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Undici anni con Francesco: il coraggio di predicare e praticare la pace

Le sue parole sono state fraintese e criticate. Non da tutti, in verità – larga parte dell’opinione pubblica deve essere dalla sua parte. Non c’è niente di nuovo ma è sempre rivoluzionario quanto ha detto papa Bergoglio sulla guerra in Ucraina. Sono undici anni infatti (tra poco, mercoledì prossimo 13 marzo, ricorre l’anniversario del Pontificato) che Francesco parla di pace, con la forza e con il coraggio di chi sa andare controcorrente, se necessario. Più di undici anni che il religioso parla di amore e di fratellanza universale. E la pace non si costruisce con le armi.

Il coraggio di negoziare

Il papa usa il termine bandiera bianca a indicare la cessazione delle ostilità. Lo ha precisato Matteo Bruno, direttore della sala stampa della Santa sede, dopo l’intervista rilasciata da Francesco alla Radio televisione svizzera, due giorni fa. Parole che sono state strumentalizzate in una scia polemica inarrestata. Quanto richiesto, auspicato, dal pontefice è la tregua da raggiungere (dopo tante bombe, vittime e ostilità) attraverso il coraggio del negoziato. “Oggi, per esempio nella guerra in Ucraina, ci sono tanti che vogliono fare da mediatore: la Turchia si è offerta per questo, e altri. Non abbiate vergogna di negoziare prima che la cosa sia peggiore”, ha detto papa Bergoglio alla stessa Rsi. Le sue dichiarazioni vanno contestualizzate in tempi di crisi e di violenze generalizzate. La sua missione resta quella di moltiplicare non l’angoscia, ma la speranza.

L’escalation, il rischio da scongiurare

La violenza genera altra violenza. L’incidente, dietro l’angolo; e oltre al suicidio di un Paese devastato, il pericolo dell’allargamento del conflitto in Ucraina con il coinvolgimento della Nato è reale, sino al rischio di una terrificante guerra nucleare. Pensiamo alle recenti dichiarazioni del Capo di Stato della Francia Emmanuel Macron o alle esercitazioni della Nordic Response propedeutiche a una risposta o un’azione militare a sostegno del Paese invaso. Intanto, il presidente ceco Petr Pavel ha già dichiarato che le truppe della Nato potrebbero svolgere attività di sostegno direttamente sul territorio dell’Ucraina. Perché questo non violerebbe alcuna regola internazionale. Sebbene ci sia da fare una netta distinzione tra il dispiegamento delle truppe da combattimento e l’eventuale utilizzo di altre in attività di cosiddetto appoggio, nelle quali l’Alleanza ha già esperienza, questa mossa potrebbe essere mal interpretata da Mosca. Ovvero letta come segnale di una escalation che bisogna avere invece il coraggio di arrestare.

La strage degli innocenti, quando gli Alleati bombardarono Alessandria

Per non dimenticare. Per ricordare a noi stessi, in tempi di conflitto ucraino, e di minacce nucleari, che la guerra è sempre un incubo da scacciare: esattamente 78 anni fa, il 5 aprile, a venti giorni dalla fine della seconda guerra mondiale (1939-1945), gli alleati bombardarono la città di Alessandria. Si trattò dell’ultimo bombardamento alleato sull’Italia. Gli angloamericani lo effettuarono nel tentativo di sbarrare la strada ai tedeschi in ritirata. L’evento suscitò sentimenti di indignazione tra la popolazione, oltre a provocare un surplus di sofferenza, quando il conflitto stava per terminare.

Alessandria sotto le bombe

La città, che sembrava poter essere risparmiata dai bombardamenti nella seconda guerra mondiale, finì tra gli obiettivi dell’operazione “Strangle”. Perché il nodo ferroviario di Alessandria risultava essere fondamentale per i rifornimenti della Wehrmacht. Per questo la città fu bombardata nel 1944: dapprima il 30 aprile al quartiere Cristo, attacco che fece 239 vittime e centinaia di feriti e ingenti danni (fu distrutto lo storico teatro municipale e l’antico Palazzo Trotti-Bentivoglio, sede di biblioteche, musei e archivi civici), poi a più riprese fino al mese di settembre, quando risultarono distrutte 360 case (più di 1500 gli edifici danneggiati). A giugno gli ordigni avevano raggiunto i ponti dei fiumi Tanaro e Bormida. Prima di quei bombardamenti si contavano 12 morti. Vittime di un errore del bombardamento britannico che, anziché colpire Torino e Milano, raggiunse cascina Pistona e il sobborgo di Litta Parodi. Fu colpita inoltre una casa colonica a Cascinagrossa presso San Giuliano Piemonte. Le prime bombe caddero il 14 agosto 1940: le vittime furono 14, dei quali 3 bambini e 5 soccorritori.  

Il conflitto che impatta sulla comunità

La città fu segnata dai tragici eventi legati alla seconda guerra mondiale: dai bombardamenti all’occupazione tedesca, dalle persecuzioni degli ebrei alla Resistenza. Tornando alle bombe, l’ordigno sganciato il 5 settembre 1944 sventrò il rifugio antiaereo del rione Cittadella, in via Giordano Bruno, dando la morte a 39 civili. Possiamo immaginare l’impatto di quell’azione su chi credeva di stare al riparo. Di venti vittime non furono trovati neanche i resti.

Il 5 aprile

Le bombe degli aerei angloamericani che caddero quel giorno su Alessandria colpirono la cattedrale. Fecero numerose vittime, tra diversi rioni popolari e nel centro abitato, sebbene l’obiettivo fosse la stazione ferroviaria: 160 civili, 41 dei quali erano bambini (28), suore e insegnanti dell’Istituto Maria Ausiliatrice. Furono colpite alcune chiese, oltre alla cattedrale, l’ospedale infantile “Cesare Arrigo” e l’asilo di via Gagliaudo. Le case rase al suolo furono 45 e oltre 600 i feriti. Un attacco brutale, al punto che il comando provinciale dei partigiani del CLN (Comitato Liberazione Nazionale) inviò una nota di protesta al Comando Alleato in Italia. A distanza di tanti anni, la ferita resta aperta per la città di Alessandria.

Tigray, la guerra dimenticata che ha fatto oltre mezzo milione di vittime

Non solo Ucraina. Tra le guerre in corso nel 2023 (non possiamo considerarla chiusa) c’è quella del Tigray, nel nord Etiopia, che in due anni ha fatto oltre mezzo milione di vittime: l’Unione europea parla di un numero compreso tra i 600.000 e gli 800mila morti civili (donne, uomini, bambini) – tra i 100.000 e i 200mila, i militari deceduti. Gli sfollati sono più di 2 milioni e mezzo.

DUE ANNI DI CONFLITTO- La guerra ha avuto inizio con l’ascesa al potere di Abiy Ahmed Ali. Il primo ministro etiope, attraverso la sua politica, con le riforme e con il rinvio delle elezioni nel periodo della pandemia, ha provocato la reazione del Tigray: il governo regionale ci vede il tentativo di distruggere il sistema federale del Paese. E ha tenuto le proprie elezioni in autonomia. Da verbale, l’escalation si è fatta fisica, portando all’inizio del conflitto: nel novembre del 2020, il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray ha attaccato le basi militari del governo federale.

PULIZIA ETNICA- Amnesty International ha denunciato i gravi abusi commessi ai danni della popolazione civile. Al punto che si può parlare di pulizia etnica. Tra le negazioni dei diritti, c’è la negazione degli aiuti umanitari che non arrivano a destinazione. La popolazione è vittima della fame e della siccità. In un’area dove i cambiamenti climatici hanno reso la sopravvivenza ancora più difficile.

LA GUERRA INVISIBILE- Come tutte le guerre che avvengono in Africa, il conflitto del Tigray non accende i riflettori dei media. Sarà perché le ricadute dello stesso non coinvolgono l’economia europea.

L’ILLUSIONE DELLA TREGUA- Nel novembre 2022, a Pretoria, i rappresentanti del governo centrale e i leader del Tigray People’s Liberation Front (TPLF) hanno firmato un accordo di pace il governo etiope e le forze del Tigray hanno firmato un cessate il fuoco che prevede il disarmo delle milizie e il rispetto dell’integrità territoriale del Paese. Ma si tratta di una fragile tregua. Un accordo che, in sostanza, tiene accesi i rancori tra le opposte etnie. Non a caso, l’International Crisis Group fa rientrare la guerra del Tigray tra le dieci crisi mondiali da guardare con particolare attenzione.