Rai News: studentesse avvelenate in Afghanistan, è la prima volta da quando ci sono i Talebani

Un titolo che colpisce. Quello realizzato dai giornalisti di Rai News mette l’accento sulla “prima volta” di un avvelenamento tra studentesse afghane, da quando in Afghanistan ci sono i Talebani al potere – agosto 2021. Niente da eccepire. È corretto, l’articolo. Ma è come se il nostro sguardo, centrato sulla guerra in Ucraina, dove sono concentrate le nostre risorse e ogni sforzo, fosse incapace di dirigersi altrove. Alle atrocità e violenze ben note.

Gli attacchi in Afghanistan

Almeno 82 ragazze afghane sono state ricoverate in ospedale dopo essere state avvelenate in due scuole nel nord del Paese, nella provincia di Sar-e-Pol. L’attacco arriva dopo l’ultimo colpo talebano inflitto ai diritti fondamentali della persona. Ovvero il divieto all’istruzione, imposto a dicembre scorso. Colpite le donne che non possono frequentare la scuola secondaria e l’università. I responsabili degli attacchi restano sconosciuti, per ora. Il primo è avvenuto sabato scorso: ha colpito 56 studentesse, 4 insegnanti, di cui 3 donne, un padre e due custodi. Il secondo avvelenamento si è verificato il giorno dopo. Colpite altre ragazze, ventisei, e quattro insegnanti. Lo riporta l’agenzia di stampa Efe. Segnatamente, secondo quanto riferito da un funzionario dell’istruzione locale, Mohammad Rahmani, 60 ragazze sono state avvelenate nella scuola Naswan-e-Kabod Aab e altre diciassette nella Naswan-e-Faizabad, nel distretto di Sangcharak.

Un lungo avvelenamento

“Nessuno parla di salute mentale. È come se le persone venissero avvelenate lentamente. Giorno dopo giorno, le giovani e i giovani stanno perdendo la speranza”. È il monito contenuto nel reportage della BBC. Lavoro fresco di pubblicazione, che accende i riflettori sul dramma vissuto in Afghanistan dalla popolazione. Il malessere è così diffuso da generare una vera e propria “pandemia di pensieri suicidi”. Lo confidano le stesse ragazze, costrette a convivere con ansia e depressione. La conferma viene dai medici che parlano di decine di richieste di aiuto ricevute ogni giorno. Due terzi degli adolescenti riportano sintomi di depressione. Lo attesta uno studio condotto nella provincia di Herat dall’Afghanistan Center for Epidemiological Studies, pubblicato a marzo scorso.

Come in Iran

L’attacco succede a un’ondata di avvelenamenti in massa di bambine in Iran. Centinaia gli studenti di oltre novanta scuole che, nei mesi scorsi, sono finiti in ospedale a causa dell’uso di gas velenoso – il 16 marzo scorso se n’è occupato il Parlamento europeo. Tra le province colpite, la capitale Teheran. Le autorità iraniane avevano minimizzato l’accaduto attribuendolo a fughe di monossido di carbonio. Poi però, per impulso della pressione della popolazione, è stata aperta un’indagine sulla “possibilità di atti criminali e premeditati”. La paura ha preso il sopravvento, ad ogni modo. Tanto che molte famiglie hanno deciso di non mandare a scuola le figlie. E diverse scuole di Qom, la città santa sciita, sono state costrette a chiudere.

Il fenomeno delle case a 1 euro in Sicilia conquista gli inglesi

Non solo catapecchie. Le case a 1 euro possono rivelarsi un vero affare, una volta fatte oggetto di ristrutturazione. Lo è stato per Hussai Ramzan. A riportare la storia, il quotidiano britannico The Sun: l’immobile è stato acquistato a Mussomeli, comune del libero consorzio comunale di Caltanissetta in Sicilia. L’inglese 31enne originario del Portogallo e residente a Watford, ha dichiarato l’intenzione di raggiungere la sua casa ogni anno nella stagione estiva. Ma anche in inverno, insieme alla moglie e ai tre figli.

Case a 1 euro

L’obiettivo del progetto nato nel 2019 è quello di arrestare lo spopolamento dell’area e di incoraggiare i turisti stranieri. Un’iniziativa sempre più condivisa. Perché il ripopolamento dei piccoli paesi, e la riqualificazione dei centri storici, rappresentano in tutto il Paese un’importante sfida. Va sottolineato che tanti borghi sono di una bellezza incredibile. Un patrimonio da difendere in ogni modo. Il successo del progetto è attestato dai numeri: oltre 400 le proprietà vendute a Mussomeli, delle quali una cinquantina a cittadini inglesi. La Sicilia poi continua ad essere una terra attrattiva. Dove tra mari e monti, l’ampia offerta in cultura, c’è solo l’imbarazzo della scelta per la località più suggestiva.

Quando l’investimento conviene

“È stato un vero affare, praticamente un intero edificio per me e la mia famiglia”, ha detto l’uomo, fattosi affascinare dall’opzione della vacanza a basso costo. “La casa costava solo 4.500 euro (3.900 sterline), poi ho speso 3mila euro (2.600 sterline) per ristrutturarla e 3.000 euro per l’atto di proprietà e tutte le pratiche, comprese le spese notarili”. Anche i tempi sono stati favorevoli. Hussai Ramzan, infatti, è riuscito a completare la proprietà in soli tre mesi, prima che scoppiasse la pandemia. “Ha aggiunto di essere stato aiutato anche dalle autorità locali che hanno redatto tutto in inglese, dato che lui non parla italiano”, chiarisce lo stesso giornale britannico che riporta la notizia. In totale il fortunato ha speso solo 9mila sterline. Mentre una casa simile costa 500.000 sterline nel Regno Unito. Novanta metri quadrati con due camere da letto. Il caso non è l’unico. Si cita la testimonianza di una donna, Meredith Tabbone, che ha investito in una casa da 1 euro, sempre in Sicilia stimando che presto potrebbe valere quasi mezzo milione di sterline.

Per amore della Costituzione, nostra speranza

Nel suo ultimo saggio, fresco di stampa, l’avvocato Lucarella accende i riflettori sulle ragioni e sulle conseguenze della riforma che ha portato alla riduzione del numero dei parlamentari. Nonché sul processo di indebolimento della democrazia in Italia

La materia è complessa. E affascina il lettore, nei giorni in cui si discute di presidenzialismo e premierato per le riforme istituzionali, della possibilità di mettere mano alla Costituzione non intoccabile, e di come farlo perché i benefici siano superiori ai rischi paventati. In “DemOligarchisc” (la Bussola, pp. 176, 18 euro) Angelo Lucarella riporta l’attenzione sulla già avvenuta riduzione del numero dei parlamentari. Ovvero sulle ragioni e sulle conseguenze della riforma che venne approvata dal Parlamento e dagli elettori. La scelta di Angelo Lucarella è giusta, scrive Luciano Violante nella prefazione. L’obiettivo è dimostrare che il taglio non è stata la conseguenza di una strategia riformatrice, bensì di una ideologia demolitrice, progressiva, nata col governo Renzi nel 2014. Più in generale si guarda al processo di indebolimento della nostra democrazia. Segnatamente alla concentrazione del potere politico nelle mani di una ristretta oligarchia parlamentare, per effetto combinato della riduzione del numero dei parlamentari e della legge elettorale. Al netto della denuncia, in forza della stessa, DemOligarchisc vuole essere un atto d’amore e di fiducia verso la politica, per la Carta costituzionale al centro dell’interesse dell’Autore di Martina Franca. Proprio alla Costituzione viene affidata la speranza di mantenere saldo il Paese nel periodo complicato che attraversiamo. Mentre il perdurare del clima di sfiducia o rabbia verso la politica, favorito da una informazione non adeguata, dalle paure in allegato, rappresenta l’antefatto di quanto analizzato in questo saggio. Un’opera che conferma l’acuta sensibilità di Angelo Lucarella per i problemi costituzionali. E pure la bravura, tanto che l’avvocato si è guadagnato l’attenzione del Presidente emerito della Camera dei Deputati, Luciano Violante. Il quale peraltro, in un recente articolo pubblicato su la Repubblica, ha evidenziato tutti i limiti del presidenzialismo, e la necessità di intervenire sulla Costituzione in modo da formare una “democrazia decidente”. DemOligarchisc offre spunti di riflessione attraverso un linguaggio immediato. La ricca bibliografia attesta la qualità del lavoro di ricerca effettuato.

Avvocato esperto di contenzioso tributario, docente presso l’Università di Napoli “Federico II”, Angelo Lucarella ha all’attivo diverse pubblicazioni: tra le ultime, Metamorfosi politica, intervento contenuto nel libro di Salvatore Di Bartolo e Draghi vademecum, pubblicati lo scorso anno. La vis polemica di chi scrive anche articoli per giornali è corroborata proprio dall’amore per la Costituzione della Repubblica italiana. Che non va tradita ma recuperata. Ovvero studiata, affinché i suoi valori possano ispirare una vera azione riformatrice orientata al progresso e al benessere generale.

(Pubblicato su L’Adriatico n. 194)

Remco Evenepoel fuori dal Giro: c’è della logica dentro questa follia

Un’assurdità. L’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato la fine dell’emergenza Covid: significa che possiamo ridimensionare il virus, conviverci, andare persino in ospedale senza indossare la mascherina. Al Giro d’Italia invece si fanno ancora i tamponi. E se risulti positivo, puoi essere estromesso dalla corsa, anche se hai vinto la tappa e la maglia rosa. Ovvero anche se stai bene. È quanto successo a Remco Evenepoel, costretto a ritirarsi dalla corsa rosa dopo aver vinto la prova a cronometro di ieri, Savignano sul Rubicone-Cesena. Si tratta di una decisione interna alla squadra del campione del mondo. L’Unione ciclistica internazionale non ha diramato, invece, direttive anti Covid; e nemmeno RCS, la società organizzatrice della grande manifestazione.

Le motivazioni

Sebbene il mondo stia andando in tutt’altra direzione, e già da tempo non si fanno più i tamponi per andare a lavoro, va sottolineato che non sono persone “normali” questi corridori: si sottopongono a sforzi intensi e prolungati, per più giorni consecutivi – tre settimane di corsa. La tutela della loro salute allora va messa al primo posto. Non si conoscono ancora gli effetti a lungo termine del virus, che tre anni fa ci aveva colti di sorpresa; nel breve, è stato riscontrato che lo stesso è responsabile di problematiche respiratorie, e a volte anche cardiache. Le ricadute negative sull’organismo possono condizionare o compromettere l’intera stagione. Il sospetto è che si sia voluto preservare la forma fisica del campione, per farlo correre il Tour de France nelle migliori condizioni.

Il dolore di Remco Evenepoel

“Ho il cuore spezzato, e con questa tristezza devo annunciare che lascio il Giro dopo che un test anti Covid di routine della squadra ha dato sfortunatamente un risultato positivo. La mia esperienza qui è stata davvero speciale, e non vedevo l’ora di competere nelle prossime due settimane”. Così il corridore ha dato notizia di quanto accaduto. Aggiungendo il ringraziamento verso lo staff, e quanti hanno fatto tanti sacrifici per il Giro, dicendosi orgoglioso di lasciare la corsa rosa con due tappe vinte e quattro maglie rosa. “Ringrazia” il nuovo leader della classifica generale. Che è il gallese della Ineos, Geraint Thomas.

Il precedente

Prima del belga, accreditato come il fenomeno del ciclismo di oggi, anche Filippo Ganna aveva dovuto lasciare il Giro d’Italia, perché risultato positivo al Covid. L’italiano però presentava sintomi influenzali. E nella crono dei Trabocchi, alla prima tappa del Giro, aveva tradito le aspettative, non riuscendo ad aggiudicarsi la prova. Altre positività erano stata riscontrate in Giovanni Aleotti del team Bora-Hansgrohe, in Nicola Conci (Alpecin-Deceuninck) e nel francese Clément Russo dell’Arkea-Samsic. Insieme a Remco Evenepoel è andato a casa anche Rigoberto Uran. L’assenza del giovane 23enne della Soudal Quick-Step si farà di certo sentire, in termini di attrattività e di spettacolo che il corridore avrebbe continuato ad offrire, nel ruolo di gran favorito.

Estate 2023, le previsioni: ondate di calore con afa ed eventi estremi

Le carte non promettono niente di buono. Premesso che le previsioni meteo vanno prese con il beneficio del dubbio, sono affidabili solo nel breve termine, a poche ore (e alle volte sbagliano pure a un’ora), quelle stagionali indicano la direzione: ondate di calore, afa ed eventi estremi sono altamente probabili, in continuità con quanto successo nella scorsa stagione. Lo confermano gli esperti de ilMeteo.it

Le temperature

Il trend è in crescita continua. Sono previsti valori superiori alla norma, da 1,5 a 2 gradi in più, sull’Italia e su gran parte dell’Europa. Le previsioni si riferiscono ai mesi di giugno e luglio – meno certezze per la seconda parte dell’estate, ad agosto, ma identiche proiezioni. Sarà l’anticiclone africano il principale responsabile dell’innalzamento delle temperature. Elevati i tassi di umidità, che portano lo stesso caldo ai limiti della sopportazione. Vanno ricordati i record battuti lo scorso anno. I 44 gradi registrati, ad esempio, in Sicilia, o le temperature elevate nel Regno Unito, che non avevano mai raggiunto i quaranta. Altra caratteristica delle ondate di calore è stata la persistenza. E nell’estate 2023 continuerà ad esserlo.

Estate 2023, il rischio di grandinate è concreto

Nel 2022 abbiamo assistito a precipitazioni intense. A chicchi di grandine grossi come palle da tennis, capaci di sfondare i parabrezza delle automobili, e di procurare danni ingenti. Il guaio è che questi fenomeni non si possono prevedere. O meglio, localizzare. È certo che con il caldo aumenta l’energia potenziale in gioco, i contrasti termici: si creano le condizioni per la formazione di celle temporalesche, alte fino a quindici chilometri. Gli effetti del cambiamento climatico afferiscono ad un processo ormai irreversibile. E l’uomo può solo adattarsi, imparare a convivere con questi eventi. Il che significa anche dover lasciare terre abitate da migliaia di anni! Si stima che nei prossimi 50 anni vaste aree, compresa l’Europa centrale, saranno inabitabili per quasi la metà della popolazione mondiale (3,5 miliardi di persone).

Tra agricoltura e filosofia, i pensatori che guardano agli equilibri della natura

Abitare la natura in un magico equilibrio armonico – Questa l’essenza del libro di Maria Cristina  Cantàfora

L’equilibrio della terra”

Recensione di Stefania Romito

L’equilibrio della terra di Maria Cristina Cantàfora, scritto insieme a Marco Rusconi e a Clementina Cantàfora (con Prefazione di Paolo Carnemolla, edito da Agribio Edizioni), è uno splendido compendio delle principali linee guida delineate dai più importanti esperti di agricoltura biologica, Padri fondatori di quella che può essere considerata a tutti gli effetti una “scienza naturale”.

Ad affascinare la lettura è il comprendere come l’agricoltura, protagonista indiscussa di questo prezioso volume, venga vissuta osservata analizzata mediante un approccio filosofico-esistenzialista, tralasciando in parte l’aspetto puramente tecnico, con l’obiettivo di sensibilizzare la coscienza del lettore orientandola verso la visione metafisica di una tematica che si sta imponendo sempre più con urgenza ed emergenza nel sistema economico-sociale della nostra contemporaneità.

Una emergenza dovuta a svariati fattori tra cui il progressivo allontanamento dell’uomo dalla terra, attirato da fonti di reddito più vantaggiose, così come il non rispetto della ciclicità delle stagioni e uno sconsiderato sfruttamento delle risorse naturali. Fonte di questi deleteri comportamenti è la bramosia di denaro che rischia di condurre l’uomo all’autodistruzione.

L’equilibrio della terra pone già dal titolo l’accento su uno degli aspetti imprescindibili di una condotta responsabile e rispettosa di quelle che sono le risorse naturali del nostro pianeta: l’equilibrio in un armonico agire. Ed è proprio a partire da questo concetto, tanto semplice da comprendere quanto complesso da perseguire, che si snodano le concezioni teoriche e pratiche dei personaggi protagonisti di queste pagine. Da Steiner ad Altieri, passando per Mollison e Fukuoka.

Un excursus coinvolgente tra le considerevoli esperienze biografiche e professionali di illustri pensatori che hanno intuito l’importanza di preservare gli equilibri della natura ponendo in essere innovative prospettive. E così, la biodinamica del filosofo viennese Steiner, generata dall’esigenza di penetrare in maniera profonda e totalizzante nel mondo dello spirito, mira a stabilire un legame armonico tra natura ed elemento spirituale, in una fusione panteistica di immanente rilevanza.

Ma se Steiner focalizza l’attenzione sul congiungimento armonico dell’uomo spirituale allo spirituale dell’universo tramite l’antroposofia, il giapponese Fukuokapromuove la “rivoluzione del filo di paglia” generata dal rispetto del meccanismo di autoregolazione che disciplina i cicli legati all’agricoltura e dalla “non azione” da parte dell’uomo: «La natura in sé è completa, basta servirla perché fornisca all’uomo l’indispensabile per il suo sostentamento. È fondamentale stare nel vuoto, nell’essenza delle cose, attribuendo valore alle cose meno rilevanti come un filo di paglia».

Il concetto di armonia, legato al senso di equilibrata convivenza, connota anche il pensiero pioneristico del biologo Mollison, noto come “permacultura”. Un sistema volto alla sussistenza che agisce in sinergia con le altre realtà semistanziali quali l’allevamento di animali, la selezione di colture e l’utilizzo del fuoco controllato per regolare i raccolti, in regime di assoluta autosufficienza. E come sostiene Altieri, altro illustre scienziato ricordato in questo importante testo, è necessario rinvenire una giusta interazione tra agricoltura ed ecologia al fine di preservare l’ambiente, poiché la sicurezza alimentare può essere garantita soltanto nel pieno rispetto della biodiversità.

L’intelligenza umana sta proprio nel riuscire ad assicurare la sicurezza alimentare senza compromettere quegli equilibri naturali che non devono essere intaccati perché, come ci ricordano gli autori: «Quando avremo finito con questo pianeta, non ce ne daranno un altro. Ognuno di noi può iniziare a preservarlo attraverso piccoli gesti di consapevolezza».

Consapevolezza, responsabilità, armonia. Questi i precetti fondanti sui quali si basa l’indagine esplorativa di Maria Cristina Cantàfora, Marco Rusconi e Clementina Cantàfora. Autori di un libro che ci riporta al valore intrinseco della terra mediante la riscoperta di quel senso di naturalità che abita la nostra intima essenza.

Staffetta dell’Umanità, l’Italia che non vuole più inviare armi ma messaggi di pace

Stop alla guerra e all’escalation che conduce a un nuovo conflitto mondiale o nucleare. Ovvero cessate il fuoco, in Ucraina, e avvio di un negoziato: è l’obiettivo della Staffetta dell’Umanità ideata da Michele Santoro. Un’iniziativa utile a far sentire la voce di chi crede nella pace. E quand’anche fosse inutile, perché ai piani alti inascoltata, la manifestazione da realizzare rappresenta una nota di merito, elemento non aggiuntivo ma consustanziale al sistema democratico. Al dibattito che dovrebbe veder confrontarsi tutte le parti in un Paese civile e libero come l’Italia.

Il percorso

Quattromila chilometri e migliaia di persone in strada a camminare. Un serpentone umano che, domenica 7 maggio, alle ore 11.00, collegherà Aosta a Lampedusa, ovvero tutte le regioni italiane in contemporanea. Transetti da 25 km andranno a costituire il tracciato – per partecipare sarà possibile percorrere anche un solo chilometro. Il percorso della staffetta è stato realizzato dall’Associazione Compagnia dei Cammini. La carovana sarà segnata dai colori dell’arcobaleno.

L’appello dei promotori della Staffetta dell’Umanità

I governi continuano a ignorare il desiderio di pace dei popoli e proseguono nella folle corsa ad armi di distruzione sempre più potenti. Mentre milioni di persone sono costrette dalle inondazioni, dalla siccità e dalla fame, a lasciare le loro terre, centinaia di migliaia di euro vengono spesi per aumentare la devastazione dell’ambiente e spargere veleni nell’aria. È quanto si legge nell’appello dei promotori della Staffetta dell’Umanità. Gli stessi chiariscono, tra l’altro, che Putin è sì il responsabile dell’invasione, “ma la Nato, con in testa il Presidente degli Stati Uniti Biden, non sta operando soltanto per aiutare gli aggrediti”. Mentre la missione dell’Occidente che si batte per esportare la democrazia nel mondo viene bollata come una menzogna reiterata. Della quale la stragrande maggioranza dei mezzi d’informazione è responsabile.

Da Massimo Cacciari a Fausto Bertinotti, da Luigi De Magistris a Leoluca Orlando, da Riccardo Scamarcio a Elio Germano, ad Anna Falcone e Moni Ovadia: tanti gli esponenti del mondo politico, culturale o dello spettacolo che hanno firmato l’appello per la pace. Tra questi, naturalmente, il giornalista Michele Santoro. Le diverse sensibilità sono chiamate in causa per sensibilizzare sull’emergenza legata alla guerra in Ucraina e insieme su quella climatica. Due emergenze che sono intrecciate. Perché il massimo dispiegamento di energie e di risorse dovrebbe essere concentrato nell’azione di contrasto al fenomeno che minaccia la sopravvivenza dell’umanità e del creato: il cambiamento climatico, i cui effetti saranno sempre più devastanti – si stima che nei prossimi 50 anni vaste aree, compresa l’Europa centrale, saranno inabitabili per quasi la metà della popolazione mondiale (3,5 miliardi di persone).

Per aderire all’iniziativa del 7 maggio scrivere alla mail staffetta.pace@gmail.com specificando nome e cognome, numero di telefono e località di residenza. Il lettore può cliccare qui per individuare il transetto da percorrere lungo il tracciato.

Yanomami, le sofferenze di un popolo a rischio estinzione

Più che una crisi umanitaria, si tratta di un genocidio. Un popolo che combatte, o meglio si arrende a malattie spesso mortali: in Brasile gli Yanomami vedono minacciata la loro stessa esistenza, che fino agli anni Quaranta del secolo scorso era preservata dal completo isolamento nel quale si trovavano a vivere. La causa va ricercata nelle condizioni disagiate aggravate dall’arrivo dei cercatori d’oro nelle zone abitate da loro. I minatori, infatti, scavando nelle viscere della terra, hanno raccolto acqua che ha attirato zanzare portatrici di malaria. Lo hanno denunciato i membri della comunità locale. Aggiungendo che i fiumi su cui fanno affidamento sono passati dal blu al “colore della Coca-Cola” – colpa del mercurio impiegato per l’estrazione del metallo. Così gli indigeni stanno morendo di fame e di malattie.

La responsabilità politica

Tre mesi fa, il ministro della Giustizia e della Pubblica sicurezza, Flavio Dino (Psb) aveva ordinato l’apertura di un’indagine su presunti reati di genocidio e crimini ambientali nella regione abitata dal popolo degli Yanomami, nello Stato del Roraima. La gravissima crisi sanitaria alimentare ambientale veniva ricondotta in buona parte proprio all’invasione dei minatori e dei cercatori d’oro illegali, dei 20mila “garimpeiros”. Si riconosceva anche che gli stessi sono favoriti dalle iniziative politiche del governo Bolsonaro. Il quale fu colpevole della negligenza dimostrata nei confronti degli Indigeni, e del degrado ambientale alla base dell’emergenza continua.

Le ambizioni di Lula

A parlare di “forti indizi sul crimine di genocidio” è stato lo stesso ministro che ha invitato la polizia federare a indagare sull’ex amministrazione Bolsonaro. Così il giudice della Corte Suprema Luis Roberto Barroso vuole vederci chiaro. Dopo che già l’anno scorso aveva chiesto al governo di espellere i cercatori d’oro. Ad ogni modo, sebbene si parli di genocidio, l’utilizzo di armi è stato escluso. L’emergenza è affrontata da Luiz Inacio Lula da Silva. Almeno nelle intenzioni del presidente del Brasile, che vorrebbe combattere la fame nel Paese: la situazione sembra essere sfuggita di mano, ai danni di questa popolazione.

Le vittime tra gli Yanomami

Almeno 99 i bambini di età inferiore ai 5 anni che hanno perso la vita nel 2022, a causa di “malattie prevenibili”. La denuncia viene da ricercatori incaricati dal Ministero della Salute. Il tasso di mortalità dei più piccoli è superiore di 9 volte alla media nazionale, attesta il reportage condiviso da Survival International. Dal 2018 al 2021 i casi di malaria sono più che raddoppiati, a oltre 20mila. I bimbi uccisi anche dalla malnutrizione sono stati 570 negli ultimi 4 anni. Va ricordato che prima dell’arrivo dei garimpeiros gli Yanomami erano entrati in contatto con il mondo esterno solo grazie ai missionari provenienti anche dai Paesi europei: una presenza benefica ma non risolutiva, rispetto alle sofferenze che si sono poi acuite Già nel 1933 tante donne e bambini finirono vittime degli ospiti più sgraditi.

Covid, l’addio alla mascherina va festeggiato come la fine della pandemia

Una notizia che non deve passare sottotraccia: tra pochi giorni scadranno le ultime restrizioni usate nell’azione di contrasto al virus terribile. Anche negli ospedali si potrà fare a meno della mascherina. Il 30 aprile, infatti, sarà l’ultimo giorno in cui non si potrà accedere alle strutture sanitarie senza indossare sul volto lo strumento protettivo, che nel pieno della pandemia ha salvato tante vite. E successivamente lo ha fatto nell’azione sinergica con il vaccino anti Covid. L’auspicio è di ritardare il più possibile l’arrivo di una nuova inevitabile pandemia, evento che si ripete nella storia.

Abbiamo atteso a lungo la luce in fondo al tunnel. Quando la televisione pullulava di virologi, esperti che studiavano l’andamento della curva epidemiologica, e il principio della gradualità ispirava le azioni del Governo nell’allentamento delle restrizioni. Rischiamo di non vederla adesso, la luce in fondo al tunnel, perché presi da altre preoccupazioni, come il vicolo cieco della guerra in Ucraina. L’addio alla mascherina va festeggiato come la fine della pandemia. O quantomeno il ridimensionamento forte della malattia, ospite che resta sempre sgradito, col quale bisogna convivere: l’Europa sta andando in questa direzione, con l’abbattimento delle ultime restrizioni, cadute già in Germania e in Portogallo, nei giorni scorsi. Il ritorno alla cosiddetta normalità significa potersi guardare in faccia e cercare l’altrui volto.  Cercare e non temere più le folle.

Sappiamo bene che ospedali, studi medici e strutture di riposo per anziani erano gli ambienti più a rischio per la circolazione e la trasmissione del virus. Il pericolo persiste finché l’Organizzazione mondiale della sanità non dichiara la fine della pandemia – potrebbe avvenire nei prossimi mesi. Caduto l’obbligo, l’utilizzo della mascherina sarà opportuno in particolari situazioni: nei reparti di Pneumatologia, o in strutture che assistono pazienti molto fragili, come i malati oncologici. Sui casi specifici potrebbero essere i direttori sanitari a decidere.

La strage degli innocenti, quando gli Alleati bombardarono Alessandria

Per non dimenticare. Per ricordare a noi stessi, in tempi di conflitto ucraino, e di minacce nucleari, che la guerra è sempre un incubo da scacciare: esattamente 78 anni fa, il 5 aprile, a venti giorni dalla fine della seconda guerra mondiale (1939-1945), gli alleati bombardarono la città di Alessandria. Si trattò dell’ultimo bombardamento alleato sull’Italia. Gli angloamericani lo effettuarono nel tentativo di sbarrare la strada ai tedeschi in ritirata. L’evento suscitò sentimenti di indignazione tra la popolazione, oltre a provocare un surplus di sofferenza, quando il conflitto stava per terminare.

Alessandria sotto le bombe

La città, che sembrava poter essere risparmiata dai bombardamenti nella seconda guerra mondiale, finì tra gli obiettivi dell’operazione “Strangle”. Perché il nodo ferroviario di Alessandria risultava essere fondamentale per i rifornimenti della Wehrmacht. Per questo la città fu bombardata nel 1944: dapprima il 30 aprile al quartiere Cristo, attacco che fece 239 vittime e centinaia di feriti e ingenti danni (fu distrutto lo storico teatro municipale e l’antico Palazzo Trotti-Bentivoglio, sede di biblioteche, musei e archivi civici), poi a più riprese fino al mese di settembre, quando risultarono distrutte 360 case (più di 1500 gli edifici danneggiati). A giugno gli ordigni avevano raggiunto i ponti dei fiumi Tanaro e Bormida. Prima di quei bombardamenti si contavano 12 morti. Vittime di un errore del bombardamento britannico che, anziché colpire Torino e Milano, raggiunse cascina Pistona e il sobborgo di Litta Parodi. Fu colpita inoltre una casa colonica a Cascinagrossa presso San Giuliano Piemonte. Le prime bombe caddero il 14 agosto 1940: le vittime furono 14, dei quali 3 bambini e 5 soccorritori.  

Il conflitto che impatta sulla comunità

La città fu segnata dai tragici eventi legati alla seconda guerra mondiale: dai bombardamenti all’occupazione tedesca, dalle persecuzioni degli ebrei alla Resistenza. Tornando alle bombe, l’ordigno sganciato il 5 settembre 1944 sventrò il rifugio antiaereo del rione Cittadella, in via Giordano Bruno, dando la morte a 39 civili. Possiamo immaginare l’impatto di quell’azione su chi credeva di stare al riparo. Di venti vittime non furono trovati neanche i resti.

Il 5 aprile

Le bombe degli aerei angloamericani che caddero quel giorno su Alessandria colpirono la cattedrale. Fecero numerose vittime, tra diversi rioni popolari e nel centro abitato, sebbene l’obiettivo fosse la stazione ferroviaria: 160 civili, 41 dei quali erano bambini (28), suore e insegnanti dell’Istituto Maria Ausiliatrice. Furono colpite alcune chiese, oltre alla cattedrale, l’ospedale infantile “Cesare Arrigo” e l’asilo di via Gagliaudo. Le case rase al suolo furono 45 e oltre 600 i feriti. Un attacco brutale, al punto che il comando provinciale dei partigiani del CLN (Comitato Liberazione Nazionale) inviò una nota di protesta al Comando Alleato in Italia. A distanza di tanti anni, la ferita resta aperta per la città di Alessandria.

“Terra e polvere”, la tenerezza come una trasgressione

Ce lo ricorda anche papa Bergoglio. Il povero Francesco che in queste ore, per qualche giorno almeno, merita in abbondanza i nostri pensieri, le nostre preghiere. La tenerezza è una vera rivoluzione, sia nella dimensione privata che in quella collettiva. Ce n’è tanta in “Terra e polvere”. Un film romantico e drammatico insieme nel quale i due protagonisti, Ma Youtie (interpretato da Wu Renlin) e Cao Guiying (Hai Qing), non si scambiano nemmeno un bacio, ma si prendono reciproca cura. Il loro è un amore con la A maiuscola. Un sentimento capace di mitigare le asprezze delle vite difficilissime che vivono.

Terra e polvere, l’intimità che solo in pochi raggiungono

“In città, prima di uscire insieme, le persone guardano anche ai beni materiali e poi decidono se amarsi o meno. Nei villaggi, le persone sono quasi invisibili e non possiedono nulla, quindi mi piace immaginare che il loro sia un amore puro”. Così il regista Li Ruijun, 38 anni, al suo sesto lungometraggio, fotografa la realtà dell’ambientazione. Siamo a Gaotai nel Gansu cinese. Questo l’obiettivo: “Ho voluto creare un mondo privato ed esclusivo tutto per loro. Quando si lavano a vicenda nel fiume o si sdraiano accanto per chiacchierare… Ecco, quella è l’intimità”. Terra e polvere è anche un film sui cosiddetti ultimi. Ovvero sulle persone che antepongono il silenzio al chiacchiericcio, al frastuono.

La Cina

A far da sfondo alla storia c’è un Paese che sta cambiando in una collisione di sistemi. Una civiltà che appare sospesa tra l’odierna urbanizzazione, non priva di contraddizioni, e il passato contadino, foriero di nostalgia. Per i suoi contenuti, il film, nelle sale italiane da ieri, si preannuncia interessante e di alto spessore: presentato in concorso al 72° Festival di Berlino, è stato insignito del Black Dragon Award e del Silver Mulberry Award al Far East Film Festival di Udine. In Cina è stato accolto con un notevole successo di pubblico. I matrimoni combinati, in una parte del Paese, accadono ancora. Così quello inscenato tra i due protagonisti di Terra e polvere dimostra non solo la casta attrazione ma anche la forza come somma di due solitudini. Povertà sociali emotive affettive capaci di tramutare e arricchirsi per mezzo dell’incontro che si fa legame solido e duraturo.

Iraq, 20 anni fa l’inizio dell’invasione americana e un numero di vittime imprecisato

La guerra è sempre orripilante. Fonte di orrori compiuti dai soldati, nei suoi effetti collaterali, dentro un clima di follia contagiosa, generalizzata. Qualunque matrice abbia, la guerra andrebbe condannata: che sia voluta dalla Federazione russa in Ucraina, dalle dittature, oppure dai democratici Paesi occidentali. Compresa l’invasione americana dell’Iraq, che ha avuto inizio esattamente 20 anni fa, e che ha fatto un numero imprecisato di vittime umane. Le fonti sono discordanti. Qualsiasi cifra appare inaccettabile – da 150mila a 223.000 di morti civili, solo nel periodo compreso tra il 2003 e il 2006. Si parla di un milione di vittime in totale. L’unica certezza sono quelle cifre riferite ai primi tre anni, esito di un vasto studio condotto dal governo iracheno e dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Le cause della guerra in Iraq

L’obiettivo principale della seconda Guerra del Golfo era la deposizione di Saddam Hussein (1937-2006). Il quale, secondo la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti d’America, appoggiava il terrorismo islamista, e provava a dotarsi di armi di distruzione di massa. Tuttavia i timori si rivelarono falsi. Così la minaccia alla sicurezza globale. Dell’arsenale di armi chimiche, infatti, non fu trovata traccia. Altra accusa rivolta all’ex presidente dell’Iraq era la volontà di appropriarsi delle ricchezze petrolifere del Kuwait. In barba a quanti la consideravano un crimine, la guerra fu decisa all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2011 e della caccia ai talebani. L’Italia non prese parte alle operazioni militari ma fornì appoggio politico e logistico alla “operazione speciale”. Il conflitto, durato tanto, si tramutò in una resistenza e guerra di liberazione dalle truppe straniere, invise a molti gruppi armati arabi.

Le conseguenze

L’esito della guerra, avviata dall’allora presidente George W. Bush e conclusasi dopo otto anni (18 dicembre 2011), fu la vittoria statunitense. Ovvero l’abbattimento del regime di Saddam, al quale fece seguito la guerra civile e tribale. Quindi un periodo di forte instabilità. E la situazione adesso si starebbe anche deteriorando. Le conseguenze della guerra riguardano anche il patrimonio culturale: gli americani vengono ritenuti responsabili anche della distruzione dei santuari cristiani. All’impoverimento generale fa da contraltare il “successo” delle armi. Che sono finite, in gran numero, nelle mani della popolazione locale, alimentando conflitti vari e pesanti. Permane il pericolo mine nei territori non bonificati. Il Paese, dopo il ritiro degli americani, è stato spartito tra Al Qaeda e il Califfato. A partire dal 2014 lo Stato islamico dell’Isis prese il sopravvento sulle operazioni di democrazia instaurata. Complessivamente, il prezzo dell’esportazione del modello democratico fu la distruzione di intere città e milioni di rifugiati. Si ricordi la seconda battaglia di Falluja che, per ammissione dello stesso esercito americano, è stato il capitolo più sanguinoso della guerra in Iraq e uno dei più pesanti combattimenti urbani.

La bellezza di un funerale senza lacrime

Quando un uomo di Dio ci lascia, il sentimento dominante è la serenità. Quella di chi ha vissuto nella fede sino all’ultimo istante. Allora, i travagli che non conoscevamo, in Benigno Luigi Papa, hanno trovato la via della pace. E quella personalità mite generosa riservata ha donato proprio la serenità ai fedeli che hanno riempito la Concattedrale per il suo funerale. Il fine studioso e uomo di preghiera, capace di penetrare, insegnare le Sacre Scritture, e soprattutto di viverle – ha ricordato nell’omelia l’arcivescovo di Taranto Filippo Santoro – ha messo la parola di Dio al centro del proprio cammino esistenziale ed esperienza pastorale. Una scelta condivisa dalla fiumana di sacerdoti che hanno preso parte alla stessa funzione in una chiesa affollata. C’era il cardinale, Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei e arcivescovo di Bologna; c’erano religiosi e laici provenienti anche dalla Calabria. E il sottoscritto che ha assistito alla bellezza di un funerale senza lacrime. Così, con sobrietà, la città di Taranto ha dato l’ultimo saluto all’arcivescovo emerito, spirato nella notte del 6 marzo.

Chi era Benigno Luigi Papa

Teologo di grande spessore, veniva dalla provincia di Lecce (Spongano), dove nacque il 25 agosto 1935. Fu ordinato sacerdote dall’arcivescovo di Bari Enrico Nicodemo nel marzo 1961. È stato alla guida della diocesi di Oppido-Mamertina-Palmi, arcivescovo di Taranto, vicepresidente per il Sud Italia della Cei e presidente della commissione episcopale per il clero e la vita consacrata e presidente della commissione episcopale per la famiglia. Quanto al legame con la città dei due mari, come ricorda Silvano Trevisani, subentrando a Salvatore De Giorgi egli fu pastore negli anni difficili di Taranto, quando c’era da contrastare la guerra di mala. Seppe opporsi sollecitando la reazione della comunità. Poi con una questione gigantesca si è dovuto confrontare. Quella ambientale, con la catastrofe che ha tanti corresponsabili. Il coinvolgimento nell’inchiesta “Ambiente svenduto” non lo poteva turbare. La riprova sta proprio nel suo funerale, in ciò che ha lasciato nei fedeli che gli erano affezionati. Nei non credenti che gli riconoscevano la mitezza e lo spessore culturale.

Il Quarto Stato oggi: migranti. Il fallimento della speranza

La tragedia ha occupato le prime pagine dei giornali, in mezzo agli altri accadimenti, gli articoli di fondo delle firme più autorevoli e più attente, l’apertura dei telegiornali. Ma quanto siamo presi dall’ultima strage di migranti? Quella avvenuta a due passi dalla nostre case – 150 metri dalla riva del litorale di “Steccato” di Cutro, a Crotone. Non abbastanza: la risposta che potremmo darci. A mio parere, non per egoismo o indifferenza, ma per la nostra umanità, in senso stretto: le immagini che non vogliamo vedere rappresentano il  fallimento della speranza. Ovvero di ciò che muove il cammino esistenziale. Ci viene in nostro aiuto l’Arte. Ad aprirci gli occhi, a motivare il nostro stesso atteggiamento, facendoci entrare in empatia con lo stato d’animo dei più sventurati è il dipinto di Giovanni Iudice intitolato “Il Quarto Stato oggi: migranti”. L’artista vi rappresenta il doloroso destino degli emigranti africani approdati sulle coste siciliane.

La lezione di Vittorio Sgarbi. Il destino dei migranti

Così il famoso critico d’arte, che in una recente lectio su “Europa e Mediterraneo” ha presentato il dipinto, scrive dello stesso: “Una singolare testimonianza di profondissimo impegno individuale, pur nell’ambito di convincimenti comuni, e meditando all’impegno etico di Antonio Lòpez Garcia, è quella maturata da Giovanni Iudice, pittore in equilibrio fra realismo magico e neorealismo, al quale si deve l’opera più impegnativa dipinta in Sicilia dopo La Vucciria di Renato Guttuso”. “Un’opera corale – chiarisce Vittorio Sgarbi – nella quale si rappresenta il destino degli emigranti dall’Africa sulle coste siciliane tra Lampedusa e Gela. Quella umanità rassegnata, incapace di decidere il proprio destino, rappresenta il fallimento della speranza cento anni prima evocata nel Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo”.

“Il cammino percorso da quel popolo si è interrotto. E il viaggio verso la speranza si è rivelato, per il popolo dei disperati, un viaggio verso la morte o verso il nulla”. Questo il messaggio, che l’Autore “racconta con freddezza, senza apparente coinvolgimento emotivo”. “Per il suo valore simbolico, l’opera è stata esposta nelle sale dell’Assemblea Regionale Siciliana a Palazzo dei Normanni”, ci ricorda Vittorio Sgarbi. La rassegnazione dei migranti è il nostro senso di impotenza rispetto al ripetersi di simili tragedie nel Mar Mediterraneo e al fallimento delle politiche Ue. Sentimento che non proviamo, invece, guardando alla guerra in Ucraina, laddove prevale l’indignazione e la speranza di poter cambiare qualcosa attivamente attraverso l’invio di armi. O nella ricerca di vie della pace, ancora meglio.

Uniti ma diversi: i nuovi cristiani

Se c’è qualcosa che continua ad insegnarci la Chiesa cattolica è a camminare tutti nella stessa direzione. Insieme si cresce, si cade, e ci si rialza, ogni giorno. Si guarda oltre. E ciò che più conta non è non sbagliare, ma sapere dove guardare. Credere nella Resurrezione per mezzo del Risorto. Al centro dell’impervio percorso c’è la Pastorale intesa come esperienza di attiva partecipazione. Ne tratta in Bisbigli pastorali monsignor Paolo Oliva, Vicario Episcopale per il Laicato. La Pastorale è il luogo in cui ognuno realizza la propria vocazione, nel miglior modo, vivendo il suo carisma per la comune edificazione. Ciò avviene attraverso il dialogo. Che per mezzo della interazione tra il parroco e la comunità, trova una variegata modalità di espressione. Il dialogo è alimentato da istanze spirituali pastorali pedagogiche. Lo stesso lettore è invitato a conoscerle attraverso questo volume, la cui prefazione porta la firma dell’arcivescovo metropolita di Taranto, Sua Eccellenza Mons. Filippo Santoro. Bisbigli pastorali sono la testimonianza di questo dialogo che nasce da un’esperienza personale condivisa. Per don Paolo, punto di riferimento dei parrocchiani della Santa Teresa del Bambin Gesù, parroco dal 1986 nel capoluogo ionico, la dimensione comunitaria della fede è elemento imprescindibile da riscoprire in questo particolare momento storico. La comunità dei credenti è chiamata quindi a percorrere insieme la strada della carità e della evangelizzazione. Guardando al tempo inteso come kairos, quello della salvezza, alla quale tende in modo originale ogni persona, l’obiettivo è lanciarsi nella scoperta di una nuova modalità dell’essere cristiani. Che è tutta da esplorare ancora. La Chiesa che dialoga con la contemporaneità non giudica e non condanna. Si adegua ai tempi, senza rinnegare la propria identità, la tradizione. E magari cerca di comprendere le ragioni della regressione culturale e spirituale che sembra attraversare l’umanità.

Uomo di fede e di cultura, con alle spalle anni di insegnamento all’università e nella scuola pubblica,  il sacerdote originario di Martina Franca sa aprirsi ai nuovi mezzi di comunicazione preservando la sua unicità, il proprio stile. In quasi quarantaquattro anni di sacerdozio ha conosciuto ignavi, indifferenti, falsi credenti e falsi atei. Ha baciato le mani di pontefici e santi. Come quella di Giovanni Paolo II, il papa polacco che tanto hanno amato i giovani.

Il suo libro, pubblicato da VivereIn, è uno strumento in più per avere coscienza anche di ciò che la comunità dei cristiani sa produrre di buono. La mission è sempre quella di duemila anni fa. Il rinnovamento della Chiesa, non sostanziale, passa dalla cosiddetta sinodalità. Che significa condivisione e partecipazione. Il modus vivendi et operandi non può, poi, non tener conto delle diversità interne ed esterne alla stessa comunità. Il vero dialogo è quello che rispetta le posizioni differenti e sa trovare punti di incontro.

La sensibilità di Francesca Fagnani e il coraggio di contestare un grande magistrato come Gratteri

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L’intervento della giornalista nella seconda serata del Festival di Sanremo. Così Francesca Fagnani accende i riflettori sulle carceri, emergenza non tenuta nelle giusta considerazione, attraverso le parole dei ragazzi del carcere minorile di Nisida. La sensibilità della conduttrice di “Belve” e il coraggio di contestare un grande magistrato come Gratteri. “Un detenuto non va picchiato perché lo Stato non può applicare le leggi della sopraffazione e della violenza. Se non faremo in modo che chi esce dal carcere sia meglio di come è entrato sarà un fallimento per tutti”

Chi salva un bambino salva il mondo intero

La tragedia e l’umanità. A far da contraltare alle immagini impressionanti provenienti dalla Turchia, dove abbiamo visto interi edifici sgretolarsi, gli effetti del terremoto devastante, ci sono gli esempi più edificanti. Chi salva un bambino salva il mondo intero, vien da pensare, con riferimento agli ultimi stravolgimenti, dagli orrori della guerra in Ucraina alla calamità naturale: tanto è contraddittoria la natura umana che l’individuo è capace di perpetrare orrori e poi di riscattarsi attraverso gli slanci di generosità donati tirando fuori il meglio proprio nelle situazioni emergenziali.

Tra i veri e propri miracoli avvenuti nella zona terremotata, al confine con la Siria, c’è il salvataggio di un bambino di 8 anni. Era stato sotto le macerie per cinquantadue ore. Un tempo irragionevole per pensare di vederlo tratto in salvo. Invece è successo: merito della macchina della solidarietà, che nulla chiede in cambio, delle mani nude che scavano, noncuranti della fatica e del freddo intenso.

I numeri della catastrofe

Sempre più, il bilancio delle vittime si aggrava: sono oltre 11mila i morti accertati. Si teme che possano essere più di 20mila in totale. Oltre 37.000 i feriti. Trecentomila le persone che sono state costrette a lasciare le loro case.

La gestione emergenziale

“Abbiamo mobilitato tutte le nostre risorse. Lo Stato sta facendo il suo lavoro”, ha dichiarato Erdogan, ammettendo però le grandi difficoltà incontrate. “Inizialmente ci sono stati problemi negli aeroporti e sulle strade, ma oggi le cose stanno diventando più facili e domani sarà ancora più facile”. Il mea culpa del presidente turco non può che trovare la comprensione generale. Perché rispetto ad una simile catastrofe nessuno può farsi trovare preparato.

Lo sciame

La terra trema ancora, intanto: poco dopo le ore 14, nella provincia di Malatya, a Dogansehir, è stata registrata una scossa di magnitudo 5,3. Lo comunica l’Autorità turca per la gestione dei disastri e delle emergenze (Afad). Lo sciame sismico potrebbe durare mesi. Ma il rischio “epidemia”, rassicurano gli esperti, è scongiurato. Quelle immagini, in ogni caso, non sono affatto lontane e ci scuotono profondamente. Nel bene e nel male.

Tigray, la guerra dimenticata che ha fatto oltre mezzo milione di vittime

Non solo Ucraina. Tra le guerre in corso nel 2023 (non possiamo considerarla chiusa) c’è quella del Tigray, nel nord Etiopia, che in due anni ha fatto oltre mezzo milione di vittime: l’Unione europea parla di un numero compreso tra i 600.000 e gli 800mila morti civili (donne, uomini, bambini) – tra i 100.000 e i 200mila, i militari deceduti. Gli sfollati sono più di 2 milioni e mezzo.

DUE ANNI DI CONFLITTO- La guerra ha avuto inizio con l’ascesa al potere di Abiy Ahmed Ali. Il primo ministro etiope, attraverso la sua politica, con le riforme e con il rinvio delle elezioni nel periodo della pandemia, ha provocato la reazione del Tigray: il governo regionale ci vede il tentativo di distruggere il sistema federale del Paese. E ha tenuto le proprie elezioni in autonomia. Da verbale, l’escalation si è fatta fisica, portando all’inizio del conflitto: nel novembre del 2020, il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray ha attaccato le basi militari del governo federale.

PULIZIA ETNICA- Amnesty International ha denunciato i gravi abusi commessi ai danni della popolazione civile. Al punto che si può parlare di pulizia etnica. Tra le negazioni dei diritti, c’è la negazione degli aiuti umanitari che non arrivano a destinazione. La popolazione è vittima della fame e della siccità. In un’area dove i cambiamenti climatici hanno reso la sopravvivenza ancora più difficile.

LA GUERRA INVISIBILE- Come tutte le guerre che avvengono in Africa, il conflitto del Tigray non accende i riflettori dei media. Sarà perché le ricadute dello stesso non coinvolgono l’economia europea.

L’ILLUSIONE DELLA TREGUA- Nel novembre 2022, a Pretoria, i rappresentanti del governo centrale e i leader del Tigray People’s Liberation Front (TPLF) hanno firmato un accordo di pace il governo etiope e le forze del Tigray hanno firmato un cessate il fuoco che prevede il disarmo delle milizie e il rispetto dell’integrità territoriale del Paese. Ma si tratta di una fragile tregua. Un accordo che, in sostanza, tiene accesi i rancori tra le opposte etnie. Non a caso, l’International Crisis Group fa rientrare la guerra del Tigray tra le dieci crisi mondiali da guardare con particolare attenzione.

L’Onu denuncia casi di torture su prigionieri russi: la brutalità della guerra in Ucraina

Non ha vincitori né vinti. Buoni e cattivi. Carnefici e vittime. Come in tutti i conflitti: offesa oltraggiosa alla sacralità della vita, la brutalità della guerra in Ucraina rende tutti ciechi, esalta la bestialità, il germe della violenza e della sopraffazione che è dentro la persona. L’Onu denuncia casi di torture su prigionieri russi. Almeno cinquanta, quelli avvenuti nei primi 6 mesi del conflitto. Lo rende noto un Rapporto dell’Ufficio dell’Alto Commisario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR). Come dichiarato da Ravina Shamdasani, la portavoce dell’agenzia, si tratta di torture o varie forme di maltrattamento inflitte dai combattenti ucraini sui prigionieri di guerra russi.

Le prove delle torture

Le violazioni dei diritti umani sono documentate da un video presentato dalla Federazione Russa. Oltre che dalla testimonianza diretta, dalla voce degli stessi prigionieri – per l’attività di monitoraggio, l’accesso ai luoghi di internamento viene consentito. L’autenticità del video è stata verificata dall’Ufficio. I casi di tortura erano stati già denunciati dal commissario per i diritti umani della Repubblica Popolare di Luhansk, Viktoriya Serdyukova, avvenuti tra i trenta militari dell’LNR rilasciati l’8 gennaio. Due di loro erano tornati a casa in gravi condizioni.

C’è poi il racconto di un prigioniero che per due notti sarebbe stato fatto oggetto di abusi dai soldati delle Forze armate ucraine (Afu). E ancora, lo scorso 14 gennaio, la commissaria russa per i diritti umani Tatyana Nikolayevna Moskalkova ha mostrato un filmato con torture su militari russi. Di maltrattamenti parla il medico militare Daniil Pshenychnyy. Il quale, in un’intervista al Tribunale, ha dichiarato che i militari russi catturati dall’esercito ucraino sono stati picchiati e manipolati dai loro parenti.

LA SVOLTA NEL CONFLITTO- L’escalation, intanto, continua: autorizzato l’invio di Leopard dalla Germania e di Abrams dagli Stati Uniti, la risposta di Mosca non si è fatta attendere. Ed è più di una minaccia la volontà espressa di distruggere i carri armati utili al supporto dell’Ucraina.

Mosca plaude al papa e ai negoziati: no all’invio di carri armati in Ucraina

Come si esce dalla guerra e dal rischio di un’escalation costante? Con scelte oculate, la strada dei negoziati va promossa, incentivata, specie dai cristiani: da papa Bergoglio arriva il no all’invio di carri armati in Ucraina. Segnatamente la fornitura di veicoli blindati a Kiev da parte dell’Occidente viene considerata una “strada verso il nulla”. La situazione in Ucraina deve essere risolta, invece, ai tavoli dei negoziati.

È quanto emerge dal colloquio avuto da Leonid Sevastyanov con il Santo Padre: a riferirlo, lo scorso 16 gennaio, lo stesso Presidente dell’Unione mondiale dei Vecchi credenti. Una figura importante, quella dell’interlocutore russo, che rappresenta quanti sono impegnati a lavorare attivamente per la pace. Francesco lo aveva già ringraziato affermando: “Noi, cristiani, dobbiamo essere ambasciatori di pace”. Adesso Leonid Sevastyanov riferisce il pensiero del successore di Benedetto XVI sulla fornitura di armi pesanti: “Il papa dice che questa è una strada che non porta a nulla, e che tutti devono sedersi al tavolo dei negoziati”.

Lo sforzo per i negoziati

Il direttore esecutivo della Fondazione San Gregorio legata al dipartimento delle relazioni esterne del Patriarcato di Mosca ha inoltre affermato che il pontefice ha offerto il Vaticano come piattaforma negoziale. Francesco ha espresso la sua disponibilità ad aiutare a “portare tutti al tavolo dei negoziati, e a trovare un algoritmo comune per risolvere il problema”.

I numeri del conflitto in Ucraina

La catastrofe non si arresta, intanto: sono più di 7mila i morti civili dall’inizio della guerra – 456 i bambini. Il bilancio aggiornato delle vittime è stato dato dall’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr). E si tratta di numeri sottostimati. Come riferisce il quotidiano britannico Guardian, la maggior parte delle vittime è stata causata dall’attacco di armi esplosive con effetti ad ampio raggio, tra cui bombardamenti di artiglieria pesante, sistemi missilistici a lancio multiplo. Ovvero missili e attacchi aerei.