudia Lamanna

La Puglia, l’Italia, il continente, pullulano di giovani o affermati talenti. Ma Claudia Lucia Lamanna è la più coinvolgente… Tanto che al sottoscritto ha ispirato “La dea dell’arpa”. Un volume voluto per omaggiare l’unicità del suo talento. Il mio libro accende i riflettori sull’arpa: dalle origini e dalla storia del più antico strumento a corde a noi noto, agli interpreti che hanno contributo allo sviluppo del repertorio arpistico, alla funzione o missione della musica colta – classica, il racconto è permeato dalla presenza dell’arpista più brava del mondo incoronata all’International Harp Contest in Israel 2022. Questo saggio intende avvicinare lo strumento al pubblico profano. Il tributo va a tutte le eccellenze. A quelle pugliesi, italiane o estere, che nel nome dell’Arte operano e sono legate, per promuovere la cultura del rispetto e la pace che passano attraverso l’ascolto individuale e partecipato. “La dea dell’arpa” è pubblicato da Passerino Editore e disponibile nelle librerie digitali.

La dea dell’arpa

Vincitrice del Primo Premio all’International Harp Contest in Israel 2021, Claudia Lucia Lamanna è la seconda italiana nella storia ad aggiudicarsi, dopo oltre vent’anni, la più antica e prestigiosa competizione per arpa al mondo. La sua “vibrante energia” (Harp Column), “maturità interpretativa” e “solida personalità” (La Voce di Mantova), unite al suo “virtuosismo naturale” (La Gazzetta del Mezzogiorno), la rendono una tra i più entusiasmanti solisti della nuova generazione. È inoltre vincitrice di oltre 30 competizioni internazionali. Si è esibita con numerose orchestre. Ha all’attivo due album – il primo rilasciato con l’etichetta discografica Linn Records, il secondo con Orchid Classics. Nel 2020 ha pubblicato la trascrizione per arpa delle Variaciones del Fandango español di Félix Máximo López, che rappresenta un’aggiunta totalmente nuova al repertorio arpistico. Il suo percorso di studi: dopo la Laurea di Secondo Livello con Lode e Menzione d’Onore presso il Conservatorio di Musica “Nino Rota” di Monopoli, si è ulteriormente perfezionata presso la Norwegian Academy of Music di Oslo, e alla Royal Academy of Music di Londra, infine ultimato la sua formazione presso l’Università Mozarteum di Salisburgo. La pugliese nativa di Noci è stata anche l’arpista dell’Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala di Milano per il biennio 2017-2019. Classe 1998, destinata a una carriera longeva, La dea dell’arpa va ascoltata dal vivo in un recital.

Strage di Capaci, il lungo esilio dei sopravvissuti

Ricordare sempre. Sebbene non sia sufficiente: il 23 maggio 1992 mille chilogrammi di tritolo, azionati con telecomando da Giovanni Brusca, fanno saltare in aria un tratto dell’autostrada A29 che collega Palermo con l’aeroporto di Punta Raisi, presso lo svincolo di Capaci. Accade nel momento esatto in cui transitano tre automobili. Quella su cui viaggia Giovanni Falcone insieme alla moglie, e le due auto della scorta. Per mano di Cosa Nostra, muoiono il magistrato antimafia e Francesca Morvillo, gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Quattro sono i sopravvissuti. Due di loro, l’agente di scorta Angelo Corbo e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza, hanno raccontato recentemente come è cambiata la loro vita.

Capaci, la strage dopo la strage

“La mia vita è cambiata. Ma è dopo l’attentato che è iniziata la mia strage: dopo 18 mesi di malattia, sono tornato in tribunale e mi aspettavo un’accoglienza diversa”. “Invece, non riuscivano a trovarmi un posto, una mansione – denuncia Giuseppe Costanza a Caro Marziano, il programma di Pierfrancesco Diliberto e Luca Monarca, andato in onda su Rai3 – mi facevano fare il tappabuchi, a volte ho pensato che in questo Paese è una disgrazia se rimani vivo”. L’uomo ha già ricordato che per anni non è mai stato invitato alle celebrazioni commemorative. Anche se quell’attentato lo hai vissuto sulla propria pelle, lui. Invece le celebrazioni sono state una passerella istituzionale utile a personaggi illustri. Si ricorda la protesta del testimone diretto sopravvissuto che, il 23 maggio 1994, arrivò a incatenarsi davanti il tribunale di Palermo, per far sentire la propria voce. Una delle tante mortificazioni subìte dopo la strage di Capaci. 

Nulla è cambiato, in sostanza, dal ‘92

Le inquietudini di Giuseppe Costanza trovano condivisione nelle parole di Angelo Corbo. Che facendo riferimento alla preparazione del cosiddetto attentatuni, ha aggiunto la presenza di soggetti esterni alla mafia come possibilità concreta. Parla anche dell’indecente trattamento ricevuto in ospedale dagli agenti rimasti feriti dall’esplosione. Prima che il circo mediatico prendesse il via. E poi dopo: trattati, i sopravvissuti, come testimoni scomodi persino per le istituzioni. Adesso Angelo Corbo raggiunge le scuole. Lo fa per non rimuovere la strage di Capaci dalla memoria collettiva, per sensibilizzare le nuove generazioni alla cultura della legalità, alla lotta al crimine; ma anche per non pensare a quanto gli è accaduto, dice, non negando il cambiamento, la maggiore attenzione data al fenomeno mafioso. Dall’altro lato c’è l’ipocrisia. La commemorazione? “È un anniversario dal quale vorrei scappare. La falsità delle istituzioni è qualcosa che ancora mi dà fastidio”. Perché “nulla è cambiato dal ‘92”. E per questo il poliziotto, che continua a credere nello Stato, e nel servizio pubblico, non rimette quasi più piede nella sua terra natia. La denuncia si accompagna al senso di inadeguatezza voluto proprio dalle istituzioni. Da quella parte corrotta, che ha affidato la sicurezza di Giovanni Falcone (e poi pure la vita di Paolo Borsellino) a persone impreparate al delicato compito specifico.

Ingrid Bergman e Roberto Rossellini: “La paura”

L’otto maggio nasceva uno dei padri del neorealismo, regista di “Roma città aperta”. Ovvero Roberto Rossellini. Rivediamo le immagini tratte da “La paura”, l’ultimo film, datato al 1954, nel quale il grande regista lavorò con Ingrid Bergman – il loro sodalizio artistico cominciò nel ’49 con “Stromboli – Terra di Dio”. Si tratta di un thriller. Poco conosciuto, e molto distante, potremmo dire, dalla violenza del genere che si aspetterebbe oggi il pubblico. I temi sviluppati sono quelli che ruotano attorno al tradimento e al senso di colpa fortissimo. La prima versione è doppiata in lingua inglese

Amnesty International: stop al trasferimento di armi a Israele

Le forze armate israeliane hanno utilizzato armi di fabbricazione statunitense per condurre attacchi illegali o per uccidere civili. Hanno fatto uso delle Joint Direct Attack Munitions (JDAM) e delle Small Diameter Bombs (SDB): lo denuncia Amnesty International nel rapporto che fornisce un resoconto degli incidenti avvenuti nella campagna israeliana contro i militanti di Hamas – nella Striscia di Gaza e non solo. Casi nei quali sono stati feriti o uccisi dei civili.

Il rapporto di Amnesty International

Gli incidenti sottolineano il modello generale di attacchi illegali da parte delle forze israeliane e il rischio estremamente elevato che armi di fabbricazione statunitense e altri materiali e servizi forniti al governo israeliano vengano utilizzati in violazione del diritto internazionale. È quanto si legge nel rapporto. Quanto sta avvenendo, dunque, secondo Amnesty International, dovrebbe essere indagato come potenziale crimine di guerra.

Il monito

“Il governo degli Stati Uniti deve sospendere immediatamente il trasferimento di tutte le armi e di altri articoli al governo israeliano fino a quando non sarà dimostrato il rispetto del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani”. Lo stop va condiviso. Il rapporto di Amnesty International cita anche altri casi in cui le armi non sono state identificate o non erano di origine statunitense.

I numeri

Le autorità palestinesi affermano che più di 34mila persone sono state uccise negli attacchi aerei israeliani e nelle operazioni di terra successivi agli attacchi dei militanti dello scorso sette ottobre. La maggior parte delle quali sono donne e bambini. Va ricordato che gli Stati Uniti sono stati a lungo il principale sostenitore militare di Israele, fornendo più di 3 miliardi di dollari all’anno in aiuti alla sicurezza. Intanto proseguono i raid israeliani su Rafah. Per la cessazione delle ostilità c’è una convergenza, ha riferito all’agenzia Reuters una fonte diplomatica francese, ma permangono gli ostacoli sulla natura a lungo termine della tregua.

Suicidi in carcere, le morti silenziose che sono in aumento costante

Sono esseri umani. E la vita di ogni persona è sacra: lo è quella dei detenuti che abitano le carceri italiane. Soggetti da riabilitare. Uomini e donne che, il più delle volte, non trovano nella casa circondariale il luogo della espiazione e rieducazione ma un vero proprio inferno, capace di tradursi in una trappola mortale. Si pensi che i suicidi in carcere sono già 30 nel 2024. Si va verso un nuovo record, dopo quello registrato due anni fa, con 85 decessi accertati – nel 2023 erano 71. Pertanto la media attuale è di un suicidio ogni tre giorni e mezzo.

Suicidi in carcere e sovraffollamento

L’altro dato allarmante riguarda il tasso di affollamento. Lo dicono i numeri riferiti a quest’anno: al 31 marzo le persone detenute erano 61.049, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti. “Le cause di questa crescita sono diverse: maggiore lunghezza delle pene comminate, minore predisposizione dei magistrati di sorveglianza a concedere misure alternative alla detenzione o liberazione anticipata, introduzione di nuove norme penali e pratiche di Polizia che portano a un aumento degli ingressi”, riporta il dossier Nodo al collo pubblicato da Antigone. I tassi di affollamento più alti a livello regionale si continuano a registrare in Puglia (152,1%), in Lombardia (143,9%) e in Veneto (134,4%). Solo il Covid ha frenato la crescita nel recente passato. Dalla fine del 2019 alla fine del 2020, a cause delle misure deflattive adottate durante la pandemia, le presenze in carcere erano infatti calate di 7.405 unità, precisa lo stesso XX rapporto dell’associazione italiana che si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario.

Le vittime

L’età media di chi si è tolto la vita è di 40 anni. La fascia più rappresentata, infatti, è quella compresa tra 30 e 39 anni. Muoiono gli stranieri più degli italiani. Considerando che la loro presenza in carcere è leggermente inferiore a un terzo della popolazione detenuta totale (31,3%). Oltre alle persone giovani o giovanissime, a quelle di origini straniera, sono numerose le situazioni di presunte o accertate patologie psichiatriche, riconducibili ai suicidi in carcere. Il che certamente non può essere considerata la normalità. Per alcuna ragione, infatti, la sofferenza di un individuo dovrebbe essere portata alla disperazione totale. Tra le vittime in carcere ci sono persone passate dal tunnel della tossicodipendenza. O quelle che erano senza fissa dimora.

Cosa si può fare per arrestare il trend di crescita allarmante? Secondo gli esperti di Antigone occorre favorire percorsi alternativi al carcere, e migliorare la qualità della vita all’interno degli istituti, al fine di ridurre il più possibile il senso di isolamento e di marginalizzazione, che stanno alla base dei suicidi in carcere. Concretamente si potrebbe incentivare una maggiore apertura nei rapporti con l’esterno. Le telefonate andrebbero liberalizzate: “Poter parlare con una persona cara può far tanto, per chi si trova in una situazione di profondo dolore potrebbe anche salvare la vita”. Occorrerebbe poi ripensare il sistema carcere. Che già da tempo, ormai, non è più il luogo dove marcire per aver commesso uno o più reati.

Barcellona 2024, gli highlights del ritorno di Nadal: Cobolli non ha scampo

Una lunga sosta. Un ritorno in grande stile per Rafael Nadal, che al torneo Atp 500 di Barcellona si è sbarazzato di Flavio Cobolli in due set: l’ex numero uno del mondo ha vinto nella gara di esordio con il punteggio di 6-2, 6-3. Senza storie il match. Anche se l’azzurro, nel secondo set, era riuscito a strappare il servizio all’avversario specialista della terra rossa. Sebbene la vittoria fosse scontata, appare incoraggiante la prestazione offerta dal campione che ha trentasette anni, e nessuna intenzione di appendere la racchetta al chiodo, a causa dei guai fisici e dell’avanzare dell’età. Adesso il maiorchino dovrà vedersela con l’australiano Alex De Minaur. I suoi numeri e i suoi tic in campo ci erano mancati: più di qualcuno deve aver fatto il tifo per lui, tra gli italiani, sostenendo la ripresa di un mostro sacro.

Genocidio a Gaza, quando le atrocità tendono a fare rima

“Quando Israele bombarda e spara ai civili, blocca gli aiuti alimentari, attacca gli ospedali e interrompe le forniture d’acqua, ricordo gli stessi oltraggi in Bosnia”. Così sulle pagine del Washington Post Peter Maass denuncia quanto sta accadendo ai danni del popolo della Palestina. “Quando le persone in fila per la farina a Gaza sono state attaccate – continua il giornalista e scrittore americano, reporter di crimini di guerra – ho pensato ai cittadini di Sarajevo uccisi in prima fila per il pane e ai responsabili che in ogni caso hanno insistito sul fatto che le vittime erano state massacrate dalla loro stessa parte”. Ciò è semplicemente inaudito. Rispondere alle atrocità con altre atrocità. Nella fattispecie, all’attacco del sette ottobre scorso portato dai combattenti di Hamas sui partecipanti del festival musicale Supernova e sugli israeliani uccisi nelle loro case, nel kibbutz di Kfar Aza.

La testimonianza diretta

Altro che caso “plausibile” di genocidio, come lo ha definito la Corte internazionale di giustizia: chi ha familiarità con i crimini di guerra non esita nel riconoscere quanto compiuto da Israele come un vero e proprio crimine, per la presenza di prove a sufficienza. Peter Maass ha seguito la guerra in Bosnia per il Post e l’invasione dell’Iraq per il New York Times Magazine. Sa pertanto quello di cui noi siamo a conoscenza solamente attraverso gli organi di informazione, tutt’altro che affidabili al 100 per cento, in ogni Paese, dittatoriale o democratico. Riportando anche un episodio toccante (un colpo di pistola letale su un’anziana che teneva per mano il piccolo nipote e una bandiera bianca), il reporter americano dichiara che gli attacchi avvenuti di giorno non sono stati accidentali. E non vanno sottaciute le atrocità, quando emergono. Né si può osservare la logica dell’occhio per occhio, dente per dente. Che il diritto internazionale non contempla.

I numeri del genocidio

Tredicimila bambini uccisi. E molti altri feriti. Case, scuole e ospedali in rovina. Insegnanti, medici e umanitari morti, tra i civili. Oltre ai 7 cooperanti uccisi a Gaza, “colpiti involontariamente” a detta del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. In sei mesi di guerra spaventosa le vittime palestinesi sono in totale oltre 33mila. Lo denuncia Hamas. E secondo il ministero della Sanità con sede a Ramallah, almeno altri 459 palestinesi, fatti oggetti di violenze, hanno perso la vita nella Cisgiordania occupata. Più di 359 le persone uccise in Libano, dei quali almeno 70 civili, riferisce l’Afp. A fronte di questi numeri, c’è da rivalutare il negazionismo in senso positivo: la Shoah non è stata nella storia l’unico genocidio, per cui si intendono gli “atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” (questa la definizione legale); e stilare una classificazione dei genocidi sarebbe ingiusto e pericoloso. Così Peter Maass rivela che la sua esperienza maturata sui crimini di guerra gli ha insegnato che essere ebreo significa opporsi a qualsiasi nazione che commette crimini di guerra.

Nba, gli highlights della clamorosa rimonta di Atlanta su Boston: 30 punti

Il risultato finale è già fuori del comune: 120-118. Lo è certamente nelle nostre categorie. Ma pure in Nba, tra gli undici incontri di ieri, per come è maturato il successo di Atlanta su Boston: la squadra locale è riuscita a recuperare ben 30 punti. Così gli Hawks hanno interrotto la striscia positiva di 9 risultati dei Celtics. Che pure potevano contare sul contributo di Jayson Tatum, autore di una prestazione monstre, con 37 punti – nel primo tempo la partita sembrava chiusa. Decisivo il tiro dall’arco di De’Andre Hunter a dieci secondi dalla fine.

Dagli Stati Uniti, dal campionato più bello e più spettacolare del mondo, la Nba e dalle imprese sportive, una lezione per tutti: se sei sotto di brutto, non darti per vinto!

“Harry, prendi la macchina”. E Fritz Wepper raggiunge l’ispettore Derrick

L’attore tedesco è morto all’età di 82 anni. Se n’è andato in una casa di riposo in Baviera, per le complicazioni di un tumore. Era famoso, Fritz Wepper, per aver interpretato il ruolo del fidato assistente dell’ispettore Derrick nella serie tv andata in onda per 24 anni: un prodotto di successo che, esportato in tutto il mondo, fu poi censurato in seguito a una rivelazione scottante. Ovvero quando si scoprì del passato di Horst Tappert da militante delle SS. Una contraddizione non tollerata, per colui che portava in scena un gentiluomo, un ispettore mai violento e dai modi raffinati, all’interno di una serie caratterizzata dalla scenografia asciutta e dai finali mozzati.

Ecco Fritz Wepper alias Harry Klein in compagnia dello stesso Horst Tappert, e l’inconfondibile sigla de L’ispettore Derrick

Eugenio Maria Fagiani, la missione della Musica portata in Russia

Sarà criticato o semplicemente ignorato. Ma è inattaccabile il sunto del suo pensiero libero: il mondo dovrebbe imparare dalla storia, per non ripetere gli errori passati, e non creare una nuova cortina di ferro, ha detto Eugenio Maria Fagiani. Che per unire offre il contributo della sua musica. L’organista e compositore bergamasco si sta preparando per una tournée in Russia. Reduce dal Festival internazionale di Kazan, il musicista è stato tra i protagonisti dell’evento diretto dall’Orchestra Sinfonica Accademica di Stato della Repubblica del Tatarstan, e non intende porsi dei limiti. Non ritiene inopportuno esibirsi nel Paese che ha attaccato militarmente l’Ucraina. Se non altro, perché dei media occidentali non si fida: lo ha detto chiaramente in una intervista rilasciata agli organi di informazione della Russia, a Izvestia in esclusiva. Terrà 6 concerti nel mese di aprile. Suonerà a San Pietroburgo con un’orchestra italiana, a Mosca, Arkhangelsk, e a Chelyabinsk.

Il contributo musicale di Eugenio Maria Fagiani

“Penso che la mia musica sia piena di luce, di gioia di vivere. Sono un profondo credente, quindi sono sempre pieno di speranza, e la musica riflette questo: ha energia”. Così il maestro Fagiani si è messo in sintonia con il Festival, nel senso e nei contenuti, accogliendo la richiesta della professoressa Evgenia Krivitskaya, curatrice del programma scelto. L’italiano ha ammesso la propria soddisfazione nell’aver mostrato il panorama della musica italiana. Ovvero nell’aver contribuito a creare un’immagine diversa da quella che il pubblico è abituato a vedere nei concerti italiani: non ouverture e frammenti d’opera, ma altro: il repertorio sinfonico. Peraltro, sono stati scelti tre compositori toscani. Ovvero Boccherini e Sborghi, oltre allo stesso Fagiani. Opere distanti sul piano temporale ma tenute insieme geograficamente e trasversalmente (“La cultura è cultura. E nessuno dovrebbe interrompere i legami culturali”).

L’invito al dubbio

Riguardo alle critiche a Francesco, per la posizione espressa sulla guerra in Ucraina, Eugenio Maria Fagiani che oltre a svolgere attività concertistica presta servizio presso il santuario francescano della Verna (ha suonato pure in Vaticano, a dicembre), sottolinea che le parole del papa vengono approvate quando sono utili ad alcuni politici: “Se dice qualcosa che è in linea con i Paesi occidentali, dicono: ‘Sì, ascoltate Francesco’. Ma non appena esprime una posizione a loro sfavorevole, lo criticano immediatamente: Non dovrebbe parlarne, non sa nulla…”. L’opinione del papa andrebbe rispettata. Anche se non si è credenti, aggiunge. “Oggi è diventato molto difficile esprimere una qualsiasi posizione: si viene immediatamente criticati da ogni parte”. E fa l’esempio del Medio Oriente: “Lì è in corso una vera e propria tragedia E la situazione non è affatto bianca o nera. Quindi sono ben lungi dal pensare che in altre regioni tutto sia univoco”.

Il ragionamento è giusto. Peccato che ci sia una grande omissione all’interno della lunga intervista: nella logica pacifista promossa attraverso la musica, mancano parole di ferma condanna verso l’aggressione orchestrata da Vladimir Putin. O forse c’erano; ma i media russi, non più affidabili dei nostri, ne hanno fatto oggetto di censura.

Undici anni con Francesco: il coraggio di predicare e praticare la pace

Le sue parole sono state fraintese e criticate. Non da tutti, in verità – larga parte dell’opinione pubblica deve essere dalla sua parte. Non c’è niente di nuovo ma è sempre rivoluzionario quanto ha detto papa Bergoglio sulla guerra in Ucraina. Sono undici anni infatti (tra poco, mercoledì prossimo 13 marzo, ricorre l’anniversario del Pontificato) che Francesco parla di pace, con la forza e con il coraggio di chi sa andare controcorrente, se necessario. Più di undici anni che il religioso parla di amore e di fratellanza universale. E la pace non si costruisce con le armi.

Il coraggio di negoziare

Il papa usa il termine bandiera bianca a indicare la cessazione delle ostilità. Lo ha precisato Matteo Bruno, direttore della sala stampa della Santa sede, dopo l’intervista rilasciata da Francesco alla Radio televisione svizzera, due giorni fa. Parole che sono state strumentalizzate in una scia polemica inarrestata. Quanto richiesto, auspicato, dal pontefice è la tregua da raggiungere (dopo tante bombe, vittime e ostilità) attraverso il coraggio del negoziato. “Oggi, per esempio nella guerra in Ucraina, ci sono tanti che vogliono fare da mediatore: la Turchia si è offerta per questo, e altri. Non abbiate vergogna di negoziare prima che la cosa sia peggiore”, ha detto papa Bergoglio alla stessa Rsi. Le sue dichiarazioni vanno contestualizzate in tempi di crisi e di violenze generalizzate. La sua missione resta quella di moltiplicare non l’angoscia, ma la speranza.

L’escalation, il rischio da scongiurare

La violenza genera altra violenza. L’incidente, dietro l’angolo; e oltre al suicidio di un Paese devastato, il pericolo dell’allargamento del conflitto in Ucraina con il coinvolgimento della Nato è reale, sino al rischio di una terrificante guerra nucleare. Pensiamo alle recenti dichiarazioni del Capo di Stato della Francia Emmanuel Macron o alle esercitazioni della Nordic Response propedeutiche a una risposta o un’azione militare a sostegno del Paese invaso. Intanto, il presidente ceco Petr Pavel ha già dichiarato che le truppe della Nato potrebbero svolgere attività di sostegno direttamente sul territorio dell’Ucraina. Perché questo non violerebbe alcuna regola internazionale. Sebbene ci sia da fare una netta distinzione tra il dispiegamento delle truppe da combattimento e l’eventuale utilizzo di altre in attività di cosiddetto appoggio, nelle quali l’Alleanza ha già esperienza, questa mossa potrebbe essere mal interpretata da Mosca. Ovvero letta come segnale di una escalation che bisogna avere invece il coraggio di arrestare.

Nordic Response 2024, l’esercitazione Nato letta come una dichiarazione di guerra

Una prova diversa dalle altre. Sebbene, infatti, le esercitazioni della Nato si siano sempre fatte, quella in svolgimento nel nord Europa assume quest’anno un’altra valenza: rappresenta una risposta efficace a un pericolo concreto, all’interno dello scenario di crisi internazionale che stiamo vivendo. Dobbiamo essere pronti a difendere i nostri confini, in sostanza. Non la pensano così nella parte avversa: durante l’esercitazione denominata Nordic Response 2024, avviata ieri 4 marzo in Norvegia, Svezia e Finlandia, verrà praticata un’operazione offensiva contro la Russia. Lo hanno dichiarato alcuni esperti militari.

Nordic Response 2024

L’esercitazione coinvolgerà circa 20mila persone provenienti da 14 Paesi. Verranno dispiegati oltre 100 elicotteri e aerei da combattimento, e più di 50 navi da guerra; almeno 50 sottomarini, fregate, corvette, portaerei e varie navi anfibie – anche l’incrociatore portaeromobili Garibaldi e la nave San Giorgio della Marina Militare Italiana. Tali risorse saranno impegnate fino al quattordici marzo nello spazio aereo della Svezia e della Finlandia, nelle regioni settentrionali della Norvegia, e nelle aree marine adiacenti. Questi i numeri imponenti di quanto sta accadendo nel cuore dell’Artico con il coinvolgimento dei Paesi membri dell’Alleanza atlantica. Segnatamente: Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti. Oltre a Finlandia, Norvegia e Svezia. L’obiettivo dichiarato è l’addestramento utile alla difesa e alla sicurezza dei Paesi del Nord Europa. “Dobbiamo essere in grado di reagire e fermare chiunque cerchi di sfidare i nostri confini, i nostri valori e la democrazia”, ha detto Throne Strand, comandante del Norwegian Air Operations Center.

La risposta di Mosca

“Si sta elaborando un’operazione diretta contro la Russia, di natura puramente offensiva. La Nordic Response e la Steadfast Defender 2024 nel loro complesso sono nettamente diverse dalle precedenti per la loro natura: per la durata, la composizione dei partecipanti, la partecipazione di massa e il fatto che dichiarano apertamente di praticare attacchi sul nostro territorio”. Così l’ammiraglio Sergei Avakyants mette in guardia dai rischi legati alla stessa esercitazione della Nato. Più cauto del miliare, già comandante della Flotta russa del Pacifico, è il viceministro degli Esteri russo Aleksandr Grushko nel dichiarare che le manovre di risposta nordica sono di natura dimostrativa e provocatoria, e che la Russia le sta monitorando. Il diplomatico ha inoltre considerato che qualsiasi esercitazione aumenta il rischio di incidenti militari. Soprattutto in prossimità geografica della linea di contatto. C’è poi l’intervento dell’esperto militare Aleksey Leonkov il quale ha sottolineato la grande estensione dei piani di esercitazione della Nato, quest’anno, tutti accomunati da uno scenario antirusso. Questa la lettura dell’accadimento nel Paese che ha aggredito l’Ucraina militarmente.

Macron vuole l’Europa in guerra: il presidente Mattarella intervenga

Due anni di conflitto in Ucraina non sono bastati per risolvere la crisi né per scongiurare l’allargamento dello stesso con il coinvolgimento della Nato. Ipotesi da respingere con tutte le forze intellettuali, per il bene nostro e dei nostri ragazzi, delle generazioni che verranno: è il senso del forte appello lanciato dall’Associazione Pace Terra Dignità. Che chiede al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella di imporre il rispetto della Costituzione. La Carta costituzionale italiana, come sappiamo, ripudia la guerra. Non Emmanuel Macron che ha minacciato un intervento delle forze armate dei Paesi europei per sconfiggere la Russia aprendo così una nuova fase.

L’imperativo categorico, morale: vigilare

L’Associazione Pace Terra Dignità anzitutto chiama in causa il Presidente della Repubblica e ammonisce il governo a tenere ben fermo che gli art. 21 e 52 della Costituzione in nessun modo consentirebbero la partecipazione dell’Italia a questa guerra, mancando ogni presupposto, se non nei processi alle intenzioni e nelle fantasie ammalate, di una sacra difesa della Patria. È il cuore dell’appello rivolto alla comunità dei social e alla rete mediatica “a farsi eco di questo imperativo morale”. Ovvero a vigilare nell’azione di contrasto alle spinte belliciste provenienti da Macron e non soltanto. Il rischio è di scivolare verso una guerra mondiale, dopo 79 anni di tregua, che non è mai riuscita a diventare vera pace, rileva la stessa associazione promossa da Michele Santoro.

Il piano Macron

Il Capo di Stato della Francia, in verità, non ha parlato di una missione Nato, bensì di una coalizione militare di “volenterosi” che assicurino l’invio in Ucraina di soldati occidentali. Questo accadrebbe nel caso in cui Donald Trump tornasse alla Casa Bianca. Sebbene si tratti di un’ipotesi remota, per la prima volta attraverso Macron si parla, in modo chiaro, dell’invio di truppe occidentali a supporto dell’esercito ucraino: dovrebbe bastare per spaventare. E ahinoi per provocare la reazione del Cremlino. Sarebbe guerra diretta, dagli esiti imprevedibili, incerti e per tutti drammatici, quand’anche dovesse concludersi con la sconfitta della Russia sul campo dell’Ucraina.

Sepideh Rashno, la donna simbolo di una resistenza che non incontra solidarietà

È finita in carcere solo per non aver indossato correttamente il velo obbligatorio islamico. Perché lì la mortificazione della donna risulta essere la normalità. Lei ha solamente ventinove anni, Sepideh Rashno, e per quanto ha commesso dovrà scontare una pena di 3 anni e quattro mesi. La donna era già stata in carcere la scorsa estate uscendone per un ricovero in ospedale. Ci è entrata di nuovo, sabato scorso, senza velo: un atto di insubordinazione di chi reclama la libertà. In quella parte del mondo, non troppo lontana, l’Iran, dove le donne non possono vestire come a loro pare. Non sono meritevoli di avere garantiti quei diritti fondamentali per l’essere umano.

Chi è Sepideh Rashno

La scrittrice iraniana, classe 1994, artista e attivista, si è fatta conoscere con un video diventato virale: nel luglio 2022, su un autobus, ha avuto un alterco con un’altra donna per le regole dell’hijab. Ovvero per non aver indossato il velo correttamente. Dalla stessa donna, Rayeheh Rabii, deve aver subito un’aggressione non solo verbale. Poi è stata probabilmente la tortura a causare l’emorragia interna che l’ha portata al ricovero in un ospedale di Tehran. Qualche giorno dopo l’abbiamo trovata in un video trasmesso dalla televisione di Stato IRIB: una confessione che non appare spontanea, le pubbliche scuse di chi non ha commesso proprio niente di male. Dalla prigione di Evin è stata rilasciata il 30 agosto fornendo come garanzia una somma corrispondente a circa 29mila dollari.

La solidarietà

Ben poco si è fatto, nei Paesi che amano la democrazia e la libertà, per questa giovane donna, che nello scorso mese di novembre è stata inserita nella lista delle 100 donne della BBC. Poco si fa per condannare le condizioni delle ragazze iraniane. L’indignazione, invece, dovrebbe essere trasversale, e assumere la forma della protesta in piazza. Perché l’accusa mossa a Sepideh Rashno (“promozione della corruzione morale”) dovrebbe indignare. La stessa sorte è capitata a tante altre donne colpevoli di aver violato quella regola dell’hijab.

Russia, bombardamento di Belgorod: un bambino tra le 7 vittime civili

Nelle ore in cui si parla della morte di Aleksey Navalny, tenuta accuratamente nascosta dai media russi locali, la scomparsa (improvvisa, ma non tanto) dell’oppositore di Vladimir Putin in carcere, arriva un aggiornamento sul tragico bilancio di quanto accaduto lo scorso quindici febbraio al confine con l’Ucraina. Siamo a Belgorod: un bombardamento attribuito alle forze ucraine ha fatto 7 morti, tra cui un bambino di un anno, oltre ad aver danneggiato un centro commerciale, case e automobili. Diciannove i feriti.

La città viene spesso raggiunta dai missili e dai droni ucraini – alla fine dello scorso anno l’attacco più grande aveva dato la morte a 25 persone. Un effetto collaterale della guerra russo-ucraina, l’uccisione di civili, da ambo le parti. A dare notizia dell’ultimo attacco (due missili hanno colpito anche il campo sportivo di una scuola, oltre al centro commerciale) è stato il governatore dell’omonima regione di Belgorod Vjačeslav Gladkov. L’agenzia di stampa statale Ria Novosti aveva anche pubblicato un video che mostrava i danni materiali.

Bombardamento di Belgorod, la condanna unanime

“Tutti coloro che hanno trasferito e stanno trasferendo denaro per le Forze Armate dell’Ucraina (AFU) e per il resto del marciume neonazista dovrebbero sapere esattamente per cosa stanno andando. E dobbiamo qualificarlo di conseguenza, sia moralmente che legalmente”. Così la portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova è intervenuta sul suo canale Telegram con un messaggio di condanna. Che è arrivata anche dalle Nazioni Unite. Il portavoce del Segretario generale Stephane Dujarric ha infatti parlato di azioni inaccettabili: “Ribadiamo ancora una volta che gli attacchi ai civili e alle infrastrutture civili sono vietati dal diritto umanitario internazionale. Sono inaccettabili e devono cessare immediatamente”. Lo stesso Stephane Dujarric ha sottolineato il lavoro offerto sul campo dagli operatori umanitari che continuano a fornire assistenza ai civili. A quanti soffrono a causa dei combattimenti in corso. Per una guerra di logoramento, che chissà quando e come finirà.

Vale la pena vivere un giorno in più

Ha nome rancore il grande assente nella vita di Giovanni Allevi. Un essere umano, nel vero senso del termine, capace di apprezzare i colori dell’alba e del tramonto “goduti” dal letto di ospedale, distinguendoli; di cogliere il positivo dentro il dramma e la sofferenza, piombati improvvisamente nella sua esistenza, e immeritatamente. È il ritorno di Giovanni Allevi esibitosi in pubblico dopo due anni di assenza. Un momento di straordinaria intensità: il musicista che al Festival di Sanremo 2024 ha citato Immanuel Kant (Critica della Ragion Pratica) per definire l’unicità della persona a cui si rivolge, ci ha offerto una lezione di vita che resterà per sempre.

“Eleonora Duse” di Stefania Romito: il perdersi come ragione di vita

Tra realtà e finzione il carteggio tra Arrigo Boito e Eleonora Duse, la “Divina” legata a Gabriele D’Annunzio, della quale ricorre il centenario della morte

di Gianluigi Chiaserotti*

Stefania Romito in questo splendido libro ci accompagna verso una lettura articolata di Eleonora Duse, personaggio, ma soprattutto attrice e donna.

Eleonora Duse – il primo Amore con Prefazione di Pierfranco Bruni (pagg. 116, Collana Nuovo Rinascimento, Passerino Editore, 2023) è un saggio della scrittrice, saggista e fine giornalista Stefania Romito. È stato scritto in vista nel corrente anno, primo centenario della morte dell’attrice Eleonora Duse (1858-1924).

L’attrice, detta la “Divina”, si trova nella stanza dell’albergo di Pittsburg, quasi come se fosse il testimone dei suoi ultimi momenti di vita (vi morirà il 21 aprile 1924), ed esso diviene un involontario teatro (passione di una vita) ma privilegiato di intime confessioni.
Sembra come se la Duse si rivolgesse al lettore in un dialogo con la sua anima e con i suoi veri e unici amori: il maestro Arrigo Boito e il “Vate” Gabriele d’Annunzio.

In questo quadro, dipinto alla grande dalla Romito, si ravvisa un intimo colloquiare della Duse con sé medesima e come scritto nell’introduzione: «è la straordinaria capacità di vivere intensamente le emozioni di una vita assaporandone fino in fondo l’essenza in uno smarrimento costante dei sensi».
E lo “smarrirsi” è per “ritrovarsi” oppure “perdersi” nuovamente nel sentimento dell’amore, che poi è la ragione di una vita.

Questi sono gli ultimi atti della vita della “Divina”, narrati in terza persona, ma avendo la stessa come spettatrice. Ed ecco il primo incontro con Boito, la tournée in Sud America, il ritorno ed il nuovo incontro che sarà l’incipit di una relazione che durerà per oltre un decennio. Il libro è dedicato ad una donna la quale interpretò, e bene, la propria esistenza che poi è una recita, e che ha rappresentato le opere dei più grandi drammaturghi con quella unica passionalità. Perché il teatro è sicuramente vita, ma soprattutto Amore.

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