Selvaggia Lucarelli, nel suo passato c’è la “droga”

L’amore tossico in Crepacuore

di Rossella MONTEMURRO

“Sapevo che tutto quello che vivevo era ingiusto. E questo è un passaggio fondamentale, che rappresenta una tappa comune in tutte le dipendenze: da un certo momento in poi si conosce la verità. La parte razionale di sé la illumina con chiarezza. Semplicemente, non ci si può opporre alla sua forza contraria. Io sapevo che ero stata vittima di un abbaglio, che non avrebbe mantenuto le promesse da me percepite nella fase dell’idillio, che dovevo scappare da quel vortice di sovrumana sofferenza, ma ero incatenata. Mi sentivo vittima di una specie di sortilegio, di una pratica divinatoria maligna, in cui agivo all’opposto di ciò che mi suggeriva la mente. Tutto ciò mi provocava una frustrazione enorme, ero precipitata in uno stato di regressione infantile in cui senza che il mio bisogno primario (lui) fosse soddisfatto, mi sentivo smarrita. Ero preda di una sindrome abbandonica invalidante e ossessiva.”

La giornalista Selvaggia Lucarelli siamo abituati a vederla sempre brillante, molto decisa, forte, senza peli sulla lingua. Dà l’immagina di una donna tosta, che certo non le manda a dire e che sa difendersi bene in ogni situazione: ecco perché leggere CrepacuoreStoria di una dipendenza affettiva (Rizzoli) significa ribaltare l’dea che si ha di lei, scoprendo dietro quella corazza una fragilità non indifferente che l’ha portata, in passato, tra le braccia di un uomo narcisista e manipolatore. Selvaggia ripercorre con lucidità, senza omettere particolari spiacevoli – è arrivata ad anteporre le esigenze e i diktat del suo ex a quelli di suo figlio che all’epoca aveva tre anni: “Si può confessare a qualcuno di aver avuto più paura di perdere un uomo che di rischiare che il proprio bambino cadesse dalle scale? Ve lo dico io: no” – descrivendo una storia in cui si era del tutto annullata. Il bambino, il lavoro, il futuro non contavano più niente rispetto al dispotismo, alle manie e alle richieste assurde del compagno che si insinuavano ogni giorno in quel rapporto malato. Quattro anni di inferno vissuti accanto a un anaffettivo dall’ego smisurato, che non perdeva occasione per sminuirla e screditarla mettendo a dura prova la sua autostima.

Il loro “nido” è una casa asettica e fredda, la stabilità emotiva di Selvaggia dipende dall’umore – o meglio, dagli sbalzi d’umore repentini e incontrollabili – di un uomo che, pur facendo di tutto per farsi detestare – è questa l’impressione che si ha leggendo Crepacuore – trova sempre in lei accondiscendenza. I rarissimi momenti idilliaci vengono  puntualmente rovinati anche solo da un aggettivo sbagliato. Paradossalmente, lui e le sue manie distruttive sono per Selvaggia come una droga. La ricerca delle dosi, l’euforia quando finalmente si ottengono, l’astinenza… Cadere in basso, subire, avere ripercussioni fisiche e, nonostante tutto, non riuscire a venir fuori da un legame tossico: “Vorrei dire che quel giorno toccai il fondo, ma nelle storie di dipendenze affettive i barili hanno anche un gran numero di doppifondi che si scoprono lentamente.”

Con coraggio, senza fare sconti soprattutto a se stessa, Crepacuore racconta come un incontro tra un uomo che non vede nulla oltre se stesso e una donna che non vede nulla oltre lui può trasformarsi in una devastante dipendenza affettiva. Solo dopo aver compreso cos’era quel vuoto da colmare e perché ha coltivato la speranza distruttiva che qualcuno potesse colmarlo: “Siamo stati, insieme, una profezia feroce che per avverarsi aveva bisogno delle ferite di entrambi”.

Sarebbe bastato spostare lo sguardo, come le aveva suggerito un’esperta di agopuntura, e magari non sarebbero passati quattro anni. Ma, si sa, quando si è dentro a un rapporto e si è troppo coinvolti, è difficilissimo troncarlo.

Selvaggia Lucarelli è giornalista per radio, quotidiani e tv. Il suo podcast Proprio a me per Choramedia sulle dipendenze affettive è stato scaricato da un milione di persone.

Ha un fidanzato che fa il cuoco, un figlio che ama i film horror, un cane cardiopatico e un gatto diabolico.

Nel corso degli anni ho capito che se non si va alla radice del problema, le dipendenze si spostano, trovano nuove forme con cui manifestarsi, nuovi (dis)equilibri.

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