Arte e scienza in dialogo con l’osservatore

Innamorarsi della Bellezza, riuscire a coglierla, e farsi interprete della gioia, nell’atto della creazione. Trasformare l’esperienza della caducità dell’esistenza: è la mission dell’artista, ricordata da Maristella Trombetta nella prefazione di “Neuroestetica e arti visive. Riflessioni sugli scritti di Kandinsky”, libro della tarantina Barbara Missana. Un libro che chiarisce come tutta l’arte visiva debba obbedire alle leggi del sistema visivo. Si ripercorre la teoria dei pittori astrattisti, particolarmente quella del pittore russo, padre fondatore dell’astrattismo, secondo la nuova prospettiva della Neuroestetica intesa come nuova branca della critica d’arte e dell’estetica. L’obiettivo è assimilare Wassily Kandinsky (1866-1944) a un moderno neuroscienziato. Egli infatti, attraverso la sua produzione (non solo dipinti), ci ha svelato la vera essenza della realtà. Con riferimento agli scritti, possiamo citare Lo spirituale nell’Arte come operazione di rinascita di tutte le diverse espressioni artistiche. Che vanno dalla pittura alla musica, dalla danza al teatro passando per la letteratura. Il fine è risvegliare nell’uomo la capacità di cogliere nelle cose astratte l’elemento spirituale. L’Arte, si sa, è interconnessa alla dimensione della fede, della interiorità. E non c’è niente di più concreto e reale di ciò che non si può toccare. Sempre l’arte diventa strumento essenziale per riconoscere le emozioni umane, attraverso un linguaggio variegato che, rivolto ad un pubblico trasversale (a chiunque abbia curiosità), include anche le forme e i colori. L’arte come fatto scientifico ci aiuta a indagare sulla nostra identità. E se le persone passano, Lei resta, a documentare quella Bellezza resa immortale. Nel libro della professoressa Missana, dove le immagini si mescolano al testo, in oltre duecento pagine, si chiarisce che il fine di ogni opera d’arte è per l’Autore l’influenza esercitata sull’osservatore. Il quale a sua volta è chiamato a conoscersi nelle sue potenzialità migliori. Ecco l’uso corretto della intelligenza emotiva, nel dialogo instaurato tra il creato e la creatura. Nel saggio si dà spazio anche ad Alexander Calder che nelle sue opere fu il primo ad indagare sull’alterazione delle forme.

Storico dell’Arte, specializzata in Grafica e Web Design, Barbara Missana ha conseguito un Master in Neuromarketing presso il Centro universitario internazionale di Milano. È la fondatrice di Ad Astra Design. Si occupa di consulenza digitale, cura l’immagine e la comunicazione di aziende e liberi professionisti, con particolare riguardo verso la psicologia del consumatore. Il libro, pubblicato da Altrimedia, casa editrice di Matera, ha avviato il tour di presentazione proprio dalla Città dei sassi. Neuroestetica e arti visive. Riflessioni sugli scritti di Kandinsky è il primo volume di Visual Studies, la nuova collana di Altrimedia Edizioni, della quale coordinatrice del Comitato scientifico è la stessa Maristella Trombetta, docente di Storia dell’Estetica e di Storia della critica d’arte del Dipartimento di Ricerca e Innovazione dell’Università degli Studi di Bari.

In viaggio tra segreti inconfessabili nei luoghi della Puglia

Il Noir che non ti aspetti. Che affonda le radici nel turbolento passato della nostra storia: è l’ultimo libro di Andrea Laterza. Un romanzo edito da Radici Future. Al centro della storia intitolata “Il passato ha un cuore nero” ci sono le indagini di un commissario di Polizia donna, Giulia Franceschi, che deve indagare sulla morte di un uomo ritrovato nella sua casa di campagna. Teatro della tragedia è la collina pugliese. La prima sospettata è la moglie Doriana, che fugge tentando di riannodare le fila del suo burrascoso passato di estremista nera. I guai della donna si intrecciano all’incontro con il suo amore di gioventù. La coppia ritrovata, protagonista di una fuga che li conduce fino in Patagonia, sarà dilaniata da segreti inconfessabili. Figura risolutiva è quella del pm Riccardo Gerardi, compagno della Franceschi, il quale andrà a dipanare l’immondo groviglio, in un crescendo finale di disvelamenti del torbido intrigo. Fino all’emergere della drammatica e scabrosa verità nascosta. È un genere che senz’altro appassiona, quello scelto da AL per il suo ultimo lavoro, collocato nella collana Radici, laddove quanto è intrigante cattura l’interesse dei lettori di ogni età. Li coinvolge in un viaggio. Li richiama, in questo caso, ai principali luoghi di ambientazione del noir. Ecco che nelle duecentoottantasei pagine c’è spazio per l’immedesimazione attraverso i colpi di scena racchiusi in un intreccio incalzante. Non meno rilevante, la sottotrama fatta di luci e suoni, alle quali può essere associato ogni paesaggio, oltre alla natura umana. La Puglia e i suoi abitanti ne offrono tanti.

Classe 1955, nato a Buenos Aires da genitori pugliesi, Andrea Giorgio Laterza è laureato in Giurisprudenza e in Scienze politiche. Si è specializzato con un Master in gestione aziendale ed è abilitato alla professione di avvocato. Ex ufficiale della Marina mercantile, ha lavorato per il gruppo Olivetti nelle sedi di Ivrea, Pozzuoli, Roma e Bari. Nella veste di scrittore gli è riconosciuto l’impegno culturale e sociale, costante. Ha infatti all’attivo altre pubblicazioni importanti. Con “La collina dei veleni” (Il Grillo Editore 2016) è stato premiato per l’impegno sociale al “XXII Premio internazionale Rosario Livatino – Antonino Saetta – Gaetano Costa” in memoria dei Giudici Eroi caduti nella lotta alle mafie. Il suo ultimo libro ha appena avviato il tour di presentazione, partito dal Castello Angioino di Mola, nei giorni scorsi. All’incontro era presente anche Vito Antonio Loprieno in rappresentanza di Edizioni Radici Future. Vale la pena soffermarsi sulla crescita di questa realtà nel panorama editoriale, attiva da sei anni: factory che produce e diffonde contenuti innovativi differenti, non limitandosi alle presentazioni dei libri, con particolare riguardo verso i temi legati alla cooperazione, all’accessibilità e alla sostenibilità. La cooperativa RFP opera in tutta Italia e ha sede a Bari.

Caro bollette, azienda dona ai suoi dipendenti oltre 1700 euro

Modelli virtuosi. Ce ne sono anche in Italia: tra gli ultimi, si pensi ad esempio all’imprenditore friulano Guido Zabai, titolare della Media digital business srl, che nella busta paga di aprile ha regalato mille euro ai suoi dipendenti. Un gesto di solidarietà e di aiuto concreto verso chi è più provato dal caro bollette. La crisi morde anche in Inghilterra dove, per contrastare l’aumento del costo della vita, i capi di un’azienda di software con sede in York hanno dato a ogni lavoratore un aumento di stipendio di 1500 sterline (equivalenti a 1760,65 euro). Una cifra consistente. Che va incontro alle esigenze delle famiglie alle prese con l’aumento delle bollette, dall’energetica all’acqua, e dai prezzi di benzina e diesel, saliti il mese scorso a livelli record. Al di là dell’emergenza, la politica dell’azienda è questa, fatta di promozioni e aumenti salariali pianificati, oltre al bonus extra.

La vicenda è riportata dal quotidiano britannico Mirror. I protagonisti, che si sono meritati il plauso del personale da loro diretto, sono i co-fondatori di RotaCloud: Joel Beverley, David Brandon e James Lintern. Quest’ultimo ha così motivato il gesto: “Siamo tutti dolorosamente consapevoli dell’aumento del costo della vita, quindi come azienda volevamo aiutare a sostenere parte della pressione. Volevamo che l’aumento fornisse a tutti un po’ di sollievo e rassicurazioni immediate, e speriamo che aiuti a combattere parte dell’incertezza che molti di noi stanno provando in questo momento”. L’incertezza in effetti accomuna non soltanto i cittadini dell’Inghilterra ma l’intero Occidente. E mentre ci addentriamo in tempi di guerra, possiamo constatare che l’umanità sopravvive agli orrori delle devastazioni, ai missili, alle bombe. Come pure i sentimenti di empatia verso chi è in sofferenza. E ci piace quel “dolorosamente”: il datore di lavoro che si comporta come un padre di famiglia, premuroso, onesto; che ha a cuore la felicità dei suoi dipendenti, la dignità della persona. Che comprende razionalmente quanto siamo interconnessi.

Terzo settore, come ripartire dalla crisi pandemica: nasce la Rete delle Culture

Dare una risposta concreta alle esigenze degli enti non lucrativi che operano nel settore culturale e sociale. Accompagnarli in questa lunga fase di transizione, facendo in modo di non disperdere quel patrimonio di esperienze che, in ogni parte del Paese, animano le comunità: è l’obiettivo della neonata Rete delle Culture. A volerla, l’associazione Mecenate 90. L’iniziativa è stata condivisa da numerose realtà, come l’associazione no profit “Le cose che vanno International”, fondata e presieduta da Mirko Marangione. Come chiarito dalla stessa Mecenate 90, la Rete delle Culture guarda al complesso tessuto associativo culturale, alle piccole e medie strutture piuttosto fragili, animate anche da volontari. La crisi pandemica ha messo a dura prova i luoghi e le attività culturali. Particolarmente le piccole organizzazioni non profit collocate nelle aree periferiche delle città, che rischiano di non riuscire a ripartire e ad adeguarsi alle innovazioni introdotte dal Codice del Terzo Settore. La Rdc vuole quindi essere punto di aggregazione e luogo di co-progettazione.

Una ventina le organizzazioni che hanno costituito questa nuova realtà nei giorni scorsi; alla guida c’è il presidente eletto Ledo Prato, segretario generale di Mecenate 90, con l’intenzione di raggiungere le cento adesioni di Enti del Terzo settore, e l’iscrizione al Runts. È un progetto in itinere frutto di un lavoro lungo e compartecipato. La mission si colloca “in una fase difficile di attuazione della riforma del Terzo settore, in assenza di indicazioni chiare circa il regime fiscale da adottare per gli Ets”. Quel che è certo è la perdita di numerose agevolazioni fiscali per quelle associazioni culturali che non si iscrivono al Runts. Registro che rappresenta la principale novità del Codice del Terzo Settore. Per tutti i membri, la Rete si propone di essere punto di riferimento, di rappresentanza, e motore di innovazione in un percorso di crescita.

I FONDATORI – Mecenate 90 e Fondazione Trame, Coop. Itinera, Associazione Ecomuseo Casilino, Associazione Europassione per l’Italia, Consorzio Jobel, Associazione Officine Culturali, Coop. La Paranza, Società nazionale salvamento Odv, Associazione Il Meglio della Puglia, Associazione Ctg Val Musone, Associazione 34° Fuso, Associazione delle Arti, Consorzio di Cooperative Oltre la Rete, Associazione Pietre Vive, Ass. Le Cose che Vanno International, Unione delle Pro Loco d’Italia, Coop. Terra Felix, Associazione Tools for Culture.

Alla riscoperta del mito: l’esilio come potenziamento interiore

Levi e Pavese, due piemontesi esiliati nella Magia del Sud

di Stefania ROMITO

Quando l’esilio può divenire motivo di conoscenza e di trasformazione interiore. Così è stato per due intellettuali uniti da un medesimo destino.

Cesare Pavese e Carlo Levi appartengono a uno stesso contesto culturale, quello della Torino degli anni Trenta. Condividevano le medesime amicizie intellettuali (Leone Ginsburg, Bobbio, Franco  Antonicelli) ed entrambi furono inviati dal regime fascista al confino nel Meridione d’Italia nello stesso periodo. Era l’estate del 1935 quando Pavese giunse a Brancaleone in Calabria, in quegli stessi giorni Carlo Levi approdava in Lucania, a Grassano, al di là di Eboli. Entrambi rimasero confinati per circa un anno (fino alla primavera del 1936) ottenendo la grazia con due anni di anticipo.

Per Levi l’esperienza del confino ha avuto l’effetto di avvicinarlo alla questione meridionale, fino a quel momento osservata con sguardo alienato, stimolandolo a trasformare il suo “Cristo si è fermato a Eboli” in responsabilità sociale nella prospettiva di portare sul tavolo dell’impegno politico una questione che doveva essere concepita “di Stato” e non soltanto limitata a una confinata area geografica.

La conoscenza empirica e approfondita del mondo contadino lucano, una realtà altra in cui a dominare è la luce ancestrale di una magia archetipica che trae il suo nutrimento dal rito delle tradizioni, arricchisce Levi intellettualmente fungendo da stimolo per la sua futura produzione letteraria. Pagine in cui il giornalismo onirico incontra la metafisica della cronaca, in una visione antropologica. Una dimensione che affonda le sue radici nella visione mitica dei valori di una realtà primitiva.

Ma se per Levi il mito si lega alla magia del primitivo vibrante nel popolo contadino (tema oggetto del mio intervento all’Università di Milano), in un discorso affine alla ricerca antropologica di Ernesto De Martino che emerge in “Sud e Magia” , per Pavese la ricerca del mito affonda i suoi tentacoli nella classicità.

Anche in Pavese l’esilio a Brancaleone calabro imprimerà un percorso importante nel suo cammino lirico. Il contatto con la mediterraneità lo avvicinerà al mito. Dirà, infatti, alla sorella Maria scrivendole dal suo esilio: “Qui tutto è greco, anche le donne hanno una cadenza greca quando vanno alla fontana a riempire d’acqua l’anfora che portano sul capo”. Proprio a Brancaleone scriverà il suo Zibaldone che diventerà il “Mestiere di vivere” in cui emerge l’importanza della classicità che diventerà pregnante nei “Dialoghi con Leucò”.

Per Pavese il mito ha radici profonde. Per Levi ha la voce del primitivo e del selvaggio che si intreccia a un discorso antropologico. Come sottolinea Pierfranco Bruni (tra i più illustri studiosi di Cesare Pavese) «Il poeta delle Langhe è uno scrittore al di fuori di qualsiasi questione realista che resta sempre dentro quella dimensione del mito che è testimonianza, espressione. Il Pavese iniziatico che sa che nella morte si può rinvenire una nuova vita. Pavese è oltre la letteratura, è dentro il tragico della filosofia che diventa metafisica dell’anima».

Esilio, quindi, come metafora della solitudine. Quella solitudine che diviene strumento di analisi interiore e potenziamento intellettuale che consente di cogliere le magie che si celano nel mistero di una terra che ha sapore di mito: il nostro Meridione.

(Pubblicato su oraquadra.info)

In piazza per la salute e l’ambiente: l’altra guerra a Taranto

L’imperativo categorico: non rassegnarsi. E quindi, riaccendere i riflettori mediatici sull’ex Ilva di Taranto, calati negli ultimi anni per il susseguirsi di emergenze planetarie – dalla pandemia al conflitto in Ucraina. Ricordarsi che le sofferenze e le morti generate dall’opera umana sono tutte uguali. Inaccettabili. Sono gli obiettivi rintracciabili nella manifestazione che si terrà domenica ventidue maggio, nel capoluogo ionico, in piazza Garibaldi. Lo spunto è stato dato dall’ultima puntata della trasmissione televisiva “Che ci faccio qui”. A lanciare l’iniziativa, il Comitato per la Salute e l’Ambiente a Taranto, che ne sente tutta l’urgenza. “È importante farla adesso che Acciaierie d’Italia ha chiesto il dissequestro degli impianti”, dichiara il professor Alessandro Marescotti, che ha preso parte alla stessa trasmissione condotta da Domenico Iannacone, andata in onda su Rai3.

La manifestazione apartitica “Stop al sacrificio di Taranto” si preannuncia importante. Più di quanto organizzato in passato. E al netto delle posizioni che si possono avere sulla questione colossale, l’esercizio del pensiero critico, della dialettica, appare sempre fondamentale in un Paese democratico. Come pure la conoscenza dello stato dell’arte. A fronte di una minor produzione, se è vero che la più grande acciaieria d’Italia causa meno morti premature, come attestato dall’Organizzazione mondiale della sanità attraverso la Valutazione di impatto sanitario (studio condotto tra il 2010 e il 2015), quali sono i livelli di inquinamento attuali? Quali scenari aspettarsi? L’unica certezza, intanto, è la rappresentazione di Taranto come “zona di sacrificio” scelta per fare gli interessi economici nazionali. L’impegno per tenere insieme le ragioni di lavoro salute ambiente deve continuare. L’attesa della popolazione non può essere interminabile. C’è da riconquistare la dignità che i Governi di questi ultimi anni, in collusione con l’acciaieria, hanno calpestato, sottolinea lo stesso Comitato cittadino – Organizzazione di tutela ambientale.

Mascherine, no alla prudenza: è ora di liberarcene per favorire l’immunizzazione

Entrare in un bar o in un negozio senza avere indosso alcun dispositivo di protezione. È un’emozione, dopo oltre due anni, il recupero della normalità (tardivo rispetto al resto dell’Europa) reso possibile dalle nuove regole anti-Covid entrate in vigore il primo maggio, riguardanti anche l’utilizzo delle mascherine al chiuso. Il senso dell’ordinanza firmata dal ministro della Salute Roberto Speranza è il ritorno progressivo alla normalità. Significa che, laddove non richieste, le mascherine non andrebbero indossate più. La linea della prudenza non regge più. Non si può far cadere l’obbligo e consigliare, o meglio raccomandare (come fa qualcuno), alla popolazione di utilizzarle comunque, secondo una lettura distorta della disposizione. Occorre superare la paura del contagio, anche nelle condizioni più a rischio, ragionare nella logica della immunizzazione, indotta per via naturale o dopo tre dosi di vaccino: è il momento giusto, nelle settimane in cui l’aggressività del virus andrà scemando verosimilmente sino all’approssimarsi dell’autunno. Proteggere i soggetti fragili resta doveroso. Allora sì che questo strumento indispensabile nell’azione di contrasto al virus, nella fase acuta della pandemia, ha ragione di esistere. Per gli altri vale, se mai, questa raccomandazione: imparare ad osare, assumersi qualche ragionato rischio, è la precondizione per vivere.

LA LINEA SPERANZA – Il principio della progressività, il motivo per cui in determinati contesti permane l’obbligo di indossare la mascherina, ha una sua coerenza e validità scientifica, in quanto applicabile in qualsiasi direzione – valeva anche per l’inasprimento delle misure restrittive. Ecco perché il primo maggio non è stato un “Freedom Day”. L’obiettivo del Governo è un’estate libera dalle restrizioni. Il resto (le critiche al saggio ministro della Salute, il dichiararsi vittime di un imbroglio o di una dittatura), viene fatto oggetto di strumentalizzazione, come qualsiasi crisi.

L’arpista salita sul tetto del mondo: Claudia Lamanna

Ad ascoltarla a occhi chiusi, per non lasciarsi distrarre dal suo aspetto, che è incantevole, si viene traghettati in una dimensione altra e nuova. A costo di sconfessarla, con irriverenza non voluta: per lei l’arpa è uno strumento potente e molto pop, tutt’altro che angelico; ma le sensazioni che sa regalare sono di vario tipo, chiarisce meglio in questa intervista. Le immagini, pure. Gli occhi si riaprono nell’ascolto, perché la Bellezza, il talento, richiedono la comprensione con tutti gli organi di senso. Raggiungere Claudia Lamanna è più facile di quel che si possa credere. Le sue dita danzano sulle corde in modo incessante. E più lavorano più non conoscono la fatica, quelle mani, restano delicate, non si appesantiscono. Riannodano il filo della memoria personale e collettiva.

Reduce dal trionfo all’International harp contest, lei è stata celebrata come l’arpista più brava al mondo: che effetto le fa ricevere tanti complimenti?

“È sempre bello ricevere l’affetto da parte di tutti coloro che apprezzano la mia arte. Ciò rappresenta l’appagamento per tutto l’amore e la dedizione che rivolgo alla musica quotidianamente”.

L’arpa intesa come prolungamento del corpo, ovvero dell’anima di chi la suona, quanto riflette della emotività e di ciò che sfugge al nostro controllo?

“Il mio strumento è capace di infondere una vasta gamma di emozioni in chi lo ascolta, che vanno da un piacevole senso di serenità o allegria a una dimensione di profondo turbamento o tristezza, da una sensazione di elegante delicatezza a un effetto di vigorosa potenza… Il mio compito è quello di fungere da tramite nella trasmissione di questa molteplicità di stati d’animo”.

Nella sua intensa attività concertistica, avviata presto per tutto il mondo, quale palco le ha dato maggiori soddisfazioni ed emozioni?

“A caldo direi l’Auditorium di Akko, dove si è svolta la finale del concorso in Israele, sia per il bellissimo repertorio eseguito (il Concerto per Arpa e Orchestra, Op. 74 di Reinhold Glière), sia per il felice epilogo della serata. ovviamente ho tanti altri emozionanti ricordi in molte altre sale, legati soprattutto al calore del pubblico”.

Uscendo dalla austerità del suo nobile mondo, c’è magari un aneddoto, un episodio divertente che ricorda?

“Sfatando un po’ il mito dell’austerità del mio mondo, tra i diversi aneddoti nella mia quotidianità, molti di questi sono connessi alla mia professione. Al momento, me ne viene in mente uno legato alla mia ultima esperienza in Israele, dove un tassista non parlava in inglese e non riusciva a capire la destinazione neanche dopo avergliela mostrata per iscritto, poiché in caratteri latini. Alla fine, dopo un brevissimo momento di smarrimento, ho risolto convertendo la destinazione in alfabeto ebraico tramite Google Translate”.

Che rapporto ha con la sua terra natia, con la Puglia?

“Il mio legame con la Puglia è molto forte, sebbene abbia vissuto per diversi anni all’estero. Mentre ero fuori, tornavo con piacere a ritrovare i luoghi a me cari, ogni qualvolta mi era possibile”.

Quali sono i suoi prossimi impegni?

“Nell’immediato, il mio prossimo impegno è previsto per il 30 aprile, quando suonerò il Concerto per Arpa e Orchestra, Op. 74 di R. Glière con l’Orchestre National de Cannes, diretta dal Maestro Kaspar Zehnder, nell’ambito del Festival Classic’Antibes. A seguire, ci saranno altri concerti in Italia e all’estero”.

(Pubblicato su “L’Adriatico” nr 143)

“The Passion”, il messaggio che passa dalla spettacolarizzazione della violenza

La premessa è che la guerra a cui stiamo assistendo ridimensiona qualsiasi altra violenza. Ovvero il male che ci facciamo con i nostri comportamenti quotidianamente, in conflitti e sopraffazioni: persino l’uccisione di un animale, creatura sacra al pari di ogni essere vivente, a confronto risulta niente. Nelle scorse ore in tv è stato riproposto “The Passion of the Christ” (2004). Un film, quello di Mel Gibson con Jim Caviezel e Monica Bellucci (cast italiano, produzione americana), che si caratterizza per la crudezza, costata polemiche. Che interroga lo spettatore: perché indugiare sul sangue, sul calvario di Gesù verso la crocifissione, perché ricorrere alla spettacolarizzazione della violenza? Ebbene, sempre contestualizzando l’opera ai giorni che stiamo vivendo, alle immagini terrificanti provenienti dall’Ucraina, quelle scene bene rendono la gratuità di chi sceglie la violenza esercitandola in una escalation di orrori sempre più grandi; e ci avvicinano alle sofferenze che un intero popolo sta vivendo. Ad ogni modo, è il finale quello che conta: il credente, destinatario privilegiato della pellicola girata in Italia, tra Cinecittà e Matera, è chiamato a preservare la gioia o meglio la serenità in qualsiasi circostanza. Ad andare oltre il dolore e la sofferenza. È il suo unico dovere. Perché Cristo ha vinto la morte.

Il film, che negli Stati Uniti ha registrato il maggior incasso di tutti i tempi (oltre 370 milioni di dollari), facendo incetta anche di riconoscimenti, acuisce e insieme arresta l’eco dolorosa che si ascolta. L’obiettivo non secondario è reagire emotivamente alle immagini più cruente. Guai ad assuefarci alla guerra, a non indignarci più, a perdere i sentimenti di empatia, pietà verso chi sta soffrendo. The passion è un film da rivedere apprezzando interpretazioni e location – perfetta la città dei Sassi, scelta ben prima che la stessa diventasse capitale europea della Cultura. E al netto della legittimazione del livello di violenza, le critiche negative restano, rispetto ai contenuti, a riferimenti storici opinabili.

L’incontro con la terra e con la creatura: l’umanità che vuole ripartire

Una dichiarazione d’amore per la bellezza. Per la natura incontaminata. Il confronto della stessa con il principio della realtà, con la bruttezza. La riscoperta del sentimento come elemento imprescindibile dell’esistenza. È il libro di Rocco Carella “Vademecum per credere ancora e altri racconti” (Altrimedia Edizioni, pp. 141, euro 16). Un testo che si dimostra inoltre critica al perbenismo, all’ipocrisia di un certo mondo. A far da contraltare, la dimensione del sogno da rispolverare, la libertà, l’estraniamento dalla ordinarietà vissuto come un privilegio. Ci sono piccoli scorci di umanità nella raccolta di racconti. Un’umanità gentile, non ancora sopraffatta dalla frenesia di oggi. Un’umanità che vuole vivere. O meglio, sentirsi viva. Che attraversando il buio della notte, sa scorgere un tenero fiorellino di un delicato violetto. Il rimpianto si mescola alla voglia di ripartenza. L’amore come spinta propulsiva, impegno politico, oltre che elemento primario dell’esistenza, trova spazio nella narrazione. E la location privilegiata delle storie è la Puglia. Terra resiliente, le cui ferite si mescolano a località stupende, rinomate, ed altre nascoste. È la regione in cui è nato e dove risiede lo stesso Autore.

L’opera, che rimanda a una trentina d’anni fa nell’ambientazione, comprende racconti brevi come “Kira”; il file rouge può essere rintracciato nel contatto con la terra e con la bellezza angelicata: incontro che rasserena, che si fa scoperta, quando lo straniero diventa nell’arricchimento elemento di stupore. Nel terzo racconto ci sono appunti e memorie di un ex militante di sinistra. È lo stesso amore declinato nella più alta nobile forma, che può condurre dall’ebbrezza alla disillusione, dall’entusiasmo alla crisi che si riverbera nella dimensione privata, in ogni aspetto della vita. Sotto accusa la Sinistra, capace di tradire, da molti anni, i suoi ideali nel BelPaese. Lo dice direttamente l’Autore nel sottolineare l’incapacità della stessa di leggere i tempi e i cambiamenti. La critica, in particolare, è rivolta all’ex governatore predecessore di Michele Emiliano alla guida della Regione (“Il doppio mandato di Vendola in Puglia ha sancito forse definitivamente la morte della sinistra italiana”), al quale viene imputata la colpa di una politica poco attenta alle classi giovanili. Ma nella visione politica di RC non c’è spazio per la disperazione. Niente è irrecuperabile di quei valori ricercati da chi ha a cuore il bene delle persone: la giustizia, il rispetto, i diritti, l’attenzione alle minoranze e alle voci fuori dal coro.

Classe 1973, Rocco Carella è nato a Bari Carbonara, e ha all’attivo diverse pubblicazioni tra saggistica, opere scientifiche e articoli giornalistici. Il suo Vademecum per credere ancora e altri racconti segue alla pubblicazione di Un’incredibile estate Don’t give up!, edito sempre da Altrimedia nel 2020. Con il racconto “Un ricordo per tornare a vivere” ha ottenuto la menzione d’onore nell’ambito del Premio letterario Vitulivaria (2017).

(Pubblicato su “L’Adriatico” nr 142)

“Ragazzi di vita”, l’evoluzione della prosa narrativa pasoliniana

Omaggio all’autore nel centenario della nascita

di Stefania ROMITO

Verso il 1955 si vanno concentrando molti nodi importanti nella storia della nostra letteratura recente. Che ci sia un’ansia di aggiornamento e di revisione risulta chiaro dal sorgere di molte riviste tra cui “Officina” che, condotta da Pasolini, costituirà la sede più viva di discussione dei rapporti tra politica e cultura. Nel 1956 inizia le pubblicazioni “Il Verri” di Anceschi che terrà a balia i primi vagiti delle neoavanguardie italiane. Del resto, il 1956 rappresenta uno spartiacque dal punto di vista politico e ideologico. L’anno in cui Pasolini pubblica Ragazzi di Vita è un anno-limite, in cui una certa tradizione letteraria  gioca le sue ultime carte e in cui si comincia a intravedere un orizzonte nuovo.

L’abbozzo preparatorio di Ragazzi di vita sarà pubblicato nel volume Alì dagli occhi azzurri, nel quale ci accorgiamo che il modo della prosa pasoliniana si è andato evolvendo. Nei primi brani la figura del narratore è presente come personaggio e tutta la vicenda viene filtrata attraverso i suoi occhi. Avvicinandosi alla stesura del romanzo, lo spazio occupato da Pasolini-personaggio si va restringendo fino a scomparire del tutto nell’ultimo abbozzo intitolato “Dal vero”. Qui i ragazzi di vita vengono lasciati soli dal loro scopritore.

Due capitoli saranno pubblicati in anteprima su “Paragone”. Il primo (Ferrobedò nel ’51) e il quarto (Ragazzi de vita, nel’53). Il caitolo del ’51 presenta diversi cambiamenti: il protagonista non è contrassegnato da un soprannome  (Riccetto) ma da un nome proprio (Lucià). Inoltre la trascrizione del dialetto appare meno accurata.

Il capitolo del ’53 è molto simile alla versione definitiva. Rimane una certa auto-censura che elimina alcune parolacce. Molti critici hanno affermato che non si può parlare di romanzo, ma di una serie di racconti a se stanti. In realtà l’intreccio si presenta assai complicato e non lineare. Si potrà parlare di una struttura ad episodi, i quali vengono collegati con procedimenti romanzeschi

Pasolini provvede al movimento del suo mondo con un artificio che dà il via all’azione e la riporta, al termine dell’episodio, al punto di partenza. È l’altalena tra appropriazione e perdita del denaro, in cui i personaggi vengono sospinti dagli istinti primari (fame, sesso) e in cui esercitano le loro capacità di furbizia e di crudeltà, salvo poi mostrare la loro faccia sprovveduta e ingenua quando il denaro, ricavato dal furto, viene sottratto da altri più agguerriti.

Questo schema si ripete in tutti i capitoli. Per rompere la monotonia, Pasolini inserisce una molla di azione: le tragedie e le sciagure che dall’esterno colpiscono i personaggi. Questi drammi servono a variare la composizione del cast facendo scomparire alcune figure e consentendo l’introduzione di nuovi elementi. La stessa fine della vicenda è realizzata con l’ausilio di una disavventura fatale di cui sarà vittima il piccolo Genesio.

Il centro della città è una specie di terra di conquista e di saccheggio in cui i ragazzi di vita si avventurano alla ricerca del denaro e dell’avventura. I personaggi servono a Pasolini come strumenti per spostare il suo obiettivo su nuovi aspetti di questa contraddittoria collettività. Ciò non toglie che il romanzo possieda un protagonista che funge da filo conduttore, Riccetto, al quale Pasolini conferisce una evoluzione interiore.

Pubblicato su oraquadra.info

Pierpaolo Pasolini sperimentalista tra cultura mediterranea e storia cristiana

Pasolini resta il trasgressore del reale oltre il bene e il male

di Pierfranco BRUNI

Il Pasolini che ho sempre raccontato non è quello del consueto ragazzi di vita che si fanno la loro vita violenta. Non è quello neppure del cinema. È quello che si chiosa nel pensiero tra il male e il bene.Uno scrittore, poeta e pensatore tra i pochi interpreti di un Risorgimento delle lingue contaminate che ha trasfigurato la parola in immaginario. È  questo il Pasolini che maggiormente mi interessa. Morto a Ostia  il 2 novembre del 1975. Era nato il 5 marzo del 1922 a Bologna. Un personaggio interpretato in una complessità di letture che vanno dalla macchina da presa (l’immagine qui diventa un linguaggio vero e proprio) alla poesia come recupero di una eredità antropologica che ha focalizzato la sua attenzione sulla dimensione di paese, di comunità, di etnia.

Il gioco ad incastro tra metafora, poetica e gioco della realtà ha sempre costituito una rappresentazione sul piano di una teatralità la cui recita non si mischia con la finzione. Pasolini è, forse, l’antipirandellismo pur usando la teatralità non crede alla maschera e si serve del linguaggio per scavare nella coscienza dei popoli che sono il portato di una visione etno – antropologica ben definita che vive le sue voci diversificanti proprio nell’Ottocento.

Basti pensare, oltre alle poesie dedicate agli archetipi di Casarsa, al linguaggio del suo raccontare dei “ragazzi di vita” e di “una vita violenta”. Quel loro linguaggio – lingua, al di là delle storie o dei destini stessi di quella generazione, è un portato antropologico dentro una comunità che intrecciava processi culturali e storici. Il suo rivolgersi alla grecità e alla classicità (si pensi a “Medea”) lo conducono direttamente ad una posizione di recupero della centralità della cultura mediterranea. Così come il suo confrontarsi con la storia cristiana.

C’è un Mediterraneo quasi arcaico sia nella ricostruzione dei paesaggi sia nel “vocalizio” dei dialoghi. Cristo, Giovanni, la Maddalena, Maria sono volti e voci di un Mediterraneo disperso tra Occidente ed Oriente. Il suo San Paolo incompiuto è un pezzo di incontro tra Oriente e Roma. Casarsa stessa ha un portato linguistico storico che ha matrici friulane ma dentro la ricerca delle radici c’è un mondo radicato che è quello contadino ma anche definito nell’esaltazione del valore comunitario del paese. Il concetto della lingua come “passione e ideologia” trasportato nel contesto letterario ha ramificazioni tra le maglie di un profondo regionalismo che significa territorializzazione della parola.

Ecco perché Pasolini reinterpreta il dialetto come modello risorgimentale delle lingue unitarie. In fondo il Pasolini che innova il romanticismo risorgimentale nel decadentismo risorgimentale del Pascoli dei primi testi si interpreta proprio attraverso la lingua, la  quale assume la sua particola importanza nello scavo dei territori. Pasolini ha una sua matrice profonda che è quella dell’identità nazionale. Senza la quale non avrebbero senso neppure le stesse parole che il poeta usa nei confronti della generazione che ha costruito il mito del sessantotto.

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La sicilianità che è in noi

Quando vedi Philippe Noiret (1930-2006) pensi al grande cinema. A film capolavoro come Nuovo Cinema Paradiso e Il postino. Magari alla Sicilia, location ideale per le creazioni del Maestro Giuseppe Tornatore. Ma Philippe Noiret amava l’Italia intera. Anche la Puglia, dalla quale transitò per Tre fratelli, film del 1981 diretto da Francesco Rosi. Tra i personaggi più famosi interpretati dal grande attore francese c’è Alfredo, nello stesso NCD, operatore cinematografico mentore di Totò. Ad ispirarlo fu Mimmo Pintacuda, fotografo, padre di Paolo, l’autore di “Jacu” (Fazi, 2022). Un libro capace di tenere insieme romanzo e ricostruzione storica. Con una prosa densa e ipnotica, a parere di Patrizia Violi, “racconta la favola del suo protagonista sullo sfondo di una Sicilia arcaica, governata da passioni e superstizioni. E la misteriosa voce narrante svela la biografia di Jacu facendo la cronaca dei miracoli con approccio distaccato e nostalgico”. Il libro di Paolo Pintacuda nasce dai racconti che gli faceva proprio papà Mimmo. Racconti del nonno il quale, nato settimino alla fine dell’Ottocento, si ritrovò a combattere una guerra da antimilitarista, quando aveva diciassette anni. Rimandando a immagini ahinoi attuali, l’Autore si interroga su cosa sarebbe accaduto a un giovane vissuto in quegli anni senza speranza, se si fosse trovato davanti al terrore di uccidere, possedendo il potere di guarire. Nel romanzo c’è la storia complicata di Giacomo alias Jacu. Che secondo una credenza del paesino in cui è nato, avrebbe posseduto il dono di curare ogni malattia, col solo tocco delle mani. Il prodigio è sì elemento di attrattività ma capace di farsi condanna inoltre. La morbosità, la cattiveria della gente, le maldicenze, possono interagire con la realtà alterandola. La magia si mescola al dramma. E forse è meglio non vedere, alle volte. Perdere la vista per vederci meglio. Come accade ad Alfredo nella finzione cinematografica. O come successo all’attore Totò Cascio, nella vita reale. Jacu si rivolge ad un pubblico trasversale. E sembra poter viaggiare nel tempo, nello spazio. Fa ritorno al Cinema nazionale di Bagheria, dove lo scrittore e sceneggiatore siciliano trascorse momenti di infanzia, insieme al padre. È desolata la terra di cui si parla. Ma tra le sue province reali e immaginarie (l’opera è ambientata a “Scurovalle”, paesino di montagna) persiste anche tanta generosità e speranza. Ne è emblema lo stesso Jacu. Tra i messaggi rintracciabili nella storia c’è la necessità della condivisione, che nelle emergenze è più che mai forte.

Classe 1974, nato a Bagheria, PP ha all’attivo altre pubblicazioni, nel campo della narrativa e della saggistica. Con il suo compaesano Tornatore condivide una certa narrazione, fatta di immagini e premonizioni: sicilianità nella quale si può riconoscere anche il pugliese. Un patrimonio immateriale che segna il dna delle generazioni. Una propensione a preservare la capacità di sognare, che sembra essere smarrita nel cinema di oggi.

(Pubblicato su “L’Adriatico” nr 141)

Putin al funerale, con sospetta valigetta nucleare

L’uomo che ha voluto la guerra in Ucraina si presenta ai funerali del leader ultranazionalista Zhirinovsky. Porta con sé un mazzo di rose rosse; ma il quotidiano britannico “Mirror ” indugia su un altro inquietante particolare: una guardia, ufficiale militare vestito in abiti civili, tiene una sospetta valigetta nucleare. Le persone riunite nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca sono state fatte evacuare mentre Vladimir Putin rendeva omaggio alla bara.

Nessun cambio di passo per Taranto, se non provvediamo al decoro della stazione

Lettera aperta agli organi di informazione:

Vi siete mai occupati del degrado della nostra stazione ferroviaria, come dovrebbe essere quasi obbligatorio da chi da fa servizio pubblico?

Tralasciando le “architettoniche” inferriate di restringimento dei marciapiedi di accesso ai treni, quasi a voler simulare quelli di accesso all’ex Ilva, ma il bar della stazione è stato smantellato e nessuno sa se e come riaprirà.

Esiste una specie di edicola che, bontà sua, vende anche qualche merendina e un caffè a volenterosi viaggiatori. 

Ma tutto questo avviene solo di giorno perché, di sera,  tutto è spento  e chiuso, uffici compresi, e addirittura si sarebbe disposti a mitigare la lagnanza se solo ci fosse almeno un distributore automatico di solo bottigliette di acqua, che naturalmente manca.

Essendo l’area limitrofa priva di qualsiasi altra attività commerciale (siamo nel deserto più assoluto), se doveste partire di sera non avendo provveduto alla provvista del prezioso liquido, non so in quali condizioni arrivereste a destinazione, a meno di chiedere a qualcuno più fortunato, con fare miserabile, ….acqua, acqua.

Già siamo penalizzati ad avere una stazione ferroviaria in deserta periferia per non avere neanche un minimo servizio.

Come facciamo a illuderci del cambio di economia (turismo, scali di crociere, eventi sportivi internazionali e quanto di più) di  questa martoriata città se non provvediamo al minimo decoro di un fiore all’occhiello quale può essere una stazione ferroviaria. Posto quest’ultimo, che va al di là dell’andirivieni di mezzi e persone, ma che è stato celebrato anche da tanti scrittori come luogo dell’anima nel traffico dell’esistenza.

Spero vogliate porre la dovuta attenzione da ribaltare a chi, come si dice, di competenza.

Un cittadino molto indignato

Mancini, il fuoriclasse

The day after. L’Italia è scossa per la mancata qualificazione della nazionale ai Mondiali del Qatar: siamo stati buttati fuori da una squadra modesta, al termine di una partita sterilmente dominata. È chiaro che i drammi sono altri. Non dovremmo nemmeno parlarne, se non nella logica della ripartenza, della rinascita, del ritorno alla normalità. Il processo è inevitabile. Ma comunque la si possa pensare, il commissario tecnico Roberto Mancini, ex fantasista in campo, resta un fuoriclasse. Perché è riuscito in una doppia impresa nella quale non era arrivato nessun altro: dopo il meraviglioso Europeo conquistato la scorsa estate, successo per il quale avremmo meritato di accedere di diritto ai prossimi campionati mondiali, è riuscito a perdere persino con la Macedonia del Nord, in casa. A non farci vedere i Mondiali per la seconda volta consecutiva, dopo il fallimento di Giampiero Ventura, che addirittura potrebbe essere riabilitato. È inutile adesso accanirsi nella ricerca del vero responsabile. È colpa del comandante della nave, dei giocatori scesi in campo, dei due rigori sbagliati da Jorginho contro la Svizzera, delle primedonne che non andrebbero strapagate; degli interessi imprenditoriali che governano il campionato, la seria A, a discapito della nazionale; delle riforme mai attuate. La porta ieri sera era stregata. La fortuna, negli ultimi mesi, ci ha voltato le spalle. Così hanno voluto gli dèi, il fato. Il gruppo di Mancini merita riconoscenza, in ogni caso. Non applausi: il danno è grosso, fatto a un’intera comunità, che ha il dovere di sognare, di distrarsi. Il disastro sportivo della nazionale di calcio riflette la grande illusione vissuta dal Paese nell’ultimo anno: siamo passati dall’euforia post lockdown, dalla ripresa economica del post Covid, alla recrudescenza del virus mai domato, ai guai connessi ad una guerra insensata.

Per la cronaca, la nazionale tornerà in campo martedì prossimo ventinove marzo, contro la Turchia, per una sfida amichevole già programmata. La vita va avanti.

Tracce, storie di successo dagli ambientalisti in giacca e cravatta

Se c’è una cosa che abbiamo ben compreso negli ultimi due anni è che le avversità si affrontano stando insieme. Ovvero facendo squadra, alla ricerca di soluzioni capaci di risolvere il problema, e pure di invertire la rotta. Abbiamo imparato tanto nei terribili anni Venti del nuovo millennio. E se la pandemia non ci ha reso migliori (la guerra in Ucraina ci ha catapultati in una catastrofe ancora peggiore), dobbiamo considerare che il cambiamento è un processo lento: occorre ragionare in termini di anni o di secoli. L’invito a darci da fare nella giusta direzione viene da Alessandro Gassmann in “Io e i Green Heroes”. Un libro che va al di là dell’autobiografia, per configurarsi come diario di impegno civico, ha chiarito lo stesso Autore. Duecentottanta pagine comprensive della postfazione a firma di Annalisa Corrado. Che è la co-ideatrice del progetto #GreenHeroes. La stessa spiega da dove nasce l’opera: dal desiderio di esplorare il mondo dei moltissimi colibrì che, nel nostro Paese, stanno facendo perno sulla sostenibilità ambientale. AG ha ereditato dalla madre l’attitudine a cercare di finire in mezzo alla natura, lì dove non ci si annoia mai, e c’è sempre qualcosa da scoprire. L’enfant sauvage, il “ragazzino selvaggio”: così lo chiamava la bellissima Juliette Mayniel. Il libro è diviso in due parti. Nella seconda si dà spazio alle testimonianze di chi (persone, imprese, associazioni) attraverso l’economia circolare è riuscito a creare aziende floride. Parliamo degli ambientalisti che fanno economia. Tra i modelli virtuosi c’è AzzeroCO2, impegnata in iniziative utili alla promozione della sostenibilità, della responsabilità sociale di impresa, delle fonti rinnovabili. Si tratta di una realtà che dà lavoro ad ingegneri e commerciali e che può vantare un fatturato superiore ai 10 milioni di euro.

Nella prima parte, quella autobiografica, tra i capitoli più interessanti c’è sicuramente quanto rivelato sul rapporto di Alessandro con il padre, il grande Vittorio. Un rapporto di complicità, fortemente fisico negli anni dell’infanzia, fatto di lotta stile greco-romana, di gioco sano: agli occhi del figlio l’attore che fu avviato alla recitazione per volere di sua madre, è stato dapprima compagno di giochi, divinità, mito da abbattere e infine persona come tutte le altre.

Più che una recensione questo articolo vuole essere una spudorata promozione di Io e i Green Heroes (Piemme, pp. 280, euro 17) che andrebbe acquistato a scatola chiusa, dal tarantino in modo particolare: i proventi serviranno alla città, che da Alessandro Gassmann potrà ricevere in donazione 200 alberi. L’iniziativa rientra infatti nella realizzazione dei “frutteti solidali” del Kyoto Club. Un ulteriore motivo di interesse e di orgoglio per la comunità ionica sta nel fatto che il curatore dell’opera è lo scrittore tarantino Lorenzo Laporta. Un intellettuale vivace, perfettamente calato, impegnato nell’opera di riconversione del territorio a 360 gradi.

(Pubblicato su “Lo Jonio” nr 224)

A’ uerr è na brutta cosa

Tuffarsi negli anni della seconda guerra mondiale (1939-45) poteva sembrare operazione anacronistica. E invece non lo è affatto, ahinoi, nell’ultimissimo periodo, per quanto sta succedendo dentro i confini dell’Europa. La guerra in verità non era mai sparita. Michele Tursi si ricollega a quel periodo con riferimento alla città di Taranto, in cui è nato e cresciuto: in “Fringuella” (Altrimedia, pp. 106, 13 euro), il suo nuovo romanzo, racconta le vicende di una famiglia, tratteggia una galleria di personaggi popolari immersi nel dramma. L’ispirazione la dà la mamma dell’Autore. Che veniva chiamata Fringuella, chiarisce il testo alle prime battute, per via dell’aspetto fisico (“ero paffutella, ma saltavo come un uccellino”).

Morte e vita, memoria personale e memoria collettiva si intrecciano nel libro di MT, aperto ad immagini che ben conosce il suo concittadino, perché luoghi simbolo di una terra resiliente ma ferita. E come Fringuella, spirito battagliero, chi la abita può essere guardato oltre la superficie: può sembrare ora apatico e pigro, ora generoso e iperattivo. La storia ruota attorno all’Isola. O quella che comunemente vien detta la città vecchia, ricca di storia, ultramillenaria, di fede e di tradizioni. Anche di credenze popolari e superstizioni. Tra quei vicoli che ancora oggi odorano di cucina, sono nati avvenimenti e aneddoti consegnati alla storia. Il messaggio di fondo è sintetizzabile nell’esclamazione “A’ uerr è na brutta cosa” rintracciabile nelle stesse pagine del romanzo storico. Una sentenza che, ai giorni nostri, sa di monito rispetto a quanto va scongiurato con tutte le forze della ragione, perché foriero di paura e di sofferenze ai danni delle popolazioni. Ma le guerre “sono come le malattie, le puoi tenere sotto controllo, ma non spariscono mai, all’improvviso ritornano e si fanno sentire…” Le guerre come le pandemie. L’imprevisto che, a tradimento, irrompe. E a farne le spese sono soprattutto i più poveri. Quel che non possiamo mai perdere è l’entusiasmo, l’interesse: guardare il mondo con gli stessi occhi di Fringuella. Occhi scintillanti di curiosità. Sguardi che cercano la scoperta attraverso le domande poste. E poi la forza della famiglia è un valore da rinsaldare nei momenti di prova, rifugio, ricchezza da tramandare nel viaggio tra generazioni. L’unione contrapposta ai fanatismi che generano l’orrore della guerra e della distruzione. Perché le bombe, i colpi di piccone o gli ultramoderni missili nucleari che le superpotenze hanno in dotazione, possono demolire gli edifici, ma non gli ideali delle persone perbene.

Grazie a Michele Tursi per averci riportato al confronto con la storia. Il giornalista, ricordiamo, direttore de “la Ringhiera”, ha all’attivo altre pubblicazioni. Opere scritte a quattro mani: “I giorni di Taranto” (Scorpione editrice, 2014) e “Le mani di Persefone” (Besa editore, 2010). Con Fringuella dimostra doti da scrittore puro, nella capacità di descrivere e rielaborare per mezzo della rievocazione in modo limpido e insieme dovizioso.

(Pubblicato su “Lo Jonio” nr 222)

Crisi Ucraina, quando a vincere è la paura

Esporsi ma non troppo. Inneggiare alla pace sui social, alla solidarietà, alla presa di posizione coscienziosa, ma non poter scendere in piazza per il timore di ritorsioni. Inviare sostegno vivo, armi al popolo oppresso, in mezzo agli aiuti umanitari, a farmaci e viveri; ma non uomini, truppe, in modo da scongiurare l’allargamento del conflitto, che dalla dimensione mondiale potrebbe presto assumere i connotati della devastazione atomica: per non comprometterci più di quanto possiamo già esserlo agli occhi di chi non rappresenta l’umanità del fratello russo. Accordarsi con una donna ucraina per un’intervista, ma poi ricevere il suo ripensamento, il dispiaciuto rifiuto, perché i suoi genitori hanno casa in Crimea. E naturalmente hanno paura. Nelle ore scorse sono stati raggiunti da minacce via Facebook. La Crimea è sotto il controllo russo – Putin vuole il riconoscimento del territorio invaso nel 2014. E “le minacce arrivano ovunque”. Quando hai familiari e un figlio piccolo, devi pensare alla sicurezza loro. Usare prudenza e la ragione che è ignota all’invasore. Occorre pregare, allora, in certe occasioni, ovvero non distogliere la mente dal bene comune. Guardare immagini terribili e non fermarsi alla censura. Ma nemmeno permettere all’emotività di avere il predominio. Restare razionali e saldi nella fede, sereni, speranzosi, positivi. Un’impresa quasi impossibile. Perché il sentimento dominante nel mortale, nell’umano, è e non può che essere la paura.

Tutto questo è la guerra in Ucraina. Una follia, peraltro anacronistica. Una partita a scacchi contro la morte, il nemico, nella quale il dito si fa tremolante ad ogni mossa. Dove la prova muscolare non può essere risolutiva. Servirebbe, piuttosto, un cavallo di Troia, l’arguzia. La mossa giusta.

Intanto, per un’azione di supporto rapido e concreto, a beneficio della popolazione ucraina colpita e degli operatori umanitari e socio-sanitari, si può aderire all’iniziativa congiunta “Un aiuto subito” promossa da TgLa7 e dal Corriere della Sera.

La bellezza della prosa contro la tossicità del sistema

di Camillo LANGONE

Dovevo arrivarci prima a capire il valore di Vitaliano Trevisan. Dovevo arrivarci prima che si uccidesse il 7 gennaio scorso. Se non fossi intransigente quasi come lui (sottolineo il quasi) forse ci sarei arrivato nel 2016, quando Works venne pubblicato per la prima volta: ma non leggevo e non leggo libri italiani dal titolo in inglese, non leggevo e non leggo libri di 656 pagine. Ogni regola prevede l’eccezione, purtroppo sei anni fa non ritenni fosse il caso di farne una. Oggi, dopo un suicidio che profuma di stoicismo, l’eccezione l’ho fatta e Works. Edizione ampliata (Einaudi) l’ho letto, sebbene le pagine siano nel frattempo addirittura aumentate a causa di un testo inedito talmente bello che da solo vale il prezzo del grosso volume.

«Dove tutto ebbe inizio», così si intitola il chiamiamolo poscritto, parla non certo a caso di suicidio, con parole prossime a quelle che sul medesimo argomento pronunciò Cioran: «Il bene più prezioso su cui l’essere umano può contare, ciò che davvero lo distingue dall’animale, è la possibilità di sottrarsi al mondo in ogni momento attraverso il suicidio».

Come mai Trevisan (mi raccomando l’accentazione veneta, Trevisàn) odiava così tanto la vita? Alla base c’era senz’altro una notevole misantropia, l’incapacità di sopportare «quel mondo umano che abbiamo imparato molto presto a detestare, e sempre più abbiamo detestato e detestiamo». Un’avversione che il lettore intuisce immediatamente come vera, che non ha nulla della posa. Lo scrittore vicentino è stato avvicinato, per asocialità e fraseggio, a Thomas Bernhard (Franco Cordelli sul Corriere si spinse a parlare di «calco»). Con il suicidio, nella modalità della volontaria overdose di farmaci, finalmente se ne è allontanato. Perché lo scrittore austriaco non è stato altrettanto radicale, non ha tratto così acute conseguenze dal suo pessimismo cronico: è morto anch’egli prematuramente e però di malattia. Altro che calco, di fronte a «Dove tutto ebbe inizio» e all’intero Works l’atteggiato, il finto sembra Bernhard.

Di Trevisan colpisce l’estrema serietà e il pagare di persona l’alto prezzo delle proprie scelte, la prima delle quali fu lo scrivere soltanto libri, escludendo i giornali e le scuole di scrittura dal novero delle possibili fonti di reddito. Scelte da ricco di famiglia, solo che lui di famiglia era povero. La madre, operaia, per recarsi al lavoro «si faceva ogni giorno una ventina di chilometri in bicicletta, dieci ad andare e dieci a tornare, da sola, in piena notte, o la mattina presto, a seconda del turno, estate e inverno, sotto il sole, l’acqua o la neve». Anche il figlio ha fatto l’operaio, oltre che il gelataio e il magazziniere e altri lavori anche migliori e meglio pagati, però subito persi per l’intransigenza e la misantropia di cui sopra. Ce la metteva tutta e più ce la metteva più litigava, con superiori, inferiori e pari grado.

Works è un’autobiografia lavorativa che fa passare la voglia di lavorare o almeno di lavorare nelle aziende, i cui meccanismi gerarchici sono mostrati nella loro devastante tossicità, meccanismi nocivi per i dipendenti, i dirigenti, i titolari, per tutti, siccome il conformismo impedisce l’innovazione oggi più indispensabile che mai. Certe aziende non sembrano esistere per generare profitti, ma per stipendiare caporali, e anche le «cooperative cosiddette sociali» ci fanno una schifosa figura, leggasi a tal proposito il capitolo «Quarto paesaggio?» (Works in teoria si può leggere un capitolo sì e l’altro no, un lavoro sì e l’altro no, anche per risparmiarsi un duecento-trecento pagine: in pratica la scrittura ipnotica ti trascina a leggere tutto).

Non era ricco di famiglia, Trevisan, non aveva un lavoro redditizio e dunque non solo la misantropia, anche l’economia deve aver contribuito a fiaccarlo. Parla molto spesso di soldi nelle tante (ma non troppe, adesso posso dirlo) pagine del libro, e quasi sempre del loro scarseggiare. Soffriva «la condizione di notorietà senza successo, nel senso di successo di vendite» e dunque l’impossibilità di vivere, anche molto spartanamente, di letteratura. L’angoscia aumenta e così mi metto a far di conto: quanto potrò resistere con il poco che ho messo da parte?, e, una volta finite le riserve, quando non sarò più in grado di pagare le bollette, quanto resisterò asserragliato in casa dopo che mi avranno tagliato luce acqua e gas?».

Adesso però non vorrei dare l’idea che Works si riduca a temi pur importanti quali il lavoro e la perdita del lavoro, i soldi e la mancanza dei soldi, e allora devo ricordare il puro piacere estetico garantito dalla prosa fra le più belle degli ultimi decenni, vero ingrediente fondamentale del libro. (Dovevo arrivarci prima, ma comunque ci sono arrivato: Works è un capolavoro).

(Pubblicato su il Giornale.it)