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Stati Uniti e Russia alleati nel sostegno ai gruppi terroristici: la denuncia di Rawa

A chi importa dell’Afghanistan? Lì le violazioni dei diritti umani sono drammaticamente continue, forti. A farne le spese le donne, le giovani che devono coprire con vestiti neri tutto il corpo, alle quali viene negata la formazione, la possibilità di andare a scuola. Le donne che non hanno il permesso di viaggiare da sole. Che devono essere sempre accompagnate da un parente uomo. Mentre poche “fortunate” possono svolgere determinati lavori, con limitate funzioni. Anacronismi che dovrebbero suscitare la nostra indignazione. La regressione ha avuto inizio nel 2021 quando le truppe americane hanno lasciato il Paese raggiunto vent’anni prima per combattere ovvero cacciare il governo talebano che ospitava al-Qaeda, il gruppo terroristico responsabile dell’attacco alle Torri Gemelle, l’11 settembre 2001. Scelta che ha aperto un’ampia discussione.

La contraddizione

Prezioso e perseverante, difficile e coraggioso il lavoro di Rawa – Associazione rivoluzionaria delle donne afghane, una delle organizzazioni più attive in Afghanistan, che denuncia inoltre: “Dal punto di vista politico noi vediamo che gli Stati Uniti appoggiando i talebani e diversi gruppi terroristici, ma anche Cina e Russia sono presenti in Afghanistan e appoggiano i loro gruppi fondamentalisti preferiti, e questo rende molto complicato per le nostre persone organizzare la resistenza”. Insomma, le superpotenze che non sono affatto amiche, tornate distanti da quando ha avuto inizio la guerra in Ucraina, hanno obiettivi e interessi comuni.

Un Paese allo sbando. Ma la resistenza fa rumore

La stessa organizzazione politica femminista, a sostegno dell’intera popolazione, dichiara che tutti gli uomini e le donne stanno soffrendo per il collasso del sistema economico, per la mancanza di cibo e di sicurezza; per la mancanza di prospettiva, di lavoro, mentre il costo della vita è in crescita, il prezzo dei beni di prima necessità schizza. Sebbene possa prevalere l’arrendevolezza, va detto che “tutti i gruppi religiosi ed etnici che vivono in Afghanistan sono fortemente contro i talebani e contro il fondamentalismo, hanno visto e avuto esperienza del loro governo precedente e vogliono avere un’alternativa migliore”. Vogliono vivere. Ovvero non cedere ai talebani e ai loro presunti valori. Barlumi di speranza dentro la catastrofe ignorata dal mondo.

Cercasi notizie sui reporter torturati dai talebani

Puniti per aver fatto il loro dovere etico e professionale. Per aver creduto che gli esseri umani sono tutti uguali. Per aver dato ascolto e voce alle donne afghane. Donne la cui bellezza ed intelligenza rendono trasparente l’abito più cupo e mortificante… Taqui Daryabi, Nematullah Naqdu e Mohammad Jalil Ramnaq hanno trovato rifugio nella capitale afghana Kabul, nel quartiere di Barci, abitato da 1 milione e 800mila hazara. Ma di certo non sono salvi e al riparo dalla follia reiterata dei talebani che, in una stazione di polizia, li hanno torturati, a suon di calci e frustate. Per ore lunghe come giornate. L’episodio, avvenuto la scorsa settimana, aveva suscitato un’ondata di indignazione forte, generalizzata. Avevano fatto il giro dei continenti le immagini di quei corpi offesi, assoggettati: spalle, schiena, braccia; glutei, fianchi, cosce e polpacci ricoperti di ecchimosi ed ematomi. L’ondata ora sembra essere scemata. Il silenzio, anzi, si è fatto imbarazzante, tombale: di loro non si occupa più alcuna testata. Nessuna notizia in rete. Mentre i tre reporter colpevoli di aver ripreso, seguito e raccontato il corteo di alcune donne che rivendicavano i loro diritti civili e umani, ovvero le violenze del regime dopo la presa di Kabul, a breve potrebbero essere “giustiziati”. Potrebbero avere la fine segnata qualora venissero presi e catturati dai talebani. L’auspicio è che possano trovare la salvezza attraverso un corridoio umanitario. Ma le notizie intanto, l’unica certa trapelata, non è affatto incoraggiante: il capo della polizia di Ghazni, Molawi Abu Mohammad Mansour, ha intimato ai giornalisti di arrendersi al nuovo potere islamico. Zaki Daryabi, il direttore del giornale per cui i reporter hanno seguito la manifestazione delle donne afghane, tra i principali quotidiani dell’Afghanistan, parla di “eclissi dell’era della libertà di stampa in cui siamo cresciuti negli ultimi vent’anni”. Anche altri giornalisti della stessa testata hanno pagato la loro voglia di giustizia e di umanità venendo arrestati.

Che fare? Gli appelli servono a nulla o a poco, con chi dimostra di essere sordo al dialogo, e storicamente di non essere cambiato. Tuttavia, vanno fatti, con l’estrema forza della fede vissuta nella speranza. Altrimenti smettiamola di credere nella cultura del rispetto e della pace… Gli stessi reporter presenti a Kabul hanno chiesto aiuto rivolgendosi alla comunità internazionale, baluardo della democrazia e della lotta alla violenza in ogni sua forma, perché nel loro Paese non sussistono più le condizioni per lavorare; l’unico ad ascoltarli, ovvero ad esporsi dicendosi intenzionato a fare il possibile per aiutarli, è stato Mohammed Jan Azad, imprenditore afghano che vive e lavora da vent’anni in Italia. E che due di quei valorosi ragazzi torturati, che non hanno nemmeno 30 anni, li ha visti nascere e crescere comprendendo cosa significhi “vivere” sotto il controllo dei talebani. Coi quali l’unica forma di dialogo è la fuga e la chilometrica distanza.