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CHI SONO - Giornalista, scrittore, appassionato di sport Bellezza musica. Gli studi classici hanno alimentato in me la voglia di dedicarmi alla scrittura. Nel 2020 ho fatto esordio nella narrativa con “La buona battaglia – Sognando i Giochi del Mediterraneo” (Passerino editore). Poi con “Benny per sempre”, nel 2021, ho inteso omaggiare la figura della campionessa Benedetta Pilato, baby fenomeno del nuoto e mia concittadina. In questo blog pubblico i miei articoli per fare esperienza di condivisione preservando il diritto alla ricerca delle notizie positive. Quelle da dare senza censura. A chi mi legge, do il benvenuto

Per ragazzi fino a 99 anni

C’è un perseverare mai diabolico nella tutela della bellezza che passa dalla cura del creato. Dalla difesa dell’ambiente e di ogni abitante. È un’operazione virtuosa, e pure contagiosa: Mimmo Laghezza l’aveva praticata con “Il formicaio delle Zampe pelose” (Ass. Multimage, 2017) facendosi interprete della volontà di riscatto della comunità ionica rappresentando, con originalità, la bellezza e il dramma di un territorio oppresso dai veleni dell’industria pesante. Adesso lo scrittore e giornalista di Taranto ci riprova attraverso un’opera scritta a quattro mani con Manuela Barbaro. Si intitola “Mariolino va per mare”, pubblicato dalla stessa Multimage nella collana Lisolachecè, ed è un racconto per bambini e per ragazzi, concepito come atto d’amore verso la città dei due mari. Centocinquantanove pagine immerse nei pensieri e nelle immagini della professoressa Barbaro – bellissime illustrazioni. Dentro ci sono gli odori del mare, le fatiche di chi deve lavorare, darsi da fare, le bellezze nascoste della “città vecchia” che chiede perennemente di essere valorizzata; i riti, le tradizioni popolari di una comunità che sa essere generosa e sempre accogliente.

È un pubblico trasversale quello a cui si rivolgono i due autori. Vi rientrano ragazzi “fino a 99 anni”, confida lo stesso Mimmo Laghezza, lasciando intendere che non c’è un’età limite oltre la quale si smette di essere lucidi sognatori, uomini e donne desiderosi di rendere questo mondo sempre più abitabile. Persone capaci di emozionarsi di fronte al miracolo che si rinnova nel quotidiano. Perché la Taranto “sospesa tra una bellezza senza parole e la bruttura dei fumi senza logica” ha in sé, preservate, risorse che attraggono e incantano lo spettatore: al primo posto, naturalmente, spicca il mare, che per il tarantino rappresenta un orizzonte di prosperità e di pace.

Altro cuore pulsante del racconto è la scuola. Che resta, ancora oggi, il luogo della formazione, più che della mera istruzione. Così Mariolino va per mare ha carattere pedagogico e il merito di affrontare tematiche complesse come l’emergenza migranti. A far da sfondo la fede, intesa come sentimento di empatia e di compassione verso i più bisognosi. Mentre l’amore è rappresentato in tutte le sue forme mirabolanti. Ebbene, l’atteggiamento proattivo di chi si apre alla vita, alla natura e alla bellezza, rappresenta la miglior risposta alla contraddizione offerta dalla stessa esistenza. Il protagonista della storia ha soltanto otto anni. Ma anche un bagaglio di esperienze: confrontandosi con la realtà, può crescere bene e in fretta, potendo contare su una grande figura di riferimento: il nonno, che lo fa imbarcare a bordo del suo peschereccio. Il libro rivolto ai più piccoli ricorda al lettore quanto gli stessi possono farsi portatori di valori e ideali sani. Con i loro occhi, con la loro forza energia coraggio, l’umanità può scorgere la bellezza nel dramma riscattando un’esistenza dominata dalla cultura dell’indifferenza e dai nemici della vita spirituale.

(Pubblicato su “Lo Jonio” nr 211)

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L’inutile pressing dei sindaci sull’obbligo della mascherina all’aperto

“Se ci fosse un provvedimento nazionale, come abbiamo spiegato al Governo, sarebbe tanto di guadagnato, perché daremo un segnale unico all’intero Paese”. Così Antonio Decaro ha invocato l’obbligo della mascherina all’aperto. L’obiettivo è ridurre la circolazione del virus, nelle ore in cui i contagi aumentano, unitamente alla preoccupazione per la “Omicron”, per la quale i ministri della Salute del G7 richiedono un’azione urgente – l’allarme è stato comunque ridimensionato dalla scienziata Angelique Coetzee, che parla di sintomi lievi indotti dalla nuova variante. In Italia i sindaci stanno facendo pressing sul Governo perché lo stesso valuti l’opportunità di rendere obbligatorio l’uso della mascherina all’aperto su tutto il territorio nazionale, dal 6 dicembre al 15 gennaio. Lo fa sapere il sindaco di Bari e presidente dell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) guardando ai giorni nei quali le strade cittadine vanno riempiendosi di gente. L’obiettivo, per quel periodo coincidente con le festività natalizie, è aumentare le restrizioni, per chi non ha fatto il vaccino particolarmente. Secondo lo stesso Decaro, usare la mascherina anche all’aperto significa abbattere significativamente (“almeno del 50 per cento”) la possibilità di diffondere il virus.

Premesso che la prudenza non è mai troppa, c’è da interrogarsi sull’utilità della proposta, diventata già realtà in diversi comuni, nei centri storici. Servirebbe veramente? Se c’è qualcosa che abbiamo imparato in questi quasi due anni di convivenza col virus maledetto è che per essere contagiati bisogna essere a contatto stretto e piuttosto prolungato con la persona infetta: al netto della straordinaria contagiosità di questa o di qualsiasi altra variante, appare altamente improbabile che, incrociando in strada una persona positiva al Covid, un individuo (peraltro vaccinato) possa essere contagiato in una frazione di secondo. Altro discorso ovviamente è l’assembramento. Quelle condizioni di stazionamento, nelle quali il Covid può trovare in effetti terreno fertile. Più dell’obbligo generalizzato della mascherina all’aperto, sarebbe opportuno affidarsi al buonsenso. Ovvero cautelarsi anche laddove non interviene la legge. Nel contenimento della circolazione virale, che in Italia resta più bassa rispetto agli altri Paesi Ue, è bene intervenire e investire nei luoghi al chiuso: assicurarsi che il green pass venga controllato ad ogni ingresso, potenziare la rete dei mezzi di trasporto; mettere in sicurezza il mondo della scuola, dove aumentano i focolai, per l’assenza di distanziamento. Magari far rispettare l’obbligo della mascherina nei palazzetti e negli stadi, dove abbondano le strette di mano e gli abbracci. Ma almeno, quando siamo a passeggio su una strada pressoché deserta, ci sia concessa la libertà di respirare l’aria assaporando anche l’odore del freddo senza avere indosso quella museruola tanto odiosa quanto benedetta.

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Mistero e lotta interiore: come sopravvive la magia alla ragione

Non c’è niente di più semplice dell’Amore. Niente di più complicato il tentativo di definire, con linguaggio consono, quel sentimento totalizzante che naviga tra l’ebbrezza e il dannato, tra la sua rappresentazione e la realtà del sogno: Stefania Romito prova a farlo attraverso “Delyrio”, il suo ultimo romanzo, edito da La Bussola – Aracne. L’opera è dedicata a chi ha amato alla follia. Ma anche a chi non ha mai amato, premette la stessa autrice. A chi ha trovato e vissuto, senza toccarlo, il paradiso. Status di straniamento dalla realtà e massima protezione, a cui ogni mortale può pervenire, almeno una volta nella sua vita: frammento di quel legame carnale indissolubile fatto oggetto di ricerca continua. C’è la dea divina e selvaggia Alyssa nel dialogo di Stefania Romito con il lettore. C’è l’amore discreto di un uomo che, nella propria donna, cercava l’antica bellezza, fatta di mistero nella rassicurante quiete più che di provocazione. L’irrazionalità capace di attrarre la persona nel dissidio interiore. Poi l’arrivo della bella Alyssa, che mette tutto in discussione. Perché l’uomo necessita di dolcezza e carnalità per far sì che la magia del sentimento non abbia a finire. Perché ci si possa sentire eternamente vivi. L’uomo a cui dà voce la scrittrice è lacerato dal senso del dovere che si traduce in una responsabilità non univoca: il non dover tradire se stesso, la dimensione del sogno e del desiderio, vale quanto la fedeltà alla sua compagna o sposa. Sospeso tra la beatitudine e la dannazione, alla ricerca di una verità nascosta, ma non ignota, il percorso del mortale può prendere la piega che si vuole. Sebbene sia la stessa esistenza a imprimerne la direzione. Il percorso di SR in questo lavoro è indubbiamente poetico, rileva Pierfranco Bruni nell’introduzione. È un crescendo di versi e di sensazioni, culminanti nelle “pillole di verità” al capitolo 21esimo. Un romanzo d’amore in cui il peccato diventa divino rimescolando ogni senso e ruolo. Nella commistione di linguaggi accomunati dal fine nobile, quel che appare chiaro e non confondibile è la necessità di non toccare il sentimento prestandolo all’uso della ragione: la magia, l’incanto svaniscono, e d’improvviso, quando si fa troppo forte il processo di razionalizzazione.  

Stefania Romito è nata in Svizzera da genitori italiani. Scrittrice e giornalista radiotelevisiva, ha all’attivo diverse pubblicazioni, tra raccolte di poesie, racconti e romanzi. Nel 2010 il suo esordio nella narrativa con “Attraverso gli occhi di Emma” (Alcyone Editore). Responsabile letteraria del Nuovo Rinascimento e del Sindacato libero scrittori italiani, per la Lombardia, ha collaborato con il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Con Il buio dell’anima (Libromania, 2019) si è aggiudicata quest’anno il premio speciale d’Eccellenza Città del Galateo “Antonio De Ferraris 2021” dimostrando peraltro poliedricità nella sua vasta e raffinata produzione.  

(Pubblicato su “Lo Jonio” nr 2010)

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Debora Caprioglio: “Nelle mie vene scorre sangue pugliese”

“Ho fatto tante cose nella mia carriera. E di tutto vado fiera. Ho recitato anche in Casa Vianello: Sandra e Raimondo erano due persone straordinarie. Il loro sodalizio molto forte, speciale”

Le persone di talento le riconosci dalla luce che hanno dentro. E che non possono mascherare nemmeno quando sono al telefono… Debora Caprioglio la possiede quella luce, foriera del successo: uno sguardo di curiosità empatia gentilezza che preserva sulle persone e sul mondo, è la sua cifra, da sempre. A parere di chi scrive, quelle doti naturali vanno anteposte alla bellezza. Vengono prima della bravura e della spudoratezza, rintracciabili in un mondo che (sia cinema, televisione o teatro), pur ispirandosi alla realtà, non ha nulla a che fare con la stessa. Con “Amore mio aiutami” l’attrice nata a Mestre sta girando la Penisola, adesso, raccogliendo gli umori della gente, in questi giorni di preoccupazione mista a rinascita. Sarà al teatro Fusco di Taranto nella serata del primo dicembre. In attesa di rivederla nella città dei due mari, la ringraziamo per l’attenzione data ai settimanali Lo Jonio e L’Adriatico.

Affacciamoci alla quarta parete… Il pubblico che conosce il suo compagno di viaggio Maurizio Micheli, particolarmente quello pugliese, si aspetta la risata associando il volto dell’attore, la voce e la mimica alle sue doti più apprezzate. Quanto è importante andare a teatro, durante la pandemia, ricercando l’ilarità?

“Tantissimo. Lo è andare a teatro, in generale: al netto delle riaperture estive, la ripresa del settore è cominciata da poco. E sarà graduale. Differenziata: ci sono teatri che continuano a far osservare agli spettatori il distanziamento. Con Maurizio Micheli, che so essere personaggio molto amato, c’è un bellissimo rapporto: ci conosciamo da tempo, ci siamo sempre rincorsi da anni, e felici di esserci ritrovati, dopo aver fatto un film insieme (Saint Tropez – Saint Tropez). Divertirsi e distrarsi, di questi tempi, è importante. La risposta del pubblico c’è. Sebbene non in modo uniforme: la fiducia, la percezione del rischio varia a seconda del posto visitato. Gli abbonamenti si fanno a fatica. Ma questo è un problema generale: la difficoltà di fare progetti a lungo termine. Noi siamo reduci dallo spettacolo di Bologna, che è stato un successo. Speriamo in quello di stasera (martedì, per chi legge, ndr) e nelle tappe pugliesi di Taranto, Lecce e Bari. Le notizie dell’ultim’ora non sono così rassicuranti, riguardo all’aumento dei contagi. Ma speriamo bene, insomma”.

“Amore mio aiutami” è uno spettacolo collaudato, tratto dal film con il grande Alberto Sordi e Monica Vitti. Qual è la sua attualità, con riferimento alle tematiche sviluppate?

“Sono sempre attuali i momenti di crisi nelle dinamiche di coppia. E la loro risoluzione: la capacità di tirarli fuori. Ce lo insegna l’epoca in cui fu scritta la storia, commedia a firma di Rodolfo Sonego. Pensiamo ai problemi di coppia: alla necessità di superarli, da un lato, al fingere che non ci siano, dall’altro. Il testo si presta a momenti comici, di ilarità, alternati ad altri di riflessione. Proprio come accade nel film per merito della capacità di quegli attori straordinari”.

Che ha rapporto ha Debora Caprioglio con la terra che la ospiterà il primo dicembre? La Puglia e Taranto.

“Conosco Taranto. Ci sono stata per recitare con Gianfranco Jannuzzo, tre anni fa. Vi dirò di più… I miei ricordi sono più lontani: il mio nonno materno ha vissuto a lungo con la mia famiglia a Taranto. Nelle mie vene, quindi, scorre sangue pugliese. Mi piace moltissimo la città. La regione, una terra variegata che offre tanto. L’ho girata in lungo e largo: in estate, ho avuto modo di abbinare le tournée alle vacanze”.

Uno sguardo alla carriera. Rileggendo il suo percorso di crescita, fatto di studio e affiancamento ai Grandi, quali sono stati i momenti più gratificanti?

“Dal ’97 in poi, da quando fui chiamata da Mario Monicelli per Una bomba in ambasciata, vado fiera di aver dedicato gran parte della mia carriera al teatro, per mia scelta. È il teatro che mi ha fatto crescere professionalmente e sul piano personale, in lavoro, disciplina, conoscenza. Sono molto legata anche al cinema, da cui provengo: mi ha dato la popolarità, insieme alla televisione. Al nome di richiamo, va detto, deve poi corrispondere una professionalità. Io ne sono consapevole. So anche di aver avuto la fortuna dell’eccletticità, di poter fare cose diverse. Anche l’esperienza televisiva, non affatto terminata: diciamo che il lavoro dell’artista è fatto di fasi, attività a cui ci si dedica a intermittenza. L’importante è recitare. E preservare quella marcia in più che è la curiosità”.

E i momenti meno esaltanti?

“Mah, io vado fiera di tutto. Anche di ciò che riesce meno bene, magari: in una carriera, ci può stare”.

A proposito di televisione, lei hai recitato anche in Casa Vianello: che ricordo ha di Raimondo e Sandra? Perché oggi non si intravvedono coppie di comici italiani di quel calibro?

“Premesso che ero molto giovane allora, ricordo la loro disponibilità e gentilezza, la bravura e simpatia. Erano persone straordinarie, capaci di mettere a proprio agio chiunque lavorasse con loro. Anche una giovane alle prime armi. Sono stati un mito per la televisione italiana. Venendo ai giorni nostri, non faccio nomi ma direi che coppie di comici in circolazione ci sono, bravi. Magari non legati anche nella vita come sono stati Raimondo e Sandra, che avevano formato un sodalizio molto forte, unico, speciale. E che andrebbe contestualizzato agli anni in cui a teatro si vedevano molte più coppie sposate”.

(Pubblicato su “Lo Jonio” nr 209)

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“Emily in Paris”, il trailer italiano della seconda stagione

La serie Netflix tornerà il 22 dicembre con i nuovi episodi. La protagonista della Comedy romantica firmata dal papà di Sex and the City, Darren Star, è sempre la talentuosa e spigliata americana Emily Cooper, social media strategist che riparte dalla notte di passione avuta con il vicino di casa Gabriel. A quali esperienze ed avventure andrà incontro il personaggio interpretato da Lily Collins?

Emily in Paris ha ricevuto il Golden Globe 2021. Nelle dieci puntate della prima fortunata stagione emergono i temi della contaminazione nell’incontro tra due culture, il superamento di pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni.  

Turismo, il personale che non si trova: la colpa è degli sfruttatori

Gli stranieri fanno il lavoro che gli italiani non vogliono fare. O meglio, lo fanno alle condizioni che i nostri connazionali ritengono di non dover accettare: paghe misere, alloggi non idonei, ore di servizio interminabili. Così, nel comparto turistico, si fa necessario il ricorso al personale straniero, quest’anno. E questo, per il ministro del Turismo Massimo Garavaglia, rappresenta un paradosso. Il ministro “dà i numeri” senza tentare di avventurarsi in una disamina più profonda, nella ricerca delle ragioni che stanno alla base del diniego tra i giovani e meno giovani aspiranti al lavoro, inteso (ancora) come strumento di dignità. “Al comparto turistico mancano tra le 200mila e le 300mila figure lavorative. Un paradosso se si pensa che il Paese paga un tasso di disoccupazione al 9%”, ha detto intervenendo al video-forum 2021 sul cantiere delle riforme del Governo Draghi per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza organizzato da ItaliaOggi, rilevando inoltre l’imminenza della stagione invernale, concomitante con le tante richieste pervenute per far partire il decreto flussi al più presto. Già, perché in tanti vorrebbero raggiungere per motivi di lavoro lo Stivale, mentre gli italiani vogliono beneficiare delle infrastrutture per fare le vacanze; altrettanti badano ai loro affari, agli interessi legittimi personali, tra un’ondata di contagi Covid e l’altra, senza troppo curarsi dei diritti fondamentali di ogni lavoratore ed essere umano. Rifiutare il lavoro (quello sì) è un paradosso. Perché, alle giuste condizioni, nobilita l’uomo riempiendogli l’esistenza.

Reddito di cittadinanza – La misura rifinanziata con 200 milioni di euro dal Governo Draghi si colloca nell’azione di contrasto alla povertà. Ovvero all’esclusione sociale e alla disuguaglianza, per mezzo del sostegno economico, provvisorio: l’obiettivo è, resta, il reinserimento lavorativo di quanti beneficiano dell’integrazione al reddito da nucleo familiare. Ma quale lavoro costoro dovrebbero trovare e poi accettare? Se destinati ad essere sottopagati, bene fanno a continuare ad intascarsi il Rdc, utile anche a combattere la precarietà, il sistema di sfruttamento vero e proprio retto dalla spremitura della manodopera. Che avviene nel comparto del turismo e non soltanto. I nodi da sciogliere sono tanti. La stessa misura va nella direzione del ridimensionamento: la stretta voluta sul Reddito di cittadinanza, al fine di migliorarlo, potrebbe prevedere decurtazioni da 5 euro al mese, a partire dal sesto di inattività. Se non la revoca del beneficio qualora la proposta di lavoro venga rifiutata. Gli strumenti cambiano, la questione di fondo resta immutata da anni. La comunità europea ci potrebbe dare una mano: l’Italia si dovrebbe adeguare agli standard globali che accettano i Paesi più civilizzati. Si pensi alle politiche sociali avviate dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Laddove si ritiene congruo, dignitoso, un salario minimo di 15 dollari all’ora, utile a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori americani.

Cuore rossoblu, il non colore che ci appartiene

Il fil rouge è il male oscuro. Che in forma manifesta o latente attraversa i personaggi, tutti: in “La composizione del grigio”, di Sara Notaristefano, i riflettori sono accesi sulle ombre e sulle anime, sul dramma incontrastabile e indefinibile. La protagonista del libro, edito dalla casa editrice lombarda Divergenze e curato da Mara Venuto, ripercorre la formazione dell’identità attraverso i diversi colori. I quali rappresentano, ciascuno, una fase specifica dell’esistenza. Insieme formano il bianco, al quale si contrappone il nero, inteso come il colore del male per eccellenza. È dal mescolarsi dei due colori che nasce il grigio. Quest’ultimo può rappresentare al meglio la protagonista del romanzo. Ovvero, in generale, ogni esistenza. La peculiarità del libro della professoressa Notaristefano è l’assenza di nomi: i personaggi vengono identificati esclusivamente attraverso i rapporti di parentela. Scelta motivata dalla presunta superiorità del dramma. Che refrattario alla cristallizzazione in qualsivoglia forma, non può veder affermarsi la volontà di un essere su un altro, attraverso la consuetudine universale dell’onomastica. È il dramma la “ragion d’essere” dei personaggi – e qui la studiosa si rifà a Pirandello, chiarisce Mara Venuto nella sua nota critica. Ma come un’apocalisse, quel color grigio rivela inaspettatamente una continua opportunità di vita, attraverso cui la protagonista della storia può comprendere le sfumature che la completano come artista. Come amante, madre e figlia. E a ben vederlo il colore – non colore ha in sé i tratti del rosso e del blu, riflesso della città dei due mari, confida la stessa Autrice: Taranto “nel mio cervello si ammanta di colori tristi, quando penso ai colori che l’affliggono”. “Ma quando penso a lei con amore, non riesco a non vederla rossa e blu. Rossa come la passione. Blu come il mare. Amore e mare”. Taranto e la rinascita. La gioia effimera e il perdurante dramma. Gli opposti che coabitano forzosamente, e si attraggono alterando la percezione comune. Nelle centosessantuno pagine del libro, intense ed introspettive, il colore che si esalta è il raffinatissimo grigio, simbolo della pienezza della vita. Le sottotrame allora sono fatte di esperienze dolorose come la depressione materna e post partum della protagonista. Ma anche la fede e ciò che dà nutrimento all’arte e alla voglia di scrivere. C’è racchiuso un universo, quello femminile, che va difeso dalle violenze e delle discriminazioni che sono dure a morire.   

Il colore dell’attesa è il bianco per Sara Notaristefano, che (classe 1980) è nata a Taranto, residente da anni a Merano, dove insegna Lettere all’istituto “Gandhi”. Ha all’attivo diverse pubblicazioni. È autrice di novelle e poesie in volumi antologici. Nel 2020 il suo racconto Breve storia di ordinari alibi familiari ha riscontrato gradimento, selezionato tra i vincitori del Premio Velletri Libris, menzione speciale Fernando Cancellieri. Critica positiva anche per lo stesso ultimo romanzo. La composizione del grigio, infatti, entrato nella cinquina del premio Sant’Elpidio a Mare nell’ambito della rassegna “Libri a 180°”, è tra i finalisti dello Zeno.

(Articolo pubblicato su “Lo Jonio” nr 208)

L’Italia di Mancini merita di andare ai Mondiali senza qualificazione

Non fai in tempo a goderti il successo che devi rimetterti in discussione… La legge del calcio è spietata: a quattro mesi dalla finale di Wembley, da quella gioia esplosiva intensa inattesa, la qualificazione della nazionale italiana ai prossimi campionati Mondiali passa dalla sfida delicata con la Svizzera, in programma domani sera allo stadio Olimpico di Roma. È la partita più importante dell’anno, secondo il tecnico Roberto Mancini. Lo attesta il regolamento: al netto della lotteria playoff per le migliori seconde, nei 10 gironi passano soltanto le prime qualificate – l’Italia, nel raggruppamento C, ha gli stessi punti degli elvetici (14). La qualificazione, allora, non è affatto scontata, quando mancano due turni alla fine dei giochi. Ma è giusto oppure opinabile? Come il pugile che disputa qualche incontro facile dopo aver conquistato il titolo mondiale, lo scrittore famoso che si eclissa dopo aver ricevuto il premio Nobel, o il semplice spettatore che guarda un film che gli piace soffermandosi sui titoli di coda, forse la nazionale di calcio campione d’Europa in carica meriterebbe di diritto l’accesso ai Mondiali bypassando la fase di qualificazione preliminare. Sarebbe un piccolo privilegio che peraltro viene assicurato in altre discipline sportive. Invece, nel mondo del calcio e non solo, laddove gli interessi economici soffocano i sentimenti di genuinità e le tradizioni (il progetto della Fifa prevede di disputare ogni 2 anni i campionati del mondo), si è persa la dimensione dell’indugiare e dell’attesa; la cura del sogno che, una volta conquistato, va pure coccolato. Non ci si può adagiare sugli allori, ci hanno sempre insegnato. Ma c’è un tempo ragionevole entro cui questo va invece raccomandato. Diversamente, se l’esistenza diventa un continuo affannarsi, il susseguirsi di impegni senza soluzione di continuità, tutto si svuota di senso e di significato.

Tornando al calcio giocato, dimostrare sul campo di essere meritevoli dell’accesso ai Mondiali, è un valore aggiunto per gli azzurri che non possono temere alcuna formazione. Nemmeno in Qatar, la cui nazionale, nel Paese organizzatore, è di diritto già qualificata: i ragazzi di Roberto Mancini, il vero artefice del successo di questa estate, partirebbero coi favori del pronostico, all’appuntamento per noi autunnale (21 novembre – 18 dicembre). Ovvero se la giocherebbero alla pari con le altre maggiori nazionali. L’Italia di Mancini, ricordiamo, non ha soltanto il merito del trofeo conquistato e della striscia record dei trentasette risultati positivi inanellati, ma anche quello di aver restituito entusiasmo e speranza agli italiani dopo un anno e mezzo di sofferenze acute generalizzate. Ci ha insegnato che le difficoltà (alcune) si possono superare facendo gruppo. Nel Paese che più di ogni altro e prima, all’infuori della Cina, ha sofferto la catastrofe della pandemia, quel gruppo meraviglioso merita di rappresentare l’Europa alla competizione più prestigiosa.

Rivoluzione “Fair Fares”, come si aiutano i poveri in modo concreto

La misura risulta ai più modesta. Tuttavia è perfettibile, e può avere ricadute positive, in crescita esponenziale sulla popolazione: parola di David Jones. Per il presidente della non-profit Community Service Society il programma “Fair Fares” è uno strumento indispensabile per la salute pubblica della comunità newyorkese. Lo stesso consente ai più poveri di viaggiare sui mezzi pubblici, autobus e metropolitane, a metà prezzo. Il successo è attestato dal numero record di iscrizioni fatte registrare nel mese di ottobre (255mila). Adesso sono scese a 248.000, calo riconducibile al mancato rinnovo degli abbonamenti scaduti. Complessivamente il trend è positivo, lodevole l’iniziativa. Così, nella metropoli dove ricchezza e povertà coabitano a stretto gomito, il segnale di vicinanza dato dalle autorità ai soggetti più deboli si fa concreto. E pure duraturo: Fair Fares è entrato in vigore nel 2019. Il programma coinvolge più di un quarto di milione dei cittadini a New York. Non è poco. E grazie alla forte campagna di comunicazione, pubblicitaria, messa in moto ultimamente per le strade della metropoli, i numeri sono destinati a crescere ancora. C’è da raggiungere quelle 700mila persone che avrebbero i requisiti per aderire. I beneficiari sono quanti non raggiungono la soglia dei 25.760 dollari. Va sottolineato che, per volere del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, entro il mese di marzo dell’anno prossimo, il salario minimo dei lavoratori salirà a $15 l’ora.

Come funziona il Fair Fares? Il Dipartimento dei servizi sociali della città (Dss) acquista dall’agenzia dei trasporti locali (Mta) i biglietti a prezzo pieno ($2.75) e, attraverso le Risorse umane Administration, li rivende a metà prezzo ai cittadini a basso reddito residenti nella Grande Mela, compresi nella fascia 18-64 anni. A beneficiare della misura, aperta a qualsiasi etnia, sono soprattutto le comunità di colore. Quelle che, pur in tempi di pandemia da Covid 19, continuano a far uso dei mezzi pubblici per andare ogni giorno al lavoro. La stessa catastrofe, dalla quale stiamo uscendo a fatica, aveva costretto il sindaco uscente Bill de Blasio e il Consiglio cittadino a ridurre del 62 per cento la dotazione, pari a 106 milioni di dollari. Il budget è tornato al 50% nel 2021. Inoltre, i finanziamenti potrebbero farsi più cospicui, se la domanda aumentasse anche da parte dei ciclisti, ha assicurato il primo cittadino. Intanto la bella lezione viene dal Paese tornato a crescere economicamente come prima. E chiamato a distinguersi, in qualche modo, dalla rivale Cina. Dall’America al contenente asiatico passando per l’Europa, il tema del trasporto pubblico, la promozione dello stesso all’intera popolazione, si lega poi quello della sostenibilità nella costruzione di un mondo migliore. La città non è fatta per le automobili. Almeno, finché le elettriche non prenderanno definitivamente piede – ammesso che le stesse siano davvero a emissioni zero.     

Metalli pesanti, il calvario di Carlo Calcagni nell’indifferenza dello Stato

Chi scrive ha avuto il privilegio di pedalargli accanto. Non molto tempo fa, in gara: era e continua ad essere un atleta straordinario, il leccese Carlo Calcagni. Semplicemente uno che non molla mai. E che è capace di fare dello sport, del ciclismo in particolare, la sua ragione di vita, il farmaco più efficace. Il male che non può curare lo ha incontrato durante una missione internazionale. Era il 96 del secolo scorso quando, in compagnia di altri 3mila soldati italiani, il paracadutista e pilota istruttore di elicotteri fu inviato in Bosnia Erzegovina per dare il proprio contributo alla missione di pace della Nato “Joint Endeavour”, funzionale al soccorso civile e militare. Mentre i militari americani erano informati dei pericoli ai quali si sarebbero esposti operando in quell’area, e per questo indossavano strumenti di protezione adeguati (maschere, tute speciali, respiratori a circuito chiuso), gli italiani no. “I vertici militari e politici sapevano, ma hanno volutamente taciuto”, ha denunciato Carlo Calcagni. Che si è ammalato gravemente dopo pochi anni. La stessa missione, infatti, gli ha procurato una massiccia contaminazione da metalli pesanti. Il nemico ha avvelenato ogni cellula del suo corpo generando una grave malattia neurologica cronica degenerativa ed irreversibile. L’unico rimedio sono i farmaci, dei quali l’uomo è costretto a fare incetta sempre (300 pastiglie al giorno, 7 iniezioni, 4 o 5 ore di flebo). Ma le sofferenze fisiche e morali permangono. Le sue notti sono spesso insonni, passate in compagnia del ventilatore polmonare.   

La storia di Carlo Calcagni, raccontata da Michelangelo Gratton per Ability Channel (docu-film “Io sono il Colonnello”), è nota ma non troppo divulgata. Recentemente se n’è occupata la trasmissione televisiva “Le Iene”: l’inviato Luigi Pelazza, che ha interpellato anche il Sottosegretario di Stato al Ministero della difesa Giorgio Mulé. Un lavoro prezioso quanto inefficace. Perché a distanza di cinque mesi, nulla è cambiato. Lo ha denunciato lo stesso CC dichiarando di essere disposto a rinunciare al risarcimento milionario pur di ricevere una parola di scusa da parte delle istituzioni. Un atto dovuto che andrebbe esteso a quanti condividono lo stesso dramma.

Ciononostante la testimonianza della “Vittima del dovere” è un inno alla vita. Che va vissuta fino in fondo, in ogni circostanza. A costo di subire ingiustizie senza soluzione di continuità. Tra le ultime c’è l’esclusione dalle Paralimpiadi di Tokyo, inflitta dalla commissione tecnica classificatrice, per la quale il male di cui soffre il Colonnello Calcagni non soddisferebbe i criteri minimi per il ciclismo paralimpico. Sebbene lo stesso sia stato riconosciuto come malattia professionale con il 100 per cento di invalidità permanente. Ebbene la “colpa” di Carlo Calcagni, confida lui stesso, è quella di avere una tempra ed una resilienza straordinaria, tali da non conferirgli l’aspetto del malato. Il ciclismo ha sempre fatto parte della sua esistenza. Le due ruote prima, il triciclo successivamente, devono restituirgli la bellezza della libertà, il dominio della fatica e dell’imprevisto. Mentre il resto sfugge alla nostra volontà. Perché espressione di un disegno troppo grande.  

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Cinghiali, l’emergenza che la politica non può più ignorare

La premessa è che anche il cane può attraversare improvvisamente la carreggiata provocando un incidente più o meno grave. Nessuno però, tra quanti possono definirsi membri di una civiltà, si sognerebbe mai di abbattere il fido amico dell’essere umano. Per quest’ultimo raramente il cinghiale rappresenta un pericolo reale. Al netto degli incidenti che possono verificarsi quando si è alla guida di un’auto… È successo anche nella provincia di Taranto: sulla statale 13 (Castellaneta – Castellaneta Marina), alle prime luci dell’alba, un veicolo si è scontrato violentemente con un cinghiale di grossa taglia. Fortunatamente l’uomo che era al volante, diretto ai campi per andare a lavorare, ha riportato solamente uno spavento grave. Ha riportato danni, però, la carrozzeria della sua macchina. L’incidente avrebbe potuto avere esito drammatico se lo stesso veicolo avesse impattato con il cemento dei canali presenti a bordo carreggiata.

L’episodio non è certo isolato. E ha raccolto le proteste della Cia – agricoltori italiani. Che ha segnalato anche la presenza di un branco avvistato alle porte di Ginosa marina. “È inaccettabile che il proliferare fuori controllo dei cinghiali (scorrazzano nelle campagne raggiungendo anche i centri urbani, ndr) metta quotidianamente a rischio onesti lavoratori che si recano ogni giorno a lavorare, per non parlare di quello che i branchi di ungulati combinano nei campi, distruggendo intere coltivazioni”, ha denunciato il presidente di Cia Due Mari (Taranto – Brindisi) Pietro De Padova. L’allarme è giustificato. Al presidente De Padova fa eco Vito Rubino, direttore della declinazione provinciale di Cia Agricoltori italiani della Puglia: ambedue hanno sottolineato la necessità di proteggere sì gli animali, ma anche gli esseri umani, e perché “questa situazione non può più continuare, si assumano le giuste decisioni per evitare conseguenze irreparabili. Le segnalazioni e i danni prodotti dai cinghiali si sono moltiplicati dalla provincia ionica al foggiano. Al punto che si fa necessaria la costituzione di una task force regionale, con l’abbattimento dei capi attraverso un controllo selettivo, e la realizzazione della filiera del cinghiale in Puglia.

Cosa fare in caso di incontro ravvicinato con l’animale? Gli esperti raccomandano in primis la calma, motivata dalla consapevolezza che i cinghiali, al pari della maggior parte degli animali selvatici, temono l’essere umano. È poi necessario farsi sentire – con un bastone, magari, se l’incontro avviene lungo un sentiero. Quello che non bisogna assolutamente fare è scappare o dare le spalle all’animale. Occorre invece fermarsi, mantenere sempre la calma, e la debita distanza; poi osservare il comportamento del cinghiale, o del branco: generalmente se ne vanno. In circostanze particolari si può considerare l’opportunità di mettersi al riparo da un eventuale attacco salendo su un albero o su un muretto alto più di un metro. Quindi aspettare. Perché pazienza e sangue freddo, per chi li ha, rappresentano la migliore arma.    

Da Luke Perry a Shannen Doherty: quando le star conobbero la malattia

Ottobre è il mese della prevenzione. Che andrebbe vissuta come un obbligo, più che raccomandazione: la salute passa dalla cura di sé, da controlli periodici, e da quotidiane azioni virtuose. A dare il buon esempio è Shannen Doherty. Donna 50enne che sta combattendo la sua battaglia personale contro il cancro al seno. Al pubblico televisivo l’attrice americana nata a Memphis è nota per aver interpretato il ruolo di Brenda Walsh in “Beverly Hills 90210” – poi anche quello di Prue Halliwell in Streghe. Il suo volto rimanda agli anni Novanta, alla generazione di chi poteva aver tutto campando di rendita, anteponendo la dimensione del sogno alla speranza. Di quella serie televisiva, che ha avuto tanto successo, SD era un’icona sensual, insieme a Luke Perry alias Dylan McKay. Entrambi hanno assaporato l’ebbrezza per poi conoscere il dramma. Luke Perry se n’è andato il 4 marzo 2019, per colpa di un ictus ischemico. Quattro anni prima, dopo essersi sottoposto a colonscopia, si era fatto testimonial della campagna di prevenzione del cancro al colon. Le preoccupazioni per il suo stato di salute generale (tardive forse) non lo hanno sottratto alla morte prematura. L’attore avrebbe compiuto 55 anni lo scorso undici ottobre. Ricorrenza che è stata sottolineata dalle star di Beverly Hills attraverso i social: dalla stessa Shannen Doherty con delle foto. Un doveroso omaggio, rivolto a tutte le comunità nel suo messaggio. Il miglior modo di tener viva la memoria è perseverare nella lotta. Quella dell’attrice contro il cancro ha avuto inizio nel 2015, ricorda lei stessa: guarita due anni dopo, nel 2019 una recidiva le ha stravolto di nuovo l’esistenza. Adesso si trova allo stadio metastatico. Su Instagram ha pubblicato un post e uno scatto fotografico: si è ritratta con la testa rasata e un fazzoletto sotto il naso, usato per fermare un’emorragia. Una foto choc che ha fatto il giro del mondo.

In un’altra, invece, dimostra ironia, saggezza. È riuscita infatti a ironizzare sul pigiama colorato con cui si era coperta il volto. “Trovare l’umorismo mi ha aiutata a superare ciò che sembrava impossibile”, ha scritto ammettendo di aver trovato il modo di risollevarsi. La chiave sta proprio nell’umorismo. Nella capacità di appigliarsi a tutto ciò che può alleggerire la sofferenza, quella stanchezza che pervade corpo e mente. La lezione di Shannen Doherty, che invita le donne a fare le mammografie superando ogni paura, è un inno alla vita da vivere fino in fondo, con responsabilità e con un pizzico di leggerezza. Lezione la cui credibilità passa dal percorso umano – artistico di quella stessa esistenza: la malattia, al pari del dramma comunitario da cui stiamo uscendo (Covid), è occasione per riflettere sulle priorità e sui valori che contano più della ricchezza. Ma anche no… Di quel mondo dorato rievocato dalla cinepresa, la prosperità, l’avvenenza, persino la nullafacenza diventano disvalori da riabilitare per affrontare il dolore e farcene beffa.

Denatalità ai massimi storici: invertire il trend è obbligatorio

La questione non viene percepita in tutta la sua gravità dall’opinione pubblica. Eppure, l’allarme è giustificato dai numeri dati e dalla proiezione dell’Istat: per la prima volta, i nati in Italia, a conclusione dell’anno in corso, scenderanno sotto la soglia dei 400mila – verosimilmente intorno ai 390.000. Ciò significa che il Belpaese è destinato a veder dimezzata nel lungo termine la sua popolazione: da 60 milioni di abitanti a 30. Parallelamente non si arresta il processo di invecchiamento. Che comprensivo di costi, non è cominciato certo oggi. Ma la pandemia, nei suoi effetti catastrofici, lo ha velocizzato ancora: l’ondata dell’autunno scorso ha peggiorato il trend, negativo dal 2014. La scelta di fare figli è condizionata dalle ansie per il futuro e dalle precarietà di oggi. Gli effetti sull’economia, allora, possono essere altrettanto catastrofici. Infatti, se fosse confermata la proiezione, il Prodotto interno lordo scenderebbe del 6,9 per cento entro il 2040, quando la popolazione andrebbe giù di circa 4 milioni. Le conseguenze sono pesanti sul welfare dell’intero Paese. Si pensi al sistema pensionistico, alle pari opportunità, o al mondo del lavoro.  

Per combattere la denatalità è fondamentale sensibilizzare la politica e gli esperti di comunicazione. L’obiettivo dovrebbe essere quello di rassicurare le coppie fornendo loro gli strumenti per vincere la paura di diventare genitori, e di non poter disporre di servizi adeguati, idonei alla crescita dei figli nella prima età della formazione. La questione demografica era stata già affrontata dal premier Draghi agli Stati generali della Natività dichiarando che un’Italia senza figli è destinata a invecchiare e a scomparire. Per questo, il sostegno economico alle famiglie diventa fondamentale attraverso lo strumento dell’assegno unico come misura epocale, storica, che dal 2022 sarà estesa a tutti i lavoratori.

Se la situazione è critica in Italia, non se la passano bene altrove: persino in Cina, il governo intende intervenire sul numero degli aborti riducendone la pratica laddove non sussistono le cosiddette ragioni mediche.

Invertire il trend si può. Perché la ripresa post pandemia investe ogni settore. Di certo, le precedenti stime sono state disattese in toto: l’epoca delle quarantene, della convivenza forzata delle coppie, il maggior tempo a disposizione non hanno prodotto alcun boom di nascite. Mentre, come sappiamo, il virus ha aumentato in Italia i morti (più di 130mila). Le preoccupazioni riguardano anche le coppie interessate alle procedure di procreazione medicalmente assistita. Infatti, in diverse regioni, si registra un calo del 30% dell’uso di farmaci necessari per le pma, diversamente da quanto verificatosi l’anno scorso. Il sostegno a quelle coppie va garantito attraverso l’attuazione dei livelli essenziali di assistenza (Lea) per consentire un più facile e giusto accesso alle cure. L’auspicio inoltre è che la genitorialità si raggiunga nei giusti tempi: l’età media di chi diventa madre oggi è superiore ai trenta.

Xylella, le migliori idee per il riutilizzo del legno d’ulivo

Economia circolare. Se ne parla in termini concreti nel tentativo di compensare i danni da catastrofe generati dalla Xylella fastidiosa, il batterio killer che continua a deturpare i paesaggi della Puglia, minacciando l’incolumità e la sopravvivenza dei sacri ulivi secolari, con ricadute negative sul piano economico ed ambientale. Il tema è finito al centro di “Agorà Design”. Il festival, che prenderà il via nel pomeriggio di quest’oggi, giovedì trenta settembre (si concluderà il 3 ottobre nella provincia di Lecce, a Martano), ha chiamato a raccolta le migliori menti capaci di presentare proposte sul riutilizzo del legno d’ulivo. Quello venuto fuori dalla “pandemia” in corso. Agorà Design è stato infatti preceduto da un contest indirizzato a esperti del settore e non. A progettisti, ingegneri, designer, a studenti ed artigiani. Tra i contributi spiccano due progetti internazionali provenienti dalla Turchia, da Ankara, e dai Paesi Bassi (Hilversum).

Agorà Design 2021 si tiene presso il Palazzo Baronale di Martano. È una manifestazione sostenuta da Sprech in partenariato con Adi (Associazione per il disegno industriale), con l’Ordine degli Architetti e degli Ingegneri, con la Camera di Commercio e Confartigianato di Lecce. Con l’Odg Puglia, tra gli altri. Aggregatore culturale, e di innovazione legata alla biodiversità, contiene workshop, lectio magistralis con architetti di fama mondiale. Oltre ai 100 progetti dell’Agorà Design Contest. La peculiarità dell’iniziativa, tanto longeva quanto salutare, reiterata da venticinque anni, è che i contenuti nascono dal Mezzogiorno “per contaminarsi e diffondersi come piccoli semi di rinascita”. Alle attività si può accedere liberamente fino a esaurimento posti. È consigliata la prenotazione, obbligatorio il green pass. Gli eventi sono trasmessi anche in live streaming sulla pagina Facebook di Agorà Design. Tra gli ospiti ci saranno gli architetti Antonio D’Aprile, Ludovica e Roberto Palomba, il designer Antonio Romano, il docente Francesco Zurlo. Anche giornalisti come Francesco Pagliari.

IL FOCUS – La Xylella fastidiosa ha colpito in Puglia un’area di circa 750mila ettari di superficie portando al disseccamento degli ulivi infetti. Ovvero costringendo gli agricoltori ad accatastare il legno in gran quantità. Di qui l’esigenza del riciclo, sposata alla filosofia dell’economia circolare, può dar forma ad oggetti di design, dal valore altamente simbolico oltre che pratico. Quanto al contenimento del contagio, va ricordato che l’unica misura idonea è l’eradicazione. Soluzione drastica e dolorosa, quanto necessaria. Il regolamento di esecuzione Ue 2020/1201 prevede l’obbligo di abbattimento delle piante “specificate” situate nel raggio di 50 metri (non più 100) da quelle infette. Il batterio ha devastato il Salento in particolare (milioni di piante); la sua avanzata è inesorabile, dalle provincie di Brindisi e Taranto a quella di Bari: raggiunti Monopoli, Locorotondo e Polignano, Coldiretti Puglia denuncia la positività di 15 olivi ad Alberobello.

Inchiesta fondi Lega, solidarietà a Fanpage

Libertà di stampa e opera di denuncia. Due prerogative che dovrebbero appartenere al giornalismo indipendente, libero, come quello di Fanpage, capace di non guardare in faccia a nessuno nel fare il proprio lavoro. La testata online ha firmato una video inchiesta sui fondi della Lega denominata Follow The Money. Che realizzata da Backstair (team investigativo composto da Carla Falzone, Sacha Biazzo, Marco Billeci e Adriano Biondi), evidentemente non è piaciuta a tutti: il Tribunale di Roma vuole sequestrare e oscurarne i contenuti. Si tratta di un provvedimento che rimanda a pratiche mai utilizzate in Italia – denuncia la stessa Fanpage – che limita la libertà di stampa e che ci riguarda tutti. L’inchiesta è incentrata sui 49 milioni di euro di rimborsi elettorali ricevuti illecitamente dalla Lega. E su una intercettazione, ripresa da una telecamera nascosta: quanto pronunciato sul comandante generale della Guardia di Finanza, Giuseppe Zafarana, dall’ex sottosegretario all’Economia Claudio Durigon. Il quale diceva a un suo interlocutore che non bisognava preoccuparsi dell’inchiesta della procura di Genova su quei fondi perché il Generale della Guardia di Finanza “l’abbiamo messo noi”. I soldi sarebbero stato ottenuti in maniera fraudolenta dalla Lega, tra il 2008 e il 2010; degli stessi, però, non c’era traccia, al momento della confisca, nei conti correnti del partito.  

Per il giudice sussistono le “esigenze cautelari in ordine al concreto pericolo di reiterazione di reati della stessa specie di quello per il quale si procede, nonché il pericolo di perpetuazione ed aggravamento degli effetti dannosi del reato in considerazione della diffusività della pubblicazione di notizie diffamatorie tramite siti internet e ciò anche in considerazione delle non chiare e verosimilmente illecite circostanze nelle quali  è captata la conversazione dell’onorevole Durigon all’insaputa dello stesso”. Questo quanto si legge nel decreto del Tribunale di Roma. Per lo stesso “sussistono gravi indizi in ordine alla sussistenza dei reati” ipotizzati nella querela depositata proprio da Zafarana il 28 luglio scorso. L’ordine di sequestro è arrivato dal Giudice per le indagini preliminari di Roma Paolo Andrea Taviano; il decreto, notificato nelle scorse ore nella redazione di Fanpage.

L’auspicio è che la vicenda possa concludersi senza produrre danni ulteriori. Conosciamo la professionalità di Fanpage, autrice di inchieste importanti, quanto pericolose. E sebbene possa commettere errori (in sensazionalismo magari spesso eccede), al netto dei contenuti dell’inchiesta in questione, non si può oscurare un contenuto giornalistico. Non si può, è inammissibile farlo preventivamente in un Paese dove vige la democrazia e la Costituzione, per il presunto reato di diffamazione, prima che sia accertata la verità. La conferma viene dalla Suprema Corte di Cassazione. Peraltro, non si può procedere contro ignoti, quando gli autori dei servizi e il direttore sono noti: gli stessi, non indagati, non possono difendersi, in questo modo.

Global strike: siamo tutti “gretini” stavolta, senza fiatare

La nostra azione dovrebbe essere immediata, rapida e su larga scala. Lo ha detto anche il premier Draghi riportando l’ammonimento dell’Intergovernmental Panel Change delle Nazioni Unite. Il nostro impegno, da non procrastinare, riguarda la riduzione delle emissioni di gas serra. Diversamente, se non interveniamo, non saremo in grado di contenere il cambiamento climatico al di sotto di 1,5 gradi. Quel che può fare il cittadino è scendere in piazza. Ecco perché, alla luce delle ultime catastrofi (alluvioni, frane, inondazioni, trombe d’aria simili a tornado in Italia), legate a doppio filo al cambiamento climatico, il Global strike si fa carico di significato. L’evento è in programma nella giornata di domani venerdì ventiquattro settembre. Il danno è già fatto: i dati dell’ultimo rapporto dell’Ipcc (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) dicono che il nostro pianeta si è già riscaldato di 1,1 gradi provocando effetti irreversibili come lo scioglimento dei ghiacciai, la desertificazione e l’innalzamento dei mari. E stando alla proiezione della Nasa, con un aumento della temperatura pari a 1,5°, si avrà che città costiere come Venezia e Cagliari finiranno sott’acqua, con un margine compreso tra i 60 centimetri e gli 1,30 metri. Il quadro è allarmante. E può essere assimilato alla pandemia, perché emergenza di pari entità, per citare le parole dello stesso presidente del Consiglio italiano. Ciascuno dunque è chiamato a fare la propria parte. In modo non più critico soltanto, ma propositivo: molto più di una scommessa, quella della transizione ecologica è una possibilità concreta, nell’immediato, applicabile in ogni comparto: dalla gestione dei rifiuti alla produzione di energia, dai trasporti alla filiera alimentare. Certo, il mondo green costa, orientato alla sostenibilità. Ce lo dice il caro bollette, che si vuole contrastare. Ma se non si intervenisse, nel medio termine, i costi sarebbero enormemente più importanti. È pertanto l’inerzia della politica a dover essere denunciata. Questo, l’obiettivo degli studenti di tutto il mondo che si ritroveranno in piazza per la settima edizione del Global strike. Al netto dell’utilità di eventi di simile portata, dell’azione della protesta in generale, quel che oggi non si può più fare è ironizzare o ridimensionare una questione divenuta ormai emergenziale. Urge intervenire passando dalle parole ai fatti.

Il Global strike, o sciopero globale per il clima, è un evento tenuto su scala mondiale, che coinvolge oltre mille città e 180 in Italia. Prende le mosse da Fridays for Future, il movimento ambientalista fondato da Greta Thunberg nel 2018. Gli scioperi sono cresciuti in modo esponenziale. Hanno raggiunto, infatti, il picco di 7 milioni e 600mila presenze nell’ultima manifestazione globale. Tra le associazioni coinvolte in Italia spicca Legambiente. Che dagli Ottanta è in prima linea nel combattere i cambiamenti climatici. Il settimo sciopero generale è sempre organizzato da Fridays for Future ed Earth Strike.  

Ode a la Divina tra visione e carnalità

Secondo Sarah Bernhardt (1844-1923) è stata una grandissima attrice ma non una grande artista. Perché, con la sua arte, non ha creato un personaggio che si identifichi col suo nome; non ha creato un essere, una visione che evochi i suoi ricordi, dice di lei la donna rivale, che ebbe un rapporto intenso con il Vate. Lei è Eleonora Giulia Amalia Duse (1858-1924). Che finisce al centro del libro di Pierfranco Bruni, intitolato “Con le sue labbra le suggella le labbra spiranti”. Centotrentasei pagine motivate da una forte ammirazione o trasporto grande. Ho sempre amato Eleonora Duse. La teatralità la recita il tragico. Da quando ero ragazzo ho visto in lei la metafora del fascino del mistero del mito. La Divina, come la chiamò Gabriele, resta dentro di me. La letteratura solleva e vive di luce. La letteratura mi ha fatto amare l’amore. La donna che amo è letteratura vita carnalità. Ho trovato in un cassetto della scrivania di mio padre, nella casa in Calabria, il testo che segue. Non so se sia mio o di un altro io o di mio padre. Non cambierebbe nulla. Anzi. L’ho rubato da un cassetto e ora lo pubblico così come l’ho trovato. Commetto il reato di appropriazione indebita. Non ho corretto nulla. I lettori possono fare tutte le considerazioni opportune e anche correggere con il blu o il rosso. Eleonora resterà sempre la Divina!

Così Pierfranco Bruni rimanda i suoi lettori al testo pubblicato da Luigi Pellegrini Editore, quest’anno. E io che scrivo su questa rubrica settimanale, sulla stessa opera non aggiungo altro…  La storia ci dice già chi era Eleonora Duse, e quale rapporto ebbe con Gabriele D’Annunzio, incontrato per la prima volta a Venezia, la città romantica: un amore passionale e tormentato, turbolento. Il mondo del teatro l’ha consacrata come un mito. Perché della Belle Epoque veniva considerata la più grande attrice teatrale e in assoluto una delle più grandi. E forse, non soltanto. Si pensi a George Bernard Shaw che, prendendo le distanze da Sarah Bernhardt, guardava all’arte della Duse e al suo indiscutibile primato. La bellezza della donna nata a Vigevano era anticonformista e rivoluzionaria. Una donna che non si truccava mai. La sua figura riemerge in questo libro facendosi viva e dialogante col mondo contemporaneo. Con le eccellenze, che ci sono nel teatro, e devono adeguarsi ai tempi che cambiano. Eleonora Duse incarna quel sentimento capace di disconoscere il rapporto con il tempo, perché va oltre. L’amore consumato con D’Annunzio è stato grande, intrecciato all’arte. Tanto che il poeta le ha dedicato “Il fuoco”, romanzo pubblicato nel 1900. E sebbene le abbia poi preferito la diva Bernhardt, a fine corsa, alla morte della Divina Duse, la loro unione fu sigillata per sempre: lei gli rivolse l’ultimo pensiero, dimostrando di averlo perdonato; lui ammetterà che nessuna donna, come Eleonora, lo ha mai amato tanto. E questa verità “lacerata dal rimorso e addolcita dal rimpianto” può essere riscritta facendo spazio al nuovo incontro.

Cercasi notizie sui reporter torturati dai talebani

Puniti per aver fatto il loro dovere etico e professionale. Per aver creduto che gli esseri umani sono tutti uguali. Per aver dato ascolto e voce alle donne afghane. Donne la cui bellezza ed intelligenza rendono trasparente l’abito più cupo e mortificante… Taqui Daryabi, Nematullah Naqdu e Mohammad Jalil Ramnaq hanno trovato rifugio nella capitale afghana Kabul, nel quartiere di Barci, abitato da 1 milione e 800mila hazara. Ma di certo non sono salvi e al riparo dalla follia reiterata dei talebani che, in una stazione di polizia, li hanno torturati, a suon di calci e frustate. Per ore lunghe come giornate. L’episodio, avvenuto la scorsa settimana, aveva suscitato un’ondata di indignazione forte, generalizzata. Avevano fatto il giro dei continenti le immagini di quei corpi offesi, assoggettati: spalle, schiena, braccia; glutei, fianchi, cosce e polpacci ricoperti di ecchimosi ed ematomi. L’ondata ora sembra essere scemata. Il silenzio, anzi, si è fatto imbarazzante, tombale: di loro non si occupa più alcuna testata. Nessuna notizia in rete. Mentre i tre reporter colpevoli di aver ripreso, seguito e raccontato il corteo di alcune donne che rivendicavano i loro diritti civili e umani, ovvero le violenze del regime dopo la presa di Kabul, a breve potrebbero essere “giustiziati”. Potrebbero avere la fine segnata qualora venissero presi e catturati dai talebani. L’auspicio è che possano trovare la salvezza attraverso un corridoio umanitario. Ma le notizie intanto, l’unica certa trapelata, non è affatto incoraggiante: il capo della polizia di Ghazni, Molawi Abu Mohammad Mansour, ha intimato ai giornalisti di arrendersi al nuovo potere islamico. Zaki Daryabi, il direttore del giornale per cui i reporter hanno seguito la manifestazione delle donne afghane, tra i principali quotidiani dell’Afghanistan, parla di “eclissi dell’era della libertà di stampa in cui siamo cresciuti negli ultimi vent’anni”. Anche altri giornalisti della stessa testata hanno pagato la loro voglia di giustizia e di umanità venendo arrestati.

Che fare? Gli appelli servono a nulla o a poco, con chi dimostra di essere sordo al dialogo, e storicamente di non essere cambiato. Tuttavia, vanno fatti, con l’estrema forza della fede vissuta nella speranza. Altrimenti smettiamola di credere nella cultura del rispetto e della pace… Gli stessi reporter presenti a Kabul hanno chiesto aiuto rivolgendosi alla comunità internazionale, baluardo della democrazia e della lotta alla violenza in ogni sua forma, perché nel loro Paese non sussistono più le condizioni per lavorare; l’unico ad ascoltarli, ovvero ad esporsi dicendosi intenzionato a fare il possibile per aiutarli, è stato Mohammed Jan Azad, imprenditore afghano che vive e lavora da vent’anni in Italia. E che due di quei valorosi ragazzi torturati, che non hanno nemmeno 30 anni, li ha visti nascere e crescere comprendendo cosa significhi “vivere” sotto il controllo dei talebani. Coi quali l’unica forma di dialogo è la fuga e la chilometrica distanza.

Quel viaggio rétro che sa di Salento e di amor proprio

Musica, tradizioni artigianali e cultura gastronomica: un’immersione nel folklore e nei sapori di una terra unica. C’è tutto questo nel libro di Maria Katja Raganato. Che nel suo romanzo, ambientato a Gallipoli, presta la propria opera alla lode del Salento, della sua magia nelle bellezze architettoniche e naturalistiche. Il libro si intitola “Come un faro nella notte”. E sta incontrando il gradimento di lettori e turisti. Anche della critica: al Premio letterario nazionale Artisti di borgo, per la sezione Romanzo inedito, è arrivato tra i finalisti. Centottantasette pagine suddivise in ben 30 capitoli. Oltre al prologo, che già stimola il lettore alla riflessione: “Se solo si potessero aggiustare anche le vite delle persone, con la stessa facilità cui lei riesce a riparare gli oggetti”, si dice nella bottega di mesciu Totu, dove si recano i personaggi di Sebastiano e Annina.

A far da sfondo alla storia è un’antica casa nel centro storico di Gallipoli. Tra i diversi personaggi ci sono una giovane che si trasferisce in un’altra città lasciando un non gratificante lavoro; un artista di strada claudicante e bellissimo che, dopo un lungo girovagare per la Penisola, ha fatto di un faro abbandonato il proprio rifugio; il rampollo di un’importante famiglia di produttori di vino, dotato di grande fascino e idolatrato dalle donne; un vecchio misterioso, venuto dal Nord, alla ricerca delle proprie radici e di una ragione per vivere. E poi un pasticcere imbranato – si legge ancora – una ragazza impacciata in conflitto con la propria immagine, due anziani coniugi, custodi di una dimora storica. C’è un vetusto rigattiere depositario di quell’arte a cui si faceva riferimento nel prologo. Quella, ormai perduta, di riparare oggetti vecchi rimettendoli a nuovo. Il fil rouge allora è la ricerca della felicità e dell’identità che passa attraverso un intenso viaggio fisico e interiore. Nella riscoperta, valorizzazione, di ciò che lega il presente alla memoria.

Come un faro nella notte (Pav Edizioni) è un romanzo che consente al lettore di catapultarsi in un’epoca come nuova. Di venir fuori dalla contemporaneità vorticosa per riscoprire personaggi, mestieri, atmosfere afferenti al secolo scorso. È un romanzo corale le cui diverse voci si intrecciano facendo esperienza di incontro e condivisione. La meta, la rinascita che attende quanti si mettono in cammino. E vedono le loro esistenze cambiate in toto.

In cammino è la stessa autrice, nata nella provincia di Lecce, dove vive. Laureata in Economia e Commercio con 100 e lode, si occupa dell’area contabile e amministrativa di due piccole aziende di famiglia. I suoi interessi spaziano dalla letteratura alla musica passando per il cinema. Appassionata di pittura e architettura, può compensare il rigore del lavoro e del percorso di studi con la propria vena creativa. Quella che le ha permesso di scommettere su stessa e a scrivere traducendo le sue immagini in parole. Quasi per caso, confida l’Autrice, dentro il viaggio ispirato dalla lettura dei testi altrui, senza sapere dove sarebbe andata a finire.

(Articolo pubblicato su “Lo Jonio” nr 199)

Una donna, il padre, e l’imponderabile frangente

L’Autrice ha una valigia piena a cui aggrapparsi nel momento del bisogno. Ma l’ha inutilizzata, perché dal suo territorio non se n’è andata, né ha intenzione di farlo, nei prossimi tempi. Tanto che si è candidata a sindaco nella sua San Pancrazio… Si chiama Federica Marangio, ed è un volto noto del giornalismo locale. Una di quelle persone votate alla resilienza e all’impegno trasversale. Nel suo ultimo romanzo, in libreria tra pochi giorni, “Il tempo di mezzo”, muove proprio dall’esperienza del viaggio. Quello interiore compiuto dalla protagonista che dovrà seguire le tracce lasciate dal padre in un biglietto datato all’anno 91 del secolo scorso. Le stesse passano per un polveroso negozio di antiquariato rappresentando la possibile cura al senso di incompiutezza provato da chi è chiamato a guardare il domani con sentimenti di fiducia e di speranza.

Il tempo di mezzo è, in primo luogo, un romanzo sul legame indissolubile tra una figlia e il proprio padre. Una riflessione sugli anni della svolta alla ricerca della verità. Sul caso, e sulle capacità, difficoltà dell’individuo di autodeterminarsi. Perché c’è “un tempo esatto, quello di mezzo, che è il più dispettoso. Può durare un attimo o un’eternità, ma ciò che accade in quel frangente non dipende più da te”. A non finir mai è l’amore intrafamiliare. In particolare, quello speciale, recuperabile o conflittuale nel rapporto figlia-padre. Ha quarant’anni Beatrice Rossini, la protagonista del romanzo: entrata nella cosiddetta mezza età, giornalista come l’Autrice, innamorata del marito e del suo lavoro, dovrà fare i conti col presente e coi fantasmi che riemergono. Col trauma che ha spezzato la sua famiglia quando era adolescente. Cosa può accaderle? La risposta è nelle 304 pagine pubblicate da Les Flaneurs Edizioni per la collana Bohemien. Un romanzo emozionante ed intenso, la cui prefazione porta la firma di Catena Fiorello, sorella dei grandi Rosario e Beppe.  

Il tempo di mezzo segue alla pubblicazione di “Io più di te. L’amore è un’addizione” (Falco Editore, 2018) e a La cicatrice (2015), il romanzo di esordio di Federica Marangio. L’Autrice, penna di una gran testata, che vorremmo rivedere presto in edicola tra gli altri quotidiani (La Gazzetta del Mezzogiorno) si è occupata di sanità. Il suo percorso di studi si è perfezionato col dottorato di ricerca internazionale conseguito presso di dipartimento di Ingegneria dell’innovazione dell’Unisalento. Vivace ed energica, aperta agli scambi interculturali, e ai processi di internazionalizzazione che promuove sempre, è bilingue – parla correttamente lo spagnolo e l’olandese. La giornalista scrive inoltre di community engagement e modelli di innovazione sociale. Tiene corsi sulla comunicazione multimediale per imprese e istituzioni. Le facciamo i migliori auguri per questa sua ultima fatica letteraria, e per tutto il resto: per i suoi articoli sulla carta stampata, da acquistare e leggere.

(Articolo pubblicato su “Lo Jonio” nr 199)