Inno all’Orchestra del Festival di Sanremo

Senza di loro lo spettacolo non potrebbe avere luogo. Non come lo intendiamo: hanno accompagnato gli artisti nelle cinque serate di gara, la Musica, le canzoni, le emozioni e gli umori facendo da cassa di risonanza. Ovvero compartecipando all’opera della Creazione sul palco. Sono le donne e gli uomini dell’Orchestra del Festival di Sanremo. Professionisti appassionati, instancabili. Tra questi, la scorsa settimana, c’era Doriana Bellani. Che conserva un legame speciale con la città di Taranto. Pure quello con il famosa kermesse canora è collaudato: per l’undicesima volta la violinista lombarda di Sant’Angelo Lodigiano ha fatto parte dell’orchestra sul palco dell’Ariston.

Come è andata?

“Premesso che ogni singola esperienza ha emozioni a se stanti (cambiano gli artisti, i conduttori e il modo di condurre), quest’ultima è stata particolarmente emozionante. Il Festival è stato segnato dal Covid per il secondo anno. Stavolta, però, la presenza del pubblico in sala ha dato l’idea della ripresa, della rinascita. Il protocollo Rai era molto rigido: avevamo tamponi ogni 48 ore, facevamo vita di clausura, in pratica, passando dall’albergo al teatro con una ridotta vita sociale. Però, portando a termine un grande lavoro, abbiamo capito l’importanza di stare uniti: per arrivare alla meta, questo ci ha aiutato tanto”.

Artisticamente, a suo parere, che Festival è stato?

“A me è piaciuto. Negli ultimi anni ho visto l’evoluzione del Festival, l’inserimento del rap, delle nuove generazioni. Sono rimasto sorpresa da questi giovani che hanno tanto da dire, da raccontare, e che sanno emozionare”.

Ritiene giusto che il Festival della canzone italiana, che il classicismo di cui dovrebbe connotarsi vada incontro alle contaminazioni e alla innovazione sul palco?

“Il Festival deve coprire tutte le generazioni. Deve essere soggetto a evoluzione, altrimenti finirebbe per essere, potremmo dire, ghettizzato dalle nuove leve. È giusto che abbracci tutti ma con una prospettiva sul futuro. Così, quest’anno, è stato bello vedere tre generazioni rappresentate. È stato bello vedere un Gianni Morandi vincere la serata delle cover, e finire sul podio; è stato bello vedere una Elisa, professionista navigata che potrebbe fare la super ospite, mettersi in gioco dando valore e importanza a questo Festival giocandosela con due giovanissimi, Mahmood e Blanco per la vittoria finale”.

Voltiamo pagina, ma nello stesso ambito, in tema di emozioni e di gratuità. Lei recentemente è stata a Taranto…

“Sì, alla Cittadella della Carità, nell’ambito della rassegna concertistica per i pazienti ricoverati in Arca. Io suono in duo con Maria Grassi, artista di Taranto. La nostra è un’amicizia fraterna: ci conosciamo da oltre trent’anni. Nell’ultimo periodo abbiamo deciso di costituire un duo violino e arpa. Suonare alla Cittadella per le persone più sofferenti, sapere di poter portare loro almeno un attimo di serenità, attraverso la nostra musica e un nostro gesto, è stato emozionante. Era Natale, peraltro. Merito dall’Ateneo della chitarra e del direttore artistico Pino Forresu per l’evento organizzato”.

Della città cosa le è parso?

“Conosco Taranto da tanto. Ci vengo spesso. Ce l’ho nel cuore: il mio papà ha fatto il militare a Taranto, gli piaceva tanto, e mi raccontava tante cose della città. Anche di aver sentito Only You per la prima volta alla famosa ex Standa. Ancora oggi, quando ci vado, immagino il mio papà che si aggira lì dentro ascoltando quel brano… L’ho trovata molto bene, Taranto, pulita, dal mare alla città vecchia. È fatta di persone fantastiche, disponibili, accoglienti. Come sono pure quelle di Napoli, dove sono appena stata con la stessa Maria Grassi. La gente del Sud ha un carattere solare e la capacità di lasciarsi scivolare di dosso ogni negatività”.

Amo ergo sum: i post Millennials alla ribalta

Hanno gli stessi sogni dei loro genitori o dei nonni. Le stesse angosce, magari moltiplicate per il futuro incerto, nebuloso. Strumenti diversi per affrontare emergenze nuove. Reclamano diritti, voce e spazio. Sono interconnessi, e anelano a vivere con intensità le loro emozioni. Sono i giovani del terzo millennio, al centro di “Abbiamo fatto nostro un pezzo di mondo”, libro che inaugura Gen/Z, la nuova collana Altrimedia edizioni dedicata interamente proprio ai Post millennials. L’autore è Francesco Toma. La prefazione dell’opera porta la firma di Benedetta Pilato. “Francesco Toma, che ho conosciuto nella piscina di Taranto in cui mi alleno – scrive di lui La campionissima – è riuscito a cogliere ogni sfumatura della nostra generazione raccontando una storia davvero molto bella”. Lo ha fatto lasciandosi andare alla poesia. In modo da distinguersi perché, secondo Benny, “è originale e inconsueto seguire le emozioni ‘al maschile’, la maggior parte dei romanzi sono infatti narrati sempre dal punto di vista delle donne”.

Che siano originali o non, quando si parla di giovani, non si può non fare riferimento al motivo della giustizia intergenerazionale, che ogni civiltà dovrebbe assicurare. Un obiettivo puntualmente disatteso nella realtà dei fatti. Si pensi, infatti, che alle nuove generazioni si sta scaricando il debito della ricostruzione post-pandemica; le nuove leve a loro volta, pur mostrando maggiore attenzione verso i temi legati alla sostenibilità, impatteranno sulla qualità della vita di chi erediterà il mondo, in modo inevitabile. Cosa lega le comunità, confinanti o remote? Il file rouge è l’errore. Ma anche la ricerca della bellezza come bisogno primario. Parimenti l’impulso a conquistare il ruolo di protagonista all’interno del grande palcoscenico, e non di comparsa. Il protagonista della storia narrata è Lorenzo. Che ha vent’anni e, studente universitario, dice di essersi innamorato una sola volta, di lunedì: dovrà confrontarsi con le proprie insicurezze, con i suoi dubbi, per andare alla ricerca di ciò di cui nessun adulto né adolescente può fare a meno: il sentimento, da vivere nella dimensione di coppia, affettiva e sessuale. L’autore è bravo nel ricostruire quell’atmosfera propria della vita universitaria. E i compagni, gli amici, gli sfottò e le bonarie goliardate afferiscono a un patrimonio irrinunciabile.

Classe 2001, nato e cresciuto nella provincia di Lecce (Ruffano), Francesco Toma ha frequentato il liceo scientifico, e studia da fuorisede in Bocconi per la Facoltà di Economia. Il suo Abbiamo fatto nostro un pezzo di mondo segue alla pubblicazione di Ho paura che arrivi settembre (2020) e Una volta per tutte (2019). Precedentemente si è fatto conoscere con pensieri pubblicati sui social, inizialmente in forma anonima. Passando dalla piattaforma Wattapad alla casa editrice materana (sul web è arrivato a totalizzare circa 4mila lettori in una sola settimana) dimostra di volersi confrontare con un pubblico trasversale.

“Mi sono innamorato di Eva Kant”, il libro di Pierfranco Bruni in 5 incontri online

Cosa si nasconde dietro l’Eva Kant di Pierfranco Bruni che vive nelle pagine del suo ultimo capolavoro letterario “Mi sono innamorato di Eva Kant”, edito da Pellegrini Editore? Figura archetipica, simbolo di bellezza eleganza e dedizione, che assolve al ruolo della Beatrice dantesca, oppure amante immaginifica alla quale Bruni assegna una connotazione di carnale sensualità al pari di Riccioli biondi?

Nei cinque incontri, condotti da Stefania Romito, a È TEMPO DI CULTURA, trasmissione social di approfondimento culturale, in diretta Facebook nel gruppo letterario “Ophelia’s friends” a partire dal 28 febbraio alle ore 17, e per tutto il mese di marzo (ogni lunedì alla stessa ora), Pierfranco Bruni svelerà i risvolti più affascinanti di un libro che rappresenta un compendio di emozioni, un diario-confessione nel quale vengono attraversate le tappe della propria vita attraverso le figure chiave, reali e simboliche, che l’hanno costruita.

Cinque incontri per ritornare al valore della vita, al senso del nostro esistere. Per ritrovare la preziosità del nostro essere erranti mediante la guida di chi è stato custode di Bellezza e che ha illuminato il nostro cammino.

La magia di Elisa


In questa intervista la cantautrice classificatasi al secondo posto al Festival di Sanremo 2022 sintetizza il senso della Musica. Che nulla ha a che fare con la gara, con la competizione, e che lega il successo alla dimensione del mistero: la voce e l’eleganza di Elisa, la sua performance sul palco dell’Ariston con “O forse sei tu”, sono pura magia. Spotify premia l’artista con il record femminile di ascolti (1.013.000) in ventiquattrore.

Sul mistero che abita l’ombra, e l’amore puro incondizionato

di Stefania ROMITO

“Mi sono innamorato di Eva Kant”, edito da Pellegrini Editore, non è il primo libro di Pierfranco Bruni che leggo. A dire la verità, ho vissuto molti suoi libri e di alcuni ho abitato le parole dall’interno. Ma sebbene, da un tempo che pare infinito, mi incontri quotidianamente con le sue emozioni scritte, la sua ars scribendi non diviene mai abitudinarietà perpetuando una magia che si infinita in ogni riga di spazio, donando al tempo il sapore dell’eterno.

Pierfranco Bruni sublima la realtà trasfigurandola in incanto onirico nel convincimento che nulla è più vero del sogno che non conosce l’impossibile. Le leggi fisiche si annullano e a regolare il tutto è l’immaginario. E da questa realtà sublimata, così tangibile nella sua metafisicità, non ci si vorrebbe mai congedare, perché solo in questa dimensione trascendente, che in Bruni diviene sensualità d’anima, si vive quella fisicità di spirito avulsa alla pragmaticità del quotidiano.

Mi sono innamorato di Eva Kant è un compendio di sentimenti d’emozione. Quei sentimenti ed emozioni che hanno costruito il vissuto dell’io narrante il quale, come Virgilio nella commedia dantesca, accompagna il cammino del pellegrino Bruni dal suo incipit di vita fino a quell’età in cui l’evoluzione intellettuale giunge all’estrema compiutezza. Una testimonianza che diventa confessione in un percorso dialogante con l’altro da sé tra i miti e leggende che hanno reso incommensurabile e profondo il pensiero dell’autore. Così quel “caro lettore” al quale l’io narrante si rivolge diviene un compagno di viaggio che si riflette nello specchio del doppio. Perché chi meglio di se stesso, e Bruni lo sa bene, può accogliere le confidenze nella devozione di complici segreti? Un diario emozionale? Un tentativo di ripercorrere le tappe della propria vita attraverso le figure chiave, reali e simboliche, che l’hanno costruita? Certamente sì. Ma non solo.

Mi sono innamorato di Eva Kant è il tentativo di catturare il mistero per definirlo nella condivisione pur sapendo che è incatturabile. Quello stesso mistero che fa vivere lo scrittore costantemente in bilico tra realtà e finzione. La Eva Kant del titolo non è soltanto l’ammaliante donna di Diabolik. È quella figura archetipica che riporta l’autore all’età della gaiezza. Eva Kant, icona di bellezza eleganza e raffinatezza, assume i molteplici volti delle altre donne presenti nel libro, prima fra tutte Riccioli biondi. Ma mentre Eva Kant sembra assumere il ruolo di Beatrice nella sua azione salvifica, riconducendo l’autore all’Eden irrimediabilmente perduto, Riccioli biondi è l’amante immaginifica e idealizzante alla quale Bruni assegna una connotazione di carnale sensualità. Entrambe simboleggiano l’amore incondizionato, in una devozione che è dedizione. «Mi sono innamorato di Eva per la raffinatezza e la sensualità oltre che per quel fascino del mistero che la caratterizzava ma anche per la sua fedeltà e il suo saper restare in ombra».

Torna il concetto di mistero che abita l’ombra e che si percepisce nella Bellezza. Di un amore. Di un’opera d’arte. Soltanto un divin scrittore come Pierfranco Bruni poteva “raccontare”, con così efficace suggestione, il mistero della genesi della Bellezza. È proprio nell’ultimo capitolo intitolato Le ombre, in cui inscena un visionario dialogo con l’Urbinate, che Pierfranco Bruni approda all’apogeo della sua analisi fenomenologica sul valore e la resa emozionale dell’oggetto artistico in sé, svelando la perfezione della Bellezza in quella dimensione invisibile che si frappone tra l’idea originaria dell’artista e la sua creazione. Quell’emozione che rimane “intrappolata” in questo spazio di tempo e che viene colta soltanto dagli spiriti sublimi. L’emozione è Bellezza fino a quando continua a esistere nella dimensione del mistero.

(Continua a leggere su Oraquadra)

Salto con l’asta, il 2022 di Francesca Semeraro e Luca

Il suo nome è legato a doppio filo al mondo dell’atletica. A una famiglia che ha fatto di questa disciplina, il salto con l’asta, una metafora dell’esistenza: saltare sempre più in alto, alzare l’asticella, a suon di sudore e di fatica, per dare un senso al vivere. Francesca Semeraro si è superata e confermata più volte nella sua carriera sportiva – l’ultimo record, primato personale e regionale pugliese, lo ha realizzato la scorsa estate ai Campionati italiani Assoluti saltando la misura di 4,20 metri. Ebbene, vorrà continuare a farlo in questa stagione, anche se le premesse non sono positive. “Non è un buon periodo – confida al nostro giornale l’atleta tarantina – che si protrae della fine del 2021. Ho preso il Covid, e questo mi ha scombussolato un po’ la preparazione: ho preso parte a due gare indoor a Fermo, insoddisfacenti tutte e due, alla prima mi sono ritirata”. La campionessa otto volte vincitrice del titolo italiano nelle categorie giovanili dichiara tutto il proprio dispiacere: “A livello mentale, oltre che fisico, devo metabolizzare quanto mi è successo in un arco temporale breve, esperienze negative concomitanti. Non ho obiettivi invernali, per ora: ho rinunciato alla stagione indoor, compresi i campionati italiani che si svolgeranno a fine febbraio ad Ancona”. Perché le sfide possono attendere, ma non essere eluse nel breve termine, “mi prenderò qualche giorno per starmene tranquilla, e riprenderò l’allenamento in vista della stagione all’aperto, da maggio in poi”.

Chi può sorridere è il fratello Luca. Che ha cominciato alla grande il 20222: lo scorso fine settimana, al meeting nazionale R. Donzelli, dedicato al salto con l’asta a Fermo, si è aggiudicato la gara saltando la misura di 4,80 m. Ovvero ottenendo il Personal Best indoor. Il risultato inorgoglisce l’Aden Exprivia Molfetta, la nuova squadra per cui gareggia il giovane astista tarantino, classe 2000. E non sorprende sua sorella Francesca: “Me lo aspettavo, in un certo senso. Io che mi alleno e sto sempre con lui, lo vedevo molto bene. In forma”. I segnali precedenti erano positivi. Infatti, sempre a Fermo, Luca aveva migliorato il primato stagionale a 4.50 metri. Eppure, non deve aver passato giorni facili, perché “lo abbiamo preso entrambi il Covid. Il suo approccio, però, è stato diverso: ha reagito meglio”. “Sta molto bene, farà i campionati italiani indoor di categoria, tra gli Under 23, e credo che potrà giocarsi la medaglia”, chiosa Francesca. Per lei, che di momenti difficili ne ha passati e superati caparbiamente, occorrerà armarsi di pazienza. Un aiuto potrà venire senz’altro proprio dal fratello. Perché sono due facce della stessa medaglia, Luca e Francesca: diversi e affini, complici, quando uno dei due sta male, l’altro è “su”. E possono donarsi amore fraterno e reciproca assistenza.

(Pubblicato su “Lo Jonio” nr 128)

Il caso Piazza, quando gli ebrei erano fascisti

La sua biografia è stata rispolverata dalla docente Romana Bogliaccino in “Scuola negata” (Biblion, 2021). La riproponiamo in occasione del seconda Giornata mondiale contro i genocidi e per la prevenzione dei crimini contro l’umanità, al di là della ricorrenza celebrata ieri, ventisette gennaio (come ha detto la senatrice Liliana Segre, tutti i giorni sono quelli della Memoria): Maria Piazza (1894-1976) rientra tra quegli ebrei che antifascisti non lo sono mai stati, almeno fino al ’38, quando furono applicate in Italia le Leggi razziali; ma pagò a caro prezzo la propria condizione, in ogni caso.

Nata nella provincia di Avellino (Ariano Irpino), Maria Piazza si laureò a Napoli in Chimica, per poi proseguire gli studi all’Università di Roma (il padre si era trasferito nella capitale prendendo possesso di un negozio di tessuti), dove svolse anche il ruolo di assistente all’Istituto di Mineralogia; per la stessa Facoltà ottenne la libera docenza nel 1932. Un anno prima, all’atto della nomina, giurò fedeltà al regime. Aveva tre sorelle. Del suo lavoro si ricorda anche il contributo dato all’Enciclopedia italiana nella produzione di articoli scientifici. Dopo anni di insegnamento (dal ’29 al ‘38’ al liceo Visconti di Roma), a causa delle Leggi razziali fu espulsa, estromessa anche dall’Università, dalla Società geologica e dalla S. per il Progresso delle Scienze – dalla sua classe, la II liceale A, furono espulsi anche gli studenti Vittorio Bonfiglioli e Sergio Bondì. La professoressa riprese ad insegnare alla neonata Scuola ebraica. Come anche alla “Università clandestina” di Roma, che chiamava a raccolta gli studenti ebrei desiderosi di proseguire gli studi scientifici dopo la scuola superiore.

Chi era Maria Piazza agli occhi dei suoi studenti? Era una che “ti metteva la mineralogia in testa a martellate”, ricorda di lei un ex alunno, Gino Fiorentino, sottolineando la severità della donna che veniva chiamata ‘zi’ Maria’. Prima di morire fu nominata Commendatore al merito della Repubblica italiana. La sua testimonianza è di rigore, passione incondizionata per l’insegnamento, per il quale si è sempre sentita vocata: esempio valido ai giorni odierni, peraltro: retto dal corpo docente, che oltre ad essere preparato dovrebbe dimostrarsi capace di proporsi alla classe con un approccio minimamente empatico, tra didattica a distanza e presenza, il sistema scolastico deve continuare a garantire la sua presenza preziosa e indispensabile.

Denatalità, quando la crisi si risolve nelle piccole città

di Camillo LANGONE

Chi abita nelle grandi città non può capire quanto l’Italia si stia svuotandoIn provincia i nonni muoiono e i nipoti, quei pochi giovani che ancora esistono, vanno innanzitutto a Milano e a Roma, qualcuno magari a Bologna, Verona, Padova, Parma… Il resto è deserto che avanza. Provo a vedere il lato positivo: il calo demografico porta di regola il calo immobiliare. Vado a Udine, la capitale del Friuli, e intra moenia vedo appartamenti sotto i 100.000 euri, vado ad Alessandria, al centro del già glorioso triangolo industriale, e ne vedo anche a meno. Il Piemonte è messo in buona parte così: a Biella, la città della banca Sella, le case costano 700 euri al metro.

Considerando che a fare il lusso più del prezzo è lo spazio, si può facilmente vivere nell’agio anche a Ivrea, Novi Ligure, Casale Monferrato, Feltre, Gorizia, Terni, Fabriano, Alatri, Anagni, Sora, Avezzano, Isernia, Ariano Irpino, Sessa Aurunca, Acquaviva delle Fonti, Lucera, San Severo, Taranto (città e cittadine con prezzi medi sotto i 1.000 euri al metro).

Inoltre i monolocali metropolitani hanno un potente effetto contraccettivo, mentre disponendo di due camere da letto può perfino darsi che qualche donna rimanga incinta. Felicità degli spazi, scriveva Cardarelli.

(Pubblicato su Il Foglio)

Rossella Merendino e la bicicletta: un ritorno di fiamma

Venticinque anni compiuti la scorsa settimana. Occhi che rapiscono, che incantano. Un fisico mozzafiato scolpito dalla fatica e dalla natura, dalla vita sana. Rossella Merendino sembra una miss, una modella, più che una biker. Ha una mente ben allenata, brillante, agile, disposta ad allargare i confini della conoscenza e delle esperienze che si possano maturare. Il suono della sua voce rimanda ai luoghi vicini e remoti che ha visitato. Alle persone che ha conosciuto, incontrato. Ai prodotti tipici più gustosi, intesi come culture, risorse e peculiarità sparse per il mondo. Originaria di Taranto, il suo nome è legato all’azienda agricola Olivaro, realtà imprenditoriale del territorio ionico: l’attaccamento alle proprie origini, alla terra in cui è cresciuta (Maruggio), dev’essere sempre forte, ben radicato. Al pari della cultura del lavoro, ereditata. L’atleta ha vestito la maglia della squadra Ciclosport 2000 di Grottaglie, e per le sue doti si sta facendo conoscere, apprezzare nel mondo delle due ruote.

Nel 2021 ti sei tolta in gara delle soddisfazioni: dai successi alla Varano bike race e alla Neanderthal cup alla conquista del podio nel campionato Challenge xco Puglia. Il bilancio quindi è positivo?

“Assolutamente sì. Considerando anche che ho cominciato a praticare il ciclismo nel 2020, per puro svago: mi sono tesserata, ho conosciuto persone, agonisti e preso in considerazione l’idea di gareggiare, come loro. Ho la mente un po’ competitiva, devo dire. Alla base del mio percorso può esserci stato questo. Ho deciso di farmi seguire da un allenatore esperto. L’anno scorso ho quindi intrapreso quest’avventura che mi sta dando soddisfazioni”.

Ti abbiamo vista impegnata all’inizio della scorsa estate alla prima prova di “Cicloamatour”. L’hai fatta per gioco, per tenerti allenata, oppure pensi di darti al ciclismo su strada con più continuità, in futuro?

“La strada in questo momento è in secondo piano. Sicuramente è la mountain bike quella che scorre di più nelle mie vene. Quest’anno vorrei prendere parte a una o due gare nazionali come la Dolomiti Superbike, o qualche Marathon dei Parchi naturali. Questo rientra nel mio programma. Non so se riuscirò anche a gareggiare su strada”.

Da dove nasce la tua passione per la bici? E cosa rappresenta per te questa dura disciplina, la cui pratica richiede tecnica, coraggio e abilità di guida?

“La mia passione per la bici, per la mtb in particolare, c’è sempre stata. Probabilmente perché ho avuto la fortuna di crescere in campagna: uno dei miei passatempi preferiti era quello di esplorare le campagne circostanti in mountain bike. Sin da piccola ero abbastanza temeraria. Non avevo paura di esplorare posti nuovi, anche in solitaria. Ero abbastanza spericolata, tanto che conservo qualche cicatrice post caduta. Ho abbandonato questa passione per colpa degli studi. L’ho ripresa, ripeto, per puro caso nel 2020 durante il lockdown: mio padre si regalò una ebike, e a me fece dono di una mtb. Pedalare fu il nostro unico svago nel periodo in cui si era confinati nel comune di residenza, per colpa della pandemia. In estate ho poi acquistato una mtb performante. Ho fatto amicizia con tanti ciclisti, della zona e non. Da allora non mi sono più staccata da questo grande amore. Per me la bicicletta è maestra di vita. Grazie a lei sono riuscita a scoprire lati di me stessa del tutto nuovi, forze che non sapevo di avere. La bicicletta ti cambia l’esistenza. Le sono veramente grata, perché grazie a queste scoperte affronti la vita di tutti i giorni in maniera diversa: le difficoltà, gli imprevisti con una consapevolezza nuova”.

Quando non pedala, chi è Rossella Merendino?

“Di me posso dire che sono laureata in Strategie d’impresa e management presso il Dipartimento jonico di Taranto. Attualmente lavoro come consulente aziendale presso una big four con sede a Bari. Le big four sono le quattro società di revisione più grandi al mondo. Io mi occupo di fornire servizi di consulenza contabile e fiscale. Rossella, poi, è anche altro… È amante dei viaggi, del buon cibo, del buon bere”.

Articolo pubblicato su “L’Adriatico” nr 129

La fierezza del delfino

Ci sono campioni e Campioni. I primi sono gli atleti di alto o altissimo profilo che inseguono prestazioni massime e record; i secondi sono quelli che vanno al di là dei numeri, che antepongono la vita a tutto il resto: che inneggiandola sanno fare dei loro limiti una inesauribile ed esclusiva risorsa. Alla seconda categoria appartiene Marco D’Aniello. Atleta che quando sta in acqua, in vasca, deve sentirsi un appagato signore e dominus. Ovvero libero come vorrebbe essere ogni persona al mondo. La sua storia è raccontata in “Il mio tuffo nei sogni”, il libro della giornalista e scrittrice Rossella Montemurro. È una storia di fragilità, questa. E la fragilità – dichiara la stessa autrice di Matera – ai giorni nostri spaventa. Il tarantino Marco D’Aniello non si è lasciato spaventare dalla condizione che gli ha riservato l’esistenza: il ragazzo autistico è riuscito a incanalare nello sport la sua energia ridondante. Ai Campionati nazionali della Fisdir (Federazione italiana sport paralimpici degli intellettivo relazionali), nel 2019, ha realizzato il record italiano assoluto nella categoria Juniores 50 metri stile libero. Quest’anno si è confermato vincendo il titolo italiano nei 100 delfino classe S14. Nella stessa competizione, allo Stadio del Nuoto di Riccione, ha conquistato inoltre la medaglia d’oro nei 50 farfalla, il bronzo nei 50 stile libero. Il racconto scorrevole di RM parte dal ‘98, dalla gravidanza turbolenta di mamma Cinzia, per concludersi con la mission della Fisdir, chiarita nell’appendice: favorire l’inclusività che passa dalla completa autonomia dell’atleta, nonché promuovere il concetto di pratica sportiva “normalizzata”, intesa come strumento per migliorare la qualità della vita.

Se la storia di Marco D’Aniello può essere divulgata facendosi esempio (di perseveranza speranza resilienza), il merito è di Rossella Montemurro, capace di sviluppare l’idea, l’intuizione dello scrittore tarantino Lorenzo Laporta. Tra i sogni realizzati dal protagonista 23enne c’è l’incontro con il suo idolo Raul Bova. Che ha un passato da nuotatore, e nella fiction televisiva “Come un delfino”, da lui diretta e prodotta, accende i riflettori sullo sport e sulla stessa disciplina praticata da lui stesso – a 15 anni ha vinto il campionato italiano giovanile nei 100 metri dorso. Il grande desiderio di Marco D’Aniello è stato esaudito grazie al programma televisivo della Rai La porta dei sogni condotto da Mara Venier. Firmando la prefazione del libro, la stessa popolare conduttrice pone l’accento sulle linee guida fornite dalla storia edita da Altrimedia: sottolinea il valore della testimonianza naturalmente, il grande esempio; l’impegno gravoso, quotidiano che accomuna le anime belle nella lotta contro pregiudizi e cattiverie; immagina le sofferenze pregresse, l’angoscia dei genitori, Cinzia e Roberto. Persone capaci di assolvere al loro ruolo al meglio. Rispetto al senso di inadeguatezza, che chiunque proverebbe, hanno infatti risposto con l’amorevole presenza. Il resto lo ha messo chi salta splendente nel suo mondo costruendosi il futuro con le proprie mani.    

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Covid, l’esplosione dei casi può avere una chiave di lettura non affatto drammatica

“Scoprire che Omicron non induce malattia grave nella stragrande maggioranza dei casi, ha lasciato spazio all’intuizione che possa realmente porre la parola fine alla Pandemia come fenomeno sociale”. È il pensiero del professor Antonio Giordano. Che vede avvicinarsi la fine della catastrofe da noi tutti desiderata, proprio nel momento in cui i casi di positività, in Europa e in Italia, aumentano in modo esponenziale. Ciò non significa che il virus smetterà di circolare e di far danni. Ma che la strada della convivenza con lo stesso si fa sempre più larga. Ce lo insegna la storia, peraltro: sulle pandemie, o pestilenze, si distingue la fine sanitaria da quella sociale: la prima è quando crollano l’incidenza e la mortalità, quando gli ospedali non sono più in difficoltà, o al collasso, perché reggono l’impatto; la seconda, quando svanisce la paura delle comunità. È evidente che si tratta di un processo graduale. Soprattutto richiede tempo il superamento del sentimento insito nella natura umana: la paura sovrapposta alla diffidenza e all’ansia.

La variante Omicron, intanto, rileva l’oncologo di fama mondiale, direttore dello Sbarro institute for cancer research and molecular medicine di Philadelphia, potrebbe creare immunità naturale. La quale dovrebbe portarci verso una cosiddetta nuova normalità. Significa che va prefigurato come un lontano e spaventoso ricordo l’epoca dei lockdown, delle chiusure locali o generalizzate, delle restrizioni capaci di azzerare i momenti di socialità, e di portare al tracollo tanti comparti economici: il virus non può inficiare lo svolgimento delle attività, come ha fatto negli ultimi due anni, in ogni angolo del creato. La conditio sine qua non è l’avanzamento della campagna vaccinale. Va ribadita l’utilità dei vaccini, in particolare della terza dose o booster, efficace a quattordici giorni dalla somministrazione – protegge dalla malattia sintomatica da Omicron, poco meno di quanto proteggono due dosi di Pfizer o Astrazeneca dalla Delta. Lo attestano i risultati prodotti nelle ultime settimane in Gran Bretagna.

Ebbene, l’immunità da realizzare attraverso questa strada (lo scienziato napoletano usa altri termini, ma si tratta della famosa immunità di gregge) dovrebbe garantirci una potente protezione contro i futuri ceppi ipotizzando che il virus venga ridimensionato ad una “forma influenzale che non colpisce i polmoni”, come hanno fatto le varianti alfa, inglese e delta. Le mascherine continueranno a far parte della nostra quotidianità. Perché la prudenza, si sa, non è mai troppa. Nessuno poteva prevedere l’esplosione dei casi a cui stiamo assistendo adesso. E che la variante Omicron soppiantasse la Delta, così presto. Ma il rovescio della medaglia è questo: sono gli ultimi fuochi, tanto disturbanti e pirotecnici nell’inventiva con cui sanno sorprendere rinnovandosi, da guardare a debita distanza, finché la nebbia creatasi non si dirada lasciando il posto al sole e alla speranza.

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Montale, i limoni e la conflittualità che tace

L’illuminante armonia del silenzio montaliano

di Stefania ROMITO

“Ossi di seppia ” allude alla presenza del mare che sarà cantato in “Mediterraneo”, una serie di liriche nelle quali il mare sarà guardato nella sua diversità, invidiato per la sua capacità di essere vasto, diverso e insieme fisso, capace di svuotarsi di ogni lordura (“come tu fai, che sbatti sulle sponde, tra sugheri e arterie, macerie del tuo abisso”). Fra queste macerie ci sono gli ossi di seppia che vengono trasportati dalle onde come cosa inutile. Montale qui stabilisce un curioso parallelo tra le cose inutili e le cose utili.

Questa concezione poco romantica viene sostenuta in un testo diventato famoso per contenere l’essenza della poetica di Montale: “I limoni” (“Ascoltami, i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti”). In questa affermazione indicativa si stabilisce subito una opposizione. I poeti laureati usano riferirsi solo a piante da giardino, piante letterarie che si conoscono poco ma che vengono nominate perché fanno riferimento ad una realtà preziosa, ma poi vi sono “le strade che riescono agli erbosi”, strade fatte da nessuno, sentieri che vengono praticati in libertà, dove non c’è una natura curata, bensì una natura allo stato brado.

“Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi che sboccano”. I poeti laureati non userebbero mai l’espressione “io per me amo le strade”, sprezzatura linguistica tipica del parlato che abbassa il livello stilistico della poesia a quello normale della conversazione a sottolineare la differenza che si vuole stabilire rispetto alle abitudini di una certa letteratura.

Gli alberi di limoni sono parte integrante di una realtà quotidiana, proprio perché siamo in Liguria. Si tratta di un tipo di frutto che necessita del sole e non cresce dappertutto. In questa terra è qualcosa di comune, ed è per questo che Montale lo sceglie come emblema di ciò che vuole raccontare, oltre che per il colore che splende in mezzo a una natura desolata.

“Le viuzze che seguono i ciglioni, i soli sentieri e improvvisamente discendono tra i ciuffi delle canne”. Dominano le immagini naturalistiche. Questi piccoli orti, tipici della Liguria, sono comuni fra le case e appaiono inaspettati tra le case e il terreno. Luoghi che appaiono all’improvviso alla vista di colui che sta passeggiando in mezzo alle “cose normali” dell’esistenza. Alla vista di questi orti, che rappresentano piccole pause rispetto a tutto il resto, Montale sottolinea la presenza di un silenzio, di una pace rispetto allo scorrere della vita: “Qui nelle divertite passioni per miracolo tace la guerra qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza ed è l’odore dei limoni”. In presenza di questo paesaggio naturale tace la guerra delle passioni. In questi luoghi lontano dai traffici e dai commerci umani, la natura si può presentare in tutta la sua bellezza, “qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza, ed è l’odore dei limoni…”.

“Noi poveri”, viene sottolineato in opposizione a quei “poeti laureati” che cantano le grandi passioni, la guerra della cose, i poeti che si fanno vati di una società e di una nazione. Qui, invece, dove tutto è tranquillo, dove sembra di poter tornare all’interno della naturalità del Creato, anche noi poveri che non ci riconosciamo in quello stato di cose e in quella guerra, possiamo godere della nostra parte di ricchezza (tranquillità) simboleggiata dall’odore dei limoni.

“Vedi. In questi silenzi in cui le cose s’abbandonano e sembran vicine a tradire l’ultimo segreto, talora ci si aspetta di scoprire uno sbaglio di Natura il punto morto del mondo, l’anello che non tiene il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità”.  In questi versi, che costituiscono il cuore della poesia, il poeta spiega cosa trova di tanto interessante nei luoghi in cui crescono gli alberi di limoni. Versi che rappresentano una sorta di “rottura” nell’ordine normale delle cose. Elemento estraneo di qualcosa che appare per “caso”, o per miracolo, in mezzo alla confusione ordinaria del mondo. Un luogo privilegiato in cui è possibile cogliere la verità. Verità che viene colta attraverso un filo da disbrogliare, nell’intrecciata matassa delle cose, il bandolo che ci permette di arrivare al dunque. La verità è recepibile solo attraverso la casualità, lo sbaglio di natura. Perché questi orti chiusi, nei quali normalmente non ci si accede, rappresentano qualcosa di estraneo al mondo, un qualche cosa in cui si giunge per caso in grado di illuminare il nostro cammino esistenziale.

Giungere in questi luoghi, godere di queste immagini che ci balzano agli occhi, ci facilita a spingere il nostro sguardo al di là dell’apparenza delle cose. È questo sguardo che liberamente vaga, i nostri sensi resi più attenti, a cogliere qualche cosa del segreto della natura. Siamo all’interno delle corrispondenze baudelairiane. Non c’è niente di preciso. La mente indaga, accorda, disunisce. Si muove liberamente e stabilisce confronti, paralleli, connessioni che altrimenti non sapremmo stabilire. A ciò aiuta il profumo che dilaga, la situazione del giorno che languisce. Questa tranquillità in cui ci si trova immersi e in questi silenzi (in ogni ombra umana che si allontana), pare di cogliere qualche disturbata divinità. Le eventuali apparizioni sembrano segnalare qualcosa di misterioso e miracoloso.

Questi aspetti, di cui normalmente non ci accorgiamo, ci illuminano su qualche significato che potrebbero avere e che di solito non ce ne curiamo. La nostra disposizione è facilitata dal trovarci in questo luogo, che ci permette di intendere i segnali misteriosi della natura in una fusione panteistica che è essenza esistenziale.

(Pubblicato su oraquadra.info) – SOSTIENI IL BLOG

Genio e regolatezza: una vita sul tatami

Faggiano – Taranto. È un pomeriggio uggioso, una domenica dal sapore invernale. Silvia Semeraro ha un gran da fare. Come in tutti gli altri giorni della settimana, di questi tempi in particolare: quando sei di ritorno da Dubai, dove hai vinto due pesanti medaglie ai campionati italiani (argento nella prova individuale del kumite -68 kg, bronzo in quella a squadre), devi concederti ai tifosi e alla stampa, devi presenziare gli eventi a cui sei invitata. Tra un impegno e l’altro, la campionessa orgoglio della Puglia e delle Fiamme Oro, il gruppo sportivo della Polizia di Stato, non si sottrae alle mie domande. Né alla richiesta di un po’ di sana evasione dalla routine quotidiana. Parlarle è avere la sensazione di conoscerla da sempre: ha un sorriso dolce, che non può mascherare, connaturato al carattere affabile, gioviale. Ma quando si passa la lingua sulle labbra pensando alla prossima gara, i suoi occhi prendono a brillare, come il felino che si lecca le ferite, per poi attaccare. Non a caso la chiamano “La belva umana”. La sua immagine simbolo ce l’ha regalata ai Giochi olimpici questa estate quando, colpita alla testa dalla turca Hocaoglu Akyol (la karateka era una maschera di sangue) ha continuato a combattere aggiudicandosi l’incontro del girone eliminatorio. 

Dimentica il tuo mondo, per un attimo, facciamo finta che tu non sia la campionessa di karate super richiesta e impegnata: non hai alcun impegno, nessun onere, nessuna intervista da rilasciare. Come e con chi passeresti queste giornate?

“Come una comune ragazza di 25 anni, vorrei passare le festività con la mia famiglia e con i miei amici: fare cose tipo giocare a carte, guardare film di Natale, per rilassarmi, per godere e rinsaldare quei valori che mi hanno formata. La casa è l’unico posto dove mi sento al sicuro. Mi fa stare bene e mi ricarica”.

Il tuo 2021 è stato straordinario. Ma siccome sei una vincente, in cosa ritieni di dover migliorare?

“Sì, è stato un anno pieno di emozioni e di soddisfazioni. Sono arrivati i risultati, le medaglie, ma anche le batoste: penso al quinto posto alle Olimpiadi di Tokyo e all’oro mancato a Dubai. Resta l’amaro in bocca, non posso negarlo. Comunque io mi sento una donna cambiata. Sul piano caratteriale, e su quello tecnico-tattico, per merito anche del team con cui ho lavorato, perché il lavoro fatto ha dato i frutti sperati. I miei cambiamenti sono stati percepiti anche dalle avversarie. Dalle sconfitte imparo, mi rimbocco le maniche. Così, il mio bagaglio tecnico è migliorato. L’obiettivo è accrescerlo con elementi nuovi, in modo tale da essere imprevedibile, creativa nelle gare. In questo modo posso estrarre quella carta vincente in favore del risultato e dello spettacolo. Posso fare la differenza sul tatami, portare a casa l’incontro, sconfiggere quelle avversarie che mi hanno studiato”.

In pratica, qual è la ricetta giusta adatta a ogni essere umano?

“Avere un atteggiamento positivo, sempre, credere in se stessi e lavorare tanto”.

Torniamo alla Premier League di Mosca, a quell’attesa snervante che ha preceduto la tua rivincita sulla campionessa olimpica in carica, l’egiziana Feryal Abdelaziz. A Silvia Semeraro come piace vincere sul tatami? Lo hai già detto, in parte…

“Beh sicuramente mi piace vincere ai punti. Non per squalifica e infortunio dell’avversario. In ogni caso, io stavo conducendo l’incontro: per come stavo bene, ritengo che non mi avrebbe rimontato. Battere la campionessa olimpica è stato bello. Non era una sfida come tutte le altre”.

(Pubblicato su “Lo Jonio” nr 213)

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Selvaggia Lucarelli, nel suo passato c’è la “droga”

L’amore tossico in Crepacuore

di Rossella MONTEMURRO

“Sapevo che tutto quello che vivevo era ingiusto. E questo è un passaggio fondamentale, che rappresenta una tappa comune in tutte le dipendenze: da un certo momento in poi si conosce la verità. La parte razionale di sé la illumina con chiarezza. Semplicemente, non ci si può opporre alla sua forza contraria. Io sapevo che ero stata vittima di un abbaglio, che non avrebbe mantenuto le promesse da me percepite nella fase dell’idillio, che dovevo scappare da quel vortice di sovrumana sofferenza, ma ero incatenata. Mi sentivo vittima di una specie di sortilegio, di una pratica divinatoria maligna, in cui agivo all’opposto di ciò che mi suggeriva la mente. Tutto ciò mi provocava una frustrazione enorme, ero precipitata in uno stato di regressione infantile in cui senza che il mio bisogno primario (lui) fosse soddisfatto, mi sentivo smarrita. Ero preda di una sindrome abbandonica invalidante e ossessiva.”

La giornalista Selvaggia Lucarelli siamo abituati a vederla sempre brillante, molto decisa, forte, senza peli sulla lingua. Dà l’immagina di una donna tosta, che certo non le manda a dire e che sa difendersi bene in ogni situazione: ecco perché leggere CrepacuoreStoria di una dipendenza affettiva (Rizzoli) significa ribaltare l’dea che si ha di lei, scoprendo dietro quella corazza una fragilità non indifferente che l’ha portata, in passato, tra le braccia di un uomo narcisista e manipolatore. Selvaggia ripercorre con lucidità, senza omettere particolari spiacevoli – è arrivata ad anteporre le esigenze e i diktat del suo ex a quelli di suo figlio che all’epoca aveva tre anni: “Si può confessare a qualcuno di aver avuto più paura di perdere un uomo che di rischiare che il proprio bambino cadesse dalle scale? Ve lo dico io: no” – descrivendo una storia in cui si era del tutto annullata. Il bambino, il lavoro, il futuro non contavano più niente rispetto al dispotismo, alle manie e alle richieste assurde del compagno che si insinuavano ogni giorno in quel rapporto malato. Quattro anni di inferno vissuti accanto a un anaffettivo dall’ego smisurato, che non perdeva occasione per sminuirla e screditarla mettendo a dura prova la sua autostima.

Il loro “nido” è una casa asettica e fredda, la stabilità emotiva di Selvaggia dipende dall’umore – o meglio, dagli sbalzi d’umore repentini e incontrollabili – di un uomo che, pur facendo di tutto per farsi detestare – è questa l’impressione che si ha leggendo Crepacuore – trova sempre in lei accondiscendenza. I rarissimi momenti idilliaci vengono  puntualmente rovinati anche solo da un aggettivo sbagliato. Paradossalmente, lui e le sue manie distruttive sono per Selvaggia come una droga. La ricerca delle dosi, l’euforia quando finalmente si ottengono, l’astinenza… Cadere in basso, subire, avere ripercussioni fisiche e, nonostante tutto, non riuscire a venir fuori da un legame tossico: “Vorrei dire che quel giorno toccai il fondo, ma nelle storie di dipendenze affettive i barili hanno anche un gran numero di doppifondi che si scoprono lentamente.”

Con coraggio, senza fare sconti soprattutto a se stessa, Crepacuore racconta come un incontro tra un uomo che non vede nulla oltre se stesso e una donna che non vede nulla oltre lui può trasformarsi in una devastante dipendenza affettiva. Solo dopo aver compreso cos’era quel vuoto da colmare e perché ha coltivato la speranza distruttiva che qualcuno potesse colmarlo: “Siamo stati, insieme, una profezia feroce che per avverarsi aveva bisogno delle ferite di entrambi”.

Sarebbe bastato spostare lo sguardo, come le aveva suggerito un’esperta di agopuntura, e magari non sarebbero passati quattro anni. Ma, si sa, quando si è dentro a un rapporto e si è troppo coinvolti, è difficilissimo troncarlo.

Selvaggia Lucarelli è giornalista per radio, quotidiani e tv. Il suo podcast Proprio a me per Choramedia sulle dipendenze affettive è stato scaricato da un milione di persone.

Ha un fidanzato che fa il cuoco, un figlio che ama i film horror, un cane cardiopatico e un gatto diabolico.

Nel corso degli anni ho capito che se non si va alla radice del problema, le dipendenze si spostano, trovano nuove forme con cui manifestarsi, nuovi (dis)equilibri.

(Pubblicato su tuttoh24) – SOSTIENI IL BLOG

Meteo estremo, convivere con -60°C: accade in Russia

https://www.youtube.com/watch?v=84Qr9YUoF2c&t=1s

Il freddo della Siberia è noto. Ma negli ultimi giorni si stanno registrando temperature record, capaci di mettere a dura prova la resistenza e la sopravvivenza della popolazione: gelate con -60° C. Si tratta di fenomeni estremi che andrebbero messi in correlazione con il processo del global warming. Strano a dirsi – l’indebolimento del vortice polare fa scendere alle nostre latitudini le correnti di aria gelida.  

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Quella scintilla che travalica il corpo e l’anima: l’altra Miss Italia

Quando qualcuno definisce fortunata la persona che ha “fatto successo”, bisognerebbe richiamarla al principio della realtà, alla prudenza. Perché il successo arriva come forma di compensazione – azione risarcitoria rispetto a drammi postumi o pregressi. Tra quest’ultimi si collocano quelli vissuti da Eleonora Pedron, autrice di “L’ho fatto per te” (Giunti, pp. 160, euro 16,50). Un libro che porta la firma di Lorenzo Laporta: lo scrittore tarantino, nella veste di promotore culturale e scoutman generoso, ha dapprima raccolto la testimonianza della donna, poi curato le varie fasi della creatura venuta alla luce nelle settimane scorse.  

Sono in tanti ad associare la figura di Eleonora Pedron a quella di Miss Italia e al mondo dorato della dello spettacolo e della televisione. In pochi, però, potevano sospettare le due gravi turbolenze che l’hanno segnata profondamente. Un amore sconfinato le ha permesso di rialzarsi e di ritrovare il sorriso tra le labbra. Il suo libro, presentato anche a Taranto, dove è nato (lei stessa lo ha dichiarato), ha il sapore del cambiamento e della rinascita. Dramma e speranza si intrecciano tenendo insieme sfera pubblica e privata. Perché ogni persona ha ferite non rimarginate; ma pure le risorse per lasciarsele curare. L’ho fatto per te. Solo chi ami può riportare la luce nella tua vita è un libro toccante, denso di emozioni, che riporta alle origini, alla dimensione delle relazioni interpersonali e intrafamilari. Quelle che sembrano essersi affievolite negli ultimi anni, già antecedenti alla pandemia nell’epoca del distanziamento sociale e fisico. Per Eleonora Pedron hanno rappresentato la vera e propria ancora di salvataggio. La famiglia si è fatta portatrice di un messaggio universale: la bellezza che va oltre l’avvenenza, riflette quella luce che la miss ha preservato consentendole di essere incoronata donna più bella d’Italia. Nonostante i suoi drammi, le ferite e l’amarezza dell’anima.

Il senso dell’opera, rispetto alla quale l’autrice ha vinto le sue titubanze, sta nella testimonianza. Perché l’ex compagna di Max Biaggi (per amore dei figli, i due si sono riavvicinati) intende essere d’aiuto a chi si ritrova a vivere situazioni analoghe. I dolori da perdita, i traumi, possono ucciderci oppure fortificarci. Lo sappiamo bene. Quello che sfugge alla volontà umana può essere governato dalla resilienza intesa non solo in termini di combattività ma come fedeltà alla identità della persona. Alla natura che non si può stravolgere. Ebbene, Eleonora Pedron (splendida oggi, a 39 anni, più di quando fu eletta Miss Italia), dal momento in cui è stata fagocitata nel mondo dello spettacolo e della vanità, ha continuato ad essere la bambina che trovava refrigerio nella famiglia. Che preferiva la grande allegria delle riunioni domenicali alle attività più mondane. Tracce di una cultura non del tutto passata. Legami che non si possono spezzare: anche quando non ci tengono più per mano, i padri ci camminano dentro, e si fanno sentire.   

(Pubblicato su “Lo Jonio” nr 212)

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“Amore mio aiutami”, quando a vincere è il teatro

Sapere e non sapere. Fingere, per convenienza, tacere o parlare: l’arte della simulazione affonda le sue radici nel palcoscenico del grande Eduardo (si veda ad esempio “Questi fantasmi”) e, prima ancora, nella storia millenaria. Perché le dinamiche della crisi all’interno della coppia sono tangibili da sempre. Debora Caprioglio e Maurizio Micheli hanno avuto il merito di riportare in scena “Amore mio aiutami”, spettacolo ispirato al testo di Sonego, dal quale fu tratto il film di Alberto Sordi. I due attori in tournée hanno raggiunto anche la città dei due mari inaugurando la rassegna I colori del teatro curata da Renato Forte per l’associazione culturale “Angela Casavola”, con la collaborazione del Comune di Taranto. Lo spettacolo è andato in scena nella serata di ieri al teatro comunale Fusco. La storia è nota: la relazione tra Giovanni e Raffaella, legati da dieci anni nel sacro vincolo del matrimonio, va in crisi quando la donna si innamora di un altro uomo; la stessa chiede aiuto proprio al marito confidandogli quel sentimento, facendo leva sulla modernità di chi si vanta di essere persona di larghe vedute, e razionale.

Un’ora e quaranta di spettacolo dal ritmo serrato, quello andato in scena nel giorno prediletto dalla signora Raffaella (mercoledì), incapace di annoiare un solo istante il pubblico che ha riempito numeroso la sala. La prestazione dei due attori è stata impeccabile. Se Maurizio Micheli ha aggiunto ironia al testo (anche un pizzico di tarantinità), la figura di Debora Caprioglio sembrava straordinariamente somigliante a quella di Monica Vitti, partner di Alberto Sordi nella famosa pellicola del 1969, nei toni e nella fisicità. In quella voce ansiosa pastosa lamentosa. Un valore aggiunto è dato dalla sua intramontabile sensualità. Quanto ai contenuti, rispetto alla complessità della vita, alle contraddizioni e alle fragilità del mortale, Amore mio aiutami non offre alcuna chiave. Se non quella dell’ironia che però non si rivela pienamente efficace. Fa poi un certo effetto sentire gli applausi divertiti degli astanti alla fine del primo atto, quando dietro le quinte, in scena, si consuma un’azione drammatica: il marito che picchia la donna nel tentativo di destabilizzarla, di scuoterla, di risolvere “all’antica” quella situazione ingarbugliata. Desta meraviglia nell’epoca in cui qualsiasi forma di violenza, anche solo accennata, viene messa al bando. Quando tutto sembra sospeso in modo irrimediabile, l’ultima parola spetta all’uomo: un atto di autodeterminazione che pone fine alla vicenda rievocata. Nel mezzo c’è la convivenza con il male e coi tormenti di un legame che richiede autenticità. Tra il dire e non dire, condannare o perdonare, andare avanti o mandare tutto all’aria, viene in nostro soccorso proprio il teatro.

(Pubblicato su lojonio.it)

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Per ragazzi fino a 99 anni

C’è un perseverare mai diabolico nella tutela della bellezza che passa dalla cura del creato. Dalla difesa dell’ambiente e di ogni abitante. È un’operazione virtuosa, e pure contagiosa: Mimmo Laghezza l’aveva praticata con “Il formicaio delle Zampe pelose” (Ass. Multimage, 2017) facendosi interprete della volontà di riscatto della comunità ionica rappresentando, con originalità, la bellezza e il dramma di un territorio oppresso dai veleni dell’industria pesante. Adesso lo scrittore e giornalista di Taranto ci riprova attraverso un’opera scritta a quattro mani con Manuela Barbaro. Si intitola “Mariolino va per mare”, pubblicato dalla stessa Multimage nella collana Lisolachecè, ed è un racconto per bambini e per ragazzi, concepito come atto d’amore verso la città dei due mari. Centocinquantanove pagine immerse nei pensieri e nelle immagini della professoressa Barbaro – bellissime illustrazioni. Dentro ci sono gli odori del mare, le fatiche di chi deve lavorare, darsi da fare, le bellezze nascoste della “città vecchia” che chiede perennemente di essere valorizzata; i riti, le tradizioni popolari di una comunità che sa essere generosa e sempre accogliente.

È un pubblico trasversale quello a cui si rivolgono i due autori. Vi rientrano ragazzi “fino a 99 anni”, confida lo stesso Mimmo Laghezza, lasciando intendere che non c’è un’età limite oltre la quale si smette di essere lucidi sognatori, uomini e donne desiderosi di rendere questo mondo sempre più abitabile. Persone capaci di emozionarsi di fronte al miracolo che si rinnova nel quotidiano. Perché la Taranto “sospesa tra una bellezza senza parole e la bruttura dei fumi senza logica” ha in sé, preservate, risorse che attraggono e incantano lo spettatore: al primo posto, naturalmente, spicca il mare, che per il tarantino rappresenta un orizzonte di prosperità e di pace.

Altro cuore pulsante del racconto è la scuola. Che resta, ancora oggi, il luogo della formazione, più che della mera istruzione. Così Mariolino va per mare ha carattere pedagogico e il merito di affrontare tematiche complesse come l’emergenza migranti. A far da sfondo la fede, intesa come sentimento di empatia e di compassione verso i più bisognosi. Mentre l’amore è rappresentato in tutte le sue forme mirabolanti. Ebbene, l’atteggiamento proattivo di chi si apre alla vita, alla natura e alla bellezza, rappresenta la miglior risposta alla contraddizione offerta dalla stessa esistenza. Il protagonista della storia ha soltanto otto anni. Ma anche un bagaglio di esperienze: confrontandosi con la realtà, può crescere bene e in fretta, potendo contare su una grande figura di riferimento: il nonno, che lo fa imbarcare a bordo del suo peschereccio. Il libro rivolto ai più piccoli ricorda al lettore quanto gli stessi possono farsi portatori di valori e ideali sani. Con i loro occhi, con la loro forza energia coraggio, l’umanità può scorgere la bellezza nel dramma riscattando un’esistenza dominata dalla cultura dell’indifferenza e dai nemici della vita spirituale.

(Pubblicato su “Lo Jonio” nr 211)

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L’inutile pressing dei sindaci sull’obbligo della mascherina all’aperto

“Se ci fosse un provvedimento nazionale, come abbiamo spiegato al Governo, sarebbe tanto di guadagnato, perché daremo un segnale unico all’intero Paese”. Così Antonio Decaro ha invocato l’obbligo della mascherina all’aperto. L’obiettivo è ridurre la circolazione del virus, nelle ore in cui i contagi aumentano, unitamente alla preoccupazione per la “Omicron”, per la quale i ministri della Salute del G7 richiedono un’azione urgente – l’allarme è stato comunque ridimensionato dalla scienziata Angelique Coetzee, che parla di sintomi lievi indotti dalla nuova variante. In Italia i sindaci stanno facendo pressing sul Governo perché lo stesso valuti l’opportunità di rendere obbligatorio l’uso della mascherina all’aperto su tutto il territorio nazionale, dal 6 dicembre al 15 gennaio. Lo fa sapere il sindaco di Bari e presidente dell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) guardando ai giorni nei quali le strade cittadine vanno riempiendosi di gente. L’obiettivo, per quel periodo coincidente con le festività natalizie, è aumentare le restrizioni, per chi non ha fatto il vaccino particolarmente. Secondo lo stesso Decaro, usare la mascherina anche all’aperto significa abbattere significativamente (“almeno del 50 per cento”) la possibilità di diffondere il virus.

Premesso che la prudenza non è mai troppa, c’è da interrogarsi sull’utilità della proposta, diventata già realtà in diversi comuni, nei centri storici. Servirebbe veramente? Se c’è qualcosa che abbiamo imparato in questi quasi due anni di convivenza col virus maledetto è che per essere contagiati bisogna essere a contatto stretto e piuttosto prolungato con la persona infetta: al netto della straordinaria contagiosità di questa o di qualsiasi altra variante, appare altamente improbabile che, incrociando in strada una persona positiva al Covid, un individuo (peraltro vaccinato) possa essere contagiato in una frazione di secondo. Altro discorso ovviamente è l’assembramento. Quelle condizioni di stazionamento, nelle quali il Covid può trovare in effetti terreno fertile. Più dell’obbligo generalizzato della mascherina all’aperto, sarebbe opportuno affidarsi al buonsenso. Ovvero cautelarsi anche laddove non interviene la legge. Nel contenimento della circolazione virale, che in Italia resta più bassa rispetto agli altri Paesi Ue, è bene intervenire e investire nei luoghi al chiuso: assicurarsi che il green pass venga controllato ad ogni ingresso, potenziare la rete dei mezzi di trasporto; mettere in sicurezza il mondo della scuola, dove aumentano i focolai, per l’assenza di distanziamento. Magari far rispettare l’obbligo della mascherina nei palazzetti e negli stadi, dove abbondano le strette di mano e gli abbracci. Ma almeno, quando siamo a passeggio su una strada pressoché deserta, ci sia concessa la libertà di respirare l’aria assaporando anche l’odore del freddo senza avere indosso quella museruola tanto odiosa quanto benedetta.

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Mistero e lotta interiore: come sopravvive la magia alla ragione

Non c’è niente di più semplice dell’Amore. Niente di più complicato il tentativo di definire, con linguaggio consono, quel sentimento totalizzante che naviga tra l’ebbrezza e il dannato, tra la sua rappresentazione e la realtà del sogno: Stefania Romito prova a farlo attraverso “Delyrio”, il suo ultimo romanzo, edito da La Bussola – Aracne. L’opera è dedicata a chi ha amato alla follia. Ma anche a chi non ha mai amato, premette la stessa autrice. A chi ha trovato e vissuto, senza toccarlo, il paradiso. Status di straniamento dalla realtà e massima protezione, a cui ogni mortale può pervenire, almeno una volta nella sua vita: frammento di quel legame carnale indissolubile fatto oggetto di ricerca continua. C’è la dea divina e selvaggia Alyssa nel dialogo di Stefania Romito con il lettore. C’è l’amore discreto di un uomo che, nella propria donna, cercava l’antica bellezza, fatta di mistero nella rassicurante quiete più che di provocazione. L’irrazionalità capace di attrarre la persona nel dissidio interiore. Poi l’arrivo della bella Alyssa, che mette tutto in discussione. Perché l’uomo necessita di dolcezza e carnalità per far sì che la magia del sentimento non abbia a finire. Perché ci si possa sentire eternamente vivi. L’uomo a cui dà voce la scrittrice è lacerato dal senso del dovere che si traduce in una responsabilità non univoca: il non dover tradire se stesso, la dimensione del sogno e del desiderio, vale quanto la fedeltà alla sua compagna o sposa. Sospeso tra la beatitudine e la dannazione, alla ricerca di una verità nascosta, ma non ignota, il percorso del mortale può prendere la piega che si vuole. Sebbene sia la stessa esistenza a imprimerne la direzione. Il percorso di SR in questo lavoro è indubbiamente poetico, rileva Pierfranco Bruni nell’introduzione. È un crescendo di versi e di sensazioni, culminanti nelle “pillole di verità” al capitolo 21esimo. Un romanzo d’amore in cui il peccato diventa divino rimescolando ogni senso e ruolo. Nella commistione di linguaggi accomunati dal fine nobile, quel che appare chiaro e non confondibile è la necessità di non toccare il sentimento prestandolo all’uso della ragione: la magia, l’incanto svaniscono, e d’improvviso, quando si fa troppo forte il processo di razionalizzazione.  

Stefania Romito è nata in Svizzera da genitori italiani. Scrittrice e giornalista radiotelevisiva, ha all’attivo diverse pubblicazioni, tra raccolte di poesie, racconti e romanzi. Nel 2010 il suo esordio nella narrativa con “Attraverso gli occhi di Emma” (Alcyone Editore). Responsabile letteraria del Nuovo Rinascimento e del Sindacato libero scrittori italiani, per la Lombardia, ha collaborato con il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Con Il buio dell’anima (Libromania, 2019) si è aggiudicata quest’anno il premio speciale d’Eccellenza Città del Galateo “Antonio De Ferraris 2021” dimostrando peraltro poliedricità nella sua vasta e raffinata produzione.  

(Pubblicato su “Lo Jonio” nr 2010)

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