Russia, la qualità della vita migliora: indicatori record nel settore dell’edilizia

I numeri si riferiscono al periodo in cui infuria inarrestata la guerra in Ucraina. E sembrano andare nella direzione contraria alle sanzioni inflitte dall’Occidente, dall’Alleanza Nato e dall’Unione europea, volte ad indebolire l’economia della Russia. Buon per la popolazione, se sul piano dell’edilizia quasi 7 milioni di cittadini miglioreranno, entro la fine dell’anno, le loro condizioni. L’annuncio viene da Vladimir Putin in occasione dell’incontro tenuto il quattordici novembre con il capo del Ministero delle Costruzioni Irek Faizullin.

Edilizia, la crescita della Russia

“Nel 2023 abbiamo migliorato le condizioni abitative di 7 milioni di persone, cioè 3,2 milioni di famiglie. Abbiamo reinsediato quasi 2 milioni di metri quadrati di alloggi di emergenza -1,8 milioni di metri quadrati, pari a 104,4mila persone”. Così Putin nel suo intervento di apertura. “E abbiamo migliorato 7031 spazi pubblici”, ha aggiunto il presidente della Federazione russa. Gli fa eco lo stesso ministro per il quale quest’anno si prevede la messa in funzione di un numero record di 104-105 metri quadrati di abitazioni – già raggiunti gli 83,6 milioni di metri quadrati secondo Putin. Dalla costruzione di edifici al reinsediamento degli alloggi di emergenza, dal programma di riparazione, ripristino e ammodernamento delle infrastrutture al recupero delle strutture presenti nelle nuove regioni: i temi al centro dell’incontro, affrontati dal ministro e dal presidente russo. Mentre si intensificano gli interventi anche sul piano della manutenzione.

Al netto dei numeri, il dato che emerge è la tenuta del Paese. Mentre la guerra, laddove è combattuta (ad oltranza in Ucraina), rivela la propria forza distruttiva del tessuto economico. E non soltanto nel settore dell’edilizia. Anche il primo cittadino di Mosca Sergey Sobyanin aveva già dichiarato che solo nella capitale, dall’inizio del 2023, sono stati costruiti e messi in funzione 10,7 milioni di metri quadrati di immobili, di cui la metà sono abitazioni.

Leggere nel pensiero: si può fare, secondo la Duke University

Una grande opportunità. Così va concepito l’impianto cerebrale testato da un team di neuroscienziati, neurochirurghi ed ingegneri. Segnatamente da quelli della Duke University negli Stati Uniti: lo strumento è in grado di decodificare i segnali provenienti dal cervello ad una velocità superiore di quella offerta dagli strumenti disponibili attualmente. Che sono alquanto ingombranti, oltre ad essere lenti.

Lo studio della Duke University

La nuova tecnologia utilizza un nuovo dispositivo che, grande ovvero piccolo come un francobollo, pezzo flessibile di plastica per uso medico, è dotato di ben 256 microscopici sensori cerebrali. Quattro pazienti lo hanno provato sottoponendosi a test di “ascolto e ripetizione” della Duke University. Il dispositivo ha registrato l’attività della corteccia motoria del linguaggio di ciascun paziente mentre coordinava quasi 100 muscoli che muovono le labbra, la lingua, la mascella e la laringe – i soggetti erano stati invitati a ripetere ad alta voce una serie di parole. I dati sono stati poi inseriti in un algoritmo di apprendimento automatico. L’obiettivo: verificare la precisione con cui lo strumento poteva prevedere il suono prodotto, basandosi esclusivamente sulle registrazioni dell’attività cerebrale.

Ne è emerso che alcune parole avevano un’accuratezza dell’84 per cento nella traduzione corretta. Tuttavia, la precisione diminuiva quando si analizzavano i suoni nel mezzo o alla fine di una parola senza senso, oppure quelli simili come p e b.

A chi serve

Come ha rilevato il professor Gregory Cohan, ci sono molti pazienti che soffrono di disturbi motori come la SLA o la sindrome locked-in, debilitanti al punto da compromettere la capacità di usare la parola. A questi la nuova tecnologia può offrire un valido supporto. È stata già testata su soggetti che dovevano sottoporsi a un intervento chirurgico al cervello, per curare il morbo di Parkinson, o per rimuovere un tumore. E poiché il tempo a disposizione era alquanto limitato in sala operatoria, si è deciso di testarlo entro un quarto d’ora. Dalla teoria alla pratica, alla realtà: l’applicazione del nuovo impianto sembra essere lontana oggi; la velocità ancora lenta, rispetto al linguaggio naturale. Ma è stato fatto un significativo passo in avanti, dichiarano dalla Duke University.

Lizzi Jordan, dalla cecità ai sogni di gloria

Il male che non ti uccide ti fortifica. E Lizzi Jordan ci è andata vicina alla morte, prima di dare alla propria vita una imprevedibile, insperata, svolta. Si è riscoperta atleta lanciata verso traguardi da sogno. Che sono alla portata di una persona dal potenziale enorme, sottolineato dalla sua allenatrice: la campionessa paralimpica Helen Scott. Un potenziale sviluppato rapidamente da chi vuole dare il massimo e fare sempre meglio.

Il dramma di Lizzi Jordan

Una serata come tutte le altre: è il 2017 quando la 19enne studentessa di psicologia alla Royal Holloway, University of London, consuma un pasto al fast food. Fa l’esperienza di una intossicazione alimentare causata da un raro ceppo di batterio E. La conseguenza è il coma, la lotta per la sopravvivenza. Lizzi Jordan si risveglia ma priva della vista. Una botta tremenda.

A confidarlo lei stessa, in una intervista rilasciata a BBC Sport: “Ero molto, molto malata. Ho sofferto di un’insufficienza multipla degli organi e i medici hanno avvertito i miei genitori in diverse occasioni che avrei potuto non farcela”. “Ma grazie all’uso di un farmaco raro e costoso, sono riusciti a farmi uscire dal coma”, continua LJ ricordando quanto sia stato terrificante il risveglio da cieca. Nella sua mente l’interrogativo che chiunque si farebbe senza trovare risposta (“Come farò a vivere la mia vita senza la vista?”). Immaginiamo gli attimi di terrore diventati giorni. Poi la svolta: “Mi sono detta, ho due opzioni: posso starmene seduta a piangermi addosso, oppure posso provare a fare qualcosa della mia vita e magari realizzare qualcosa che non avrei fatto nemmeno se avessi avuto la vista”. Ha scelto la seconda.

La rinascita attraverso lo sport

Un passo alla volta, Lizzi Jordan ha dapprima imparato a camminare, poi ha corso: ha preso parte alla Maratona di Londra nel 2019, raccolto 13mila sterline per l’associazione RNIB. Quindi l’incontro con la bicicletta. Una compagna con la quale non andare a spasso, ma lavorare duramente. Ai test effettuati nel 2020, in una giornata organizzata dal British Cycling per la scoperta di nuovi talenti, ha impressionato positivamente, sebbene prima di diventare cieca avesse a malapena guidato una bicicletta. Si è data all’agonismo conquistando la medaglia d’oro ai Campionati del Mondo 2023 di Glasgow. E pure il bronzo nel tandem kilo, insieme ad Amy Cole, ciclista vedente – l’argento al Campionato mondiale di paraciclismo su pista UCI lo scorso anno. Il suo obiettivo adesso è far parte della squadra di paraciclismo della GB alle Paralimpiadi di Parigi nel 2024. Una sfida che intende vincere, per continuare ad imparare da un’intensa e non comune esistenza. Naturalmente la donna ha già imparato dalle persone alle quali può fare affidamento. Ma vuole rendersi anche autonoma: si è iscritta a un corso di formazione per fare uso di un bastone bianco. “Mi cambierà la vita”, dice, come se non avesse preso coscienza di quanto di straordinario sta già facendo ponendosi come modello virtuoso, punto di riferimento in tutto il mondo.

27 ottobre, il nostro No alla pseudocultura della violenza e dell’odio

Il popolo della pace chiamato a raccolta. Una giornata, quella di venerdì prossimo 27 ottobre, che vuole essere un inno alla Vita attraverso la mobilitazione: in tutta Italia si scende in piazza e ci si riunisce nei luoghi di aggregazione per chiedere la pace laddove la guerra, feroce, inattesa, si è fatta protagonista negli ultimi giorni. Ovvero in Israele e in Palestina. Perché alle guerre, ai fiumi di sangue, che sono una costante nella storia, l’uomo evoluto si ribella.

Le iniziative

In prima linea c’è Amnesty International Italia. Che chiede il rispetto dei diritti umani, la protezione dei civili, e lo stop della violenza in Palestina e Israele. L’iniziativa è condivisa da Aoi (Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale) e da tante altre realtà della società civile. Segnatamente questo è l’appello rivolto alle istituzioni italiane: rimettere al centro dell’azione politica proprio il rispetto dei diritti umani e della vita delle persone. Tra i tanti eventi, appuntamenti pubblici e incontri, va segnalata la lectio magistralis che il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury terrà a Trieste, in occasione del 75esimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. L’intera settimana è caratterizzata dall’attivismo nelle principali città d’Italia. Dai flash mob ai seminari, dalle mostre a tema ai workshop agli stand informativi e proiezioni passando per i momenti conviviali: tutto questo rientra nella campagna #IoMiAttivo

27 ottobre di digiuno e preghiera

Un pacifista come papa Bergoglio non può che sostenere la grande mobilitazione. Infatti, per lo stesso 27 ottobre, è prevista una giornata di digiuno e preghiera: le armi del credente. La ricorrenza è l’anniversario dell’Incontro interreligioso di Assisi del 1986. Il momento di raccoglimento si terrà a San Pietro alle ore 18.00. E potrà coinvolgere “fratelli e sorelle di varie confessioni cristiane, appartenenti ad altre religioni, e quanti hanno a cuore la causa della pace”. Ovvero coloro che non accettano il sacrificio di vittime innocenti.

Tacciano le armi

L’invito, il monito, del pontefice è ad ascoltare il grido di pace dei poveri, della gente. Dei bambini particolarmente. Perché la guerra non risolve alcun problema, denuncia Francesco: semina solo distruzione e morte. I riflettori dei media si sono spostati dall’Ucraina al Medio Oriente. La condanna va estesa a tutti i conflitti che sconquassano il mondo, per scongiurare anche l’allargamento di quei fronti bellici già aperti. Il pensiero va alla martoriata Ucraina, sempre. Al rischio che i conflitti diventino guerre di logoramento. Perché per arrestarli, in sostanza, non si fa niente. La priorità intanto è evitare la catastrofe umanitaria a Gaza. La stessa Amnesty International denuncia e documenta gli attacchi illegali compiuti dalle forze israeliane che hanno causato, tra i civili, massicce perdite: chiunque compia simili azioni, l’aggressore come l’aggredito, va messo sotto processo per crimini di guerra. Il numero di morti e feriti tra i bambini è sconcertante. Si contano almeno 2.360 vittime negli ultimi 18 giorni, denuncia l’Unicef attraverso il direttore regionale per il Medio Oriente e il Nord Africa Adele Khodr.

Giochi mondiali dell’Amicizia 2024, l’ultima trovata di Putin

Lo abbiamo visto proporsi persino come mediatore nel conflitto in Medio Oriente tra Israele e Hamas chiedendo il cessate il fuoco, la fine delle ostilità. Come se solo lui fosse titolato a far la guerra, in corso contro l’Ucraina. Adesso Vladimir Putin punta anche sullo sport per riabilitarsi a livello internazionale. Ma in totale autonomia, senza alcuna richiesta di approvazione da parte delle federazioni internazionali, ha firmato il decreto per lo svolgimento di una competizione che si terrà il prossimo anno. Significativo che l’abbia denominata Giochi mondiali dell’Amicizia. A voler intendere lo sport come strumento di riconciliazione tra nazioni e popoli.

Giochi mondiali dell’Amicizia

Le competizioni “World Friendship Games” si terranno a Mosca e a Ekaterinburg nel prossimo mese di settembre. Nascono per garantire il libero accesso degli atleti e delle organizzazioni sportive russe alle attività sportive internazionali, lo sviluppo di nuove forme di cooperazione sportiva internazionale. Lo si chiarisce nel documento varato. I Giochi mondiali dell’Amicizia dovrebbero tenersi ogni quattro anni. Secondo il format delle Olimpiadi, che si terranno a Parigi nel 2024, e che vedranno l’esclusione della Russia verosimilmente, a causa dell’invasione dell’Ucraina bollata come un’infamia. La competizione russa, la cui prima edizione partirà il mese dopo, comprenderà 30 sport, dei quali 20 olimpici. E  chiamerà a raccolta circa 10mila atleti – potrebbero essere inserite altre 14 discipline sportive. Ad annunciarlo è stato lo stesso Putin a margine del forum internazionale “La Russia è una potenza sportiva” tenutosi a Perm. Ricordiamo che il presidente della Federazione russa è uno sportivo, praticante delle arti marziali: mal deve digerire l’isolamento subito anche in questo ambito. È dal 2022, infatti, che vige il divieto di organizzare in Russia competizioni internazionali. Decisione che non tutti i Paesi condividono.

L’altro mondo

Putin si è rivolto alla sua popolazione dichiarando che uno degli obiettivi del Paese in ambito sportivo è quello di attirare il 70 per cento dei russi verso lo sport entro il 2030. Ha inoltre evidenziato i segni di degenerazione che lo sport internazionale, “molto commercializzato e politicizzato” sta mostrando: per contrastarli egli promuove la creazione di nuove leghe e associazioni che “mineranno il sistema di monopolio stabilito dall’ufficialità internazionale”. Putin, insomma, sa che i rapporti con l’Occidente sono irrimediabilmente compromessi, almeno nel medio termine; e cerca di correre ai ripari inventandosi altro. Ai Giochi mondiali dell’Amicizia i Paesi cosiddetti ostili non potranno di certo prendere parte. Gareggeranno invece gli atleti delle Nazioni membri dell’Alleanza politica: Brasile, India, Cina e Sudafrica, insieme alla Russia. Ma anche Pakistan e gli ex Stati sovietici dell’Asia centrale, Kazakhstan, Kirghizistan, Tajikistan e Uzbekistan. L’auspicio è che entro quella data nuove inimicizie non vengano a nascere precarizzando ulteriormente gli equilibri mondiali.

Terremoto Afghanistan, l’emergenza ignorata dalla comunità internazionale

“La devastazione è totale. Ci sono villaggi completamente distrutti, perché le case, fatte di fango e paglia, sono crollate completamente a causa del terremoto; quando si passa di lì, si può vedere che molti dei morti sono sepolti con le pietre”. A tratteggiare questo quadro inquietante è Thamindri de Silva. Il quale, direttore generale dell’Ong World Vision in Afghanistan, prova a spostare l’attenzione su quanto sta accadendo in un Paese scosso da una nuova emergenza comunitaria: il terremoto, o meglio l’ondata sismica, di magnitudo compresa tra 5.5. e 6.3, verificatasi sabato scorso 7 ottobre.

L’assistenza che manca

La catastrofe ci riporta al terribile post terremoto che ha colpito la Turchia e la Siria, lo scorso febbraio, facendo circa 60mila vittime. Allora, però, c’era l’ausilio della tecnologia utilizzata in quell’area, e il supporto dei tanti Paesi che inviarono squadre di emergenza. A denunciarlo, sulle pagine del quotidiano spagnolo El Pais, il responsabile delle comunicazioni dell’Unicef in Afghanistan, Daniel Timme. Il quale aggiunge che tutto è molto più improvvisato. E che c’è il sostegno di due Paesi soltanto: l’Iran e la Turchia. Gli aiuti alla popolazione arrivano dalle Ong locali e internazionali. Che devono fronteggiare la scarsa assistenza internazionale. Come ha dichiarato lo stesso de Silva, l’Afghanistan ha ricevuto soltanto il 20 per cento degli aiuti internazionali di cui necessitava prima del terremoto; e il timore è che quanto sta accadendo nel resto del mondo, soprattutto il conflitto di Gaza, mettano in ombra il nuovo disastro verificatosi nel Paese, e le emergenze umanitarie che lo stesso ha generato.

Terremoto in Afghanistan, la terra trema ancora

Nelle scorse ore, intanto, una nuova forte scossa di magnitudo 6,3 ha colpito la parte occidentale del Paese. Segnatamente l’area limitrofa alla città di Herat, vicino all’epicentro del terremoto di sabato scorso. Le vittime sono circa 2.400 in totale. Donne e bambini, in particolare. Altrettanti i feriti, secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero della Sanità pubblica afghano – a oltre 72 ore dalla catastrofe, diminuiscono sempre più le probabilità di ritrovare persone in vita. Lo riportano anche i Talebani, che da oltre due anni hanno ripreso il potere in Afghanistan. Gli stessi hanno incontrato le Ong per coordinare l’assistenza umanitaria. A tal fine, per aiutare la popolazione locale, alle donne viene concesso di lavorare di più. Temporaneamente, sia chiaro: l’emergenza lì, nella terra abbandonata nel 2021 dagli americani, è vissuta in tutti gli altri giorni dell’anno, in termini di mortificazioni e di violazione dei diritti umani.

Addio al fumo: le nuove generazioni sono più intelligenti e virtuose

Fumare nuoce gravemente alla salute. È risaputo quanto riporta proprio il pacchetto di sigarette nel monito rivolto al consumatore: un paradosso destinato ad avere fine, l’acquisto di ciò che si trova in tabaccheria. Almeno nel nord  Europa. Si pensi alla Nuova Zelanda che, seguita a ruota dal Regno Unito, è il primo Paese al mondo ad introdurre leggi volte a impedire alle nuove generazioni di darsi al vizio del fumo.

I numeri in fumo

In Nuova Zelanda è stato raggiunto un minimo storico: attualmente soltanto l’8 per cento della popolazione fuma. Numeri incoraggianti anche nel Regno Unito. A fumare, infatti, è circa il 12,9% degli adulti. Tuttavia va sottolineato che il fenomeno del vaping non è in crisi. Anzi, i fumatori di sigarette elettroniche aumentano. Tra gli adulti britannici la percentuale si attesta sull’8,7%.

Un tabù per i minori

Il primo ministro del Regno Unito Rishi Sunak ha dichiarato che i bambini sotto i 14 anni non potranno mai acquistare legalmente sigarette nel corso della loro vita. Lo ha detto intervenendo alla conferenza del Partito Conservatore del 2023 a Manchester. Con questa motivazione: “Dobbiamo affrontare la più grande causa interamente prevenibile di malattia, disabilità e morte. E questo è il fumo, e il nostro Paese”. Così diventerà illegale vendere tabacco a chiunque sia nato dopo il 2008. Per tutti gli altri, per i fumatori più incalliti, sarà raccomandato il passaggio alle sigarette elettroniche. Che pure provocano dipendenza da nicotina e numerosi problemi alle vie respiratorie. Il premier, infatti, ha preannunciato di voler mettere al bando i vapes con confezioni e aromi pensati per attirare i giovani.

Step by step

Per liberarci delle sigarette, una volta per tutte, il primo passo è l’innalzamento dell’età legale. Già fatto: per fumare oggi bisogna essere maggiorenni, prima del 2006 il fumatore poteva avere 16 anni. Si potrebbe alzare l’età legale ad almeno 22 anni. Perché al di sopra di quell’età, come conclude un recente studio giapponese presentato al congresso della Società europea di cardiologia (Esc), è meno facile acquisire la dipendenza dal fumo. E liberarsene meno difficile. Per aiutare il governo a raggiungere questo obiettivo, l’All-party parliamentary group (Appg) ha definito dodici passi. Alleati preziosi insieme alla proposta di legge che potrebbe portare alla svolta storica. A fare del Regno Unito, entro il 2040, il primo Paese “libero dal fumo”. Un modello virtuoso da emulare tra gli Stati membri dell’Unione europea.

Per non dimenticare: i danni del fumo

Ogni anno il fumo uccide più di 8 milioni di persone. Segnatamente 7 milioni di fumatori attivi, e circa 1,2 milioni di soggetti esposti al fumo passivo – fonte Oms. Per tanti la sigaretta rappresenta una compagna amica. Qualcuno azzarda persino dei benefici, sui livelli di attenzione, in abbinamento al consumo di caffeina. Nessuno nega il fascino che la sigaretta ha esercitato per decenni, particolarmente attorno alla figura maschile (la puzza mal si concilia con la bellezza e con la grazia nella donna), ma in un mondo minacciato da nuove e gravi crisi, non possiamo più permetterci alcun atto di autolesionismo.

Segnali di disgelo attraverso l’abbigliamento: OVS apre a Mosca

La guerra infuria in Ucraina. E l’escalation continua, stando alle ultime dichiarazioni di Vladimir Putin, c’è poco da stare tranquilli: il presidente della Federazione russa ha minacciato l’utilizzo di nuove armi chimiche, in produzione. Una notizia interessante che potrebbe prestarsi ad una lettura positiva è invece il ritorno di OVS nel mercato russo.

L’annuncio è stato dato da Natalia Kermedchieva: “Aviapark, Evropeisky, Oceania e Salaris sono già stati aperti. Columbus e TsDM sono in arrivo; all’inizio il marchio ha sviluppato solo la categoria dei bambini, poi ha aggiunto quella degli uomini e delle donne”. “Scommetto che il marchio si svilupperà a un ritmo moderato, cioè aprirà prima 3-7 negozi a Mosca e a San Pietroburgo. Poi si valuterà l’aspetto economico”, ha aggiunto la responsabile dei nuovi marchi presso l’Unione dei centri commerciali (STC)

Il numero non trova conferma. Ma, secondo quanto riferiscono alcune fonti, il gruppo leader in Italia nel mercato dell’abbigliamento OVS avrebbe intenzione di aprire più di cinquanta negozi. Si stima un investimento di oltre 200 milioni di rubli. L’investimento fa il paio con quello preannunciato da Decathlon: l’azienda francese specializzata in articoli sportivi a accessori per lo sport prevede di aprire in Russia il prossimo quindici novembre con il nuovo nome AllDoSport. Un avvio con pochi prodotti inizialmente. Chi ha già ripreso la collaborazione con il Paese in guerra contro l’Occidente è il marchio americano Tommy Hilfiger, che ha aperto il suo primo negozio nel centro commerciale Aviapark di Mosca.

A partire dal febbraio 2022, quando è cominciata la guerra in Ucraina, alcune aziende avevano sospeso le attività o abbandonato il mercato russo. Le stesse hanno poi cambiato atteggiamento. Al punto che, il 19 settembre 2022, il ministro dell’industria e del commercio Denis Manturov aveva dichiarato che le aziende straniere sono ora interessante a continuare le operazioni, o a garantire le condizioni per il loro ritorno. Insomma, il linguaggio dei soldi, il business, legano più delle armi ancora inviate per la difesa di un popolo in forte sofferenza.

Spie glamour invadono la Gran Bretagna e gli Stati Uniti: l’altra guerra di Putin

Nella storia sono sempre esistite. Si pensi ad Elsbeth Schragmuller, a Mata Hari, Edith Cavell o Marthe Richard: agli anni della Prima guerra mondiale (1914-1918) quando lo spionaggio dovette aprirsi al mondo dei civili. Figure che non hanno recitato solamente in parti minori. Così anche Vladimir Putin, nella guerra aperta contro l’Ucraina, allargata ai Paesi che gli sono ostili, fa ricorso a un esercito di spie. Donne attraenti con le quali potrebbe aver inondato la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Lo riporta il quotidiano britannico The Sun. La conferma viene dalle operazioni della polizia che, il mese scorso, ha smascherato il presunto giro di spie russe, a Londra e nella città di Great Yarmouth nel Norfolk.

Come agiscono le spie

Nessuna novità, potremmo dire, alla luce di quanto già accaduto. L’elemento innovativo, in una guerra che si combatte non soltanto per mezzo delle armi convenzionali e con i missili, sta nell’esistenza di vere e proprie scuole di seduzione in Russia, dove le avvenenti spie imparano le tecniche utili alla causa della Federazione russa.

Ad essere presi di mira sono personalità militari e politiche. Uomini che le spie glamour approcciano allo scopo di ottenere informazioni. Le stesse si impegnano a condurre una vita normale, rivela l’ex spia Philip Ingram; ma in realtà “lavorano” le loro vittime – si ritiene che centinaia di “madame” gestiscano reti di spie in diverse città della Gran Bretagna e di altri Paesi in Europa. Il loro lavoro consiste nel prendere parte ad eventi e a feste dove possono fare le conoscenze giuste. Ciò accade sin dai tempi della Guerra Fredda quando le spie raggiungono bar, ristoranti e locali notturni, si avvicinano a uomini e donne di mezza età soprattutto, con l’intento di ricattare i funzionari per ottenere segreti.

Le insospettabili: i casi noti

Tra le spie glamour più famose ci sono Anna Chapman, la rossa dai capelli di fuoco, che ha lavorato come agente dormiente per la Russia negli Stati Uniti; la “gioielliera” Maria Adele Kuhfeldt Rivera, che è stata agente del GRU al servizio della Russia (lo ha rivelato lei stessa, l’anno scorso), e prima di essere identificata come Olga Kolobova, è stata legata sentimentalmente ad alti ufficiali statunitensi e di altri Paesi Nato. Ciò è avvenuto in Italia, a Napoli. Tra i cinque cittadini bulgari accusati di spionaggio per la Russia c’è Vanya Gaberova, estetista che gestiva il salone Pretty Woman ad Acton a Londra: agli occhi di chi la conosceva era una donna normale, discreta e timida. Sono donne che potrebbero non aver fatto le “scuole di seduzione” ma che hanno imparato sul campo il mestiere. Come ha confidato lo stesso Philip Ingram, le aspiranti spie da reclutare e mandare in giro devono possedere determinati requisiti, e vengono esaminate per vedere se sono “disposte a spingersi un po’ più per la Madre Russia”.

In definitiva, l’utilizzo delle spie glamour rappresenta un’arma in più in uso a Putin, che può conoscere le abitudini altrui, e fare leva sulle debolezze del nemico.

Undici settembre, la catastrofe che è costata agli Usa oltre 5.800 miliardi

Una ferita sempre aperta. Che non si può rimarginare: con gli stessi sentimenti di sgomento, di dolore e incredulità, il mondo ricorda gli attentati alle Torri Gemelle del World Trade Center di New York dell’undici settembre, per il 22esimo anno. Il primo dei quattro aerei di linea dirottati, schiantatosi sulla Torre nord a circa 750 km/h, tra il 93° e il 99° piano, ha dato una svolta alla storia contemporanea. Erano le 8.46 (14.46 in Italia) di quella che sembrava essere una splendida giornata. A tutti i livelli, le ricadute della catastrofe sono state importanti. E magari nemmeno immaginabili.

Le spese militari

Tra il 2001 e il 2022 gli Usa hanno speso oltre 5.800 miliardi di dollari. La cifra viene dalle stime del Watson Institute della Brown University; alla stessa vanno aggiunti i costi di cura dei veterani – almeno altri 2.200 $ stimati fino al 2050. All’indomani degli attentati dell’undici settembre l’obiettivo era l’uccisione di colui che fu riconosciuto come il principale responsabile. Ovvero di Osama Bin Laden (1957-2011). La morte del fondatore e leader di Al Qaeda non ha portato, però, a risultati concreti nella lotta alla stessa organizzazione terroristica internazionale. La riprova sta nel ritiro delle truppe statunitensi e della coalizione Nato dall’Afghanistan, avvenuto nel maggio 2021. Azione che, di fatto, ha dato lo Stato in pasto ai talebani. Le operazioni militari si collocavano nella mission denominata nation building. Miravano, cioè, alla costruzione di uno Stato afghano che rispettasse i criteri della democrazia e della stabilità. Oltre alle risorse impiegate sul piano bellico si pensi a quanto speso in sicurezza nel sistema di prevenzione di nuovi attentati. Perché da quel giorno l’intero Occidente si è sentito e continua a sentirsi sempre più vulnerabile.

Undici settembre, il valore della Memoria

Ricordare significa dare giustizia alle vittime e ai loro familiari. Circa 3000 i morti accertati, dalla mattina degli attentati nel cuore della Grande Mela agli ultimi anni, a causa delle patologie sviluppate, correlate allo stesso evento drammatico. La lista è sconfinata, e ancora aggiornata: nelle scorse ore il corpo dei vigili del fuoco ha aggiunto 43 nomi nuovi; le autorità di New York hanno dato un nome ad altre due vittime delle stragi, identificati grazie a un test avanzato del Dna. Tecniche all’avanguardia hanno permesso di non lasciare ignote alcune delle persone che se ne sono andate. Così la tecnologia (almeno quella) ha fatto progressi utili all’umanità. Tuttavia, va considerato che ancora il 40 per cento delle vittime totali resta non identificato. Il memoriale dell’undici settembre ha raggiunto persino Marte. Artefici dell’impresa i rover Spirit e Opportunity che vi hanno portato un ricordo interplanetario per le vittime degli attentati. Una lezione di umanità. Un messaggio che agli extraterrestri in giro per la galassia può dire quanto siamo stupidi noi mortali, capaci di farci del male; ma pure di trovare la via della rinascita e del riscatto.

Robot al posto degli studenti: quando la tecnologia è al servizio dell’etica

Gli abbiamo visti in azione durante la pandemia da Covid 19. Quando le restrizioni rendevano impossibile la frequenza, gli assembramenti, le sedute di laurea fatte in presenza. Adesso nelle scuole del Giappone i robot potrebbero prendere nuovamente il posto degli studenti: è l’idea avanzata dalle autorità di Kumamoto, città che ha già fatto tra le aule l’esperienza del metaverso. Lo riporta il portale Insider Paper. C’è da scommettere che la proposta troverà applicazione, compimento, in un Paese estremamente avanzato sul piano tecnologico. Questa può essere presa a modello.

L’obiettivo dei robot

L’iniziativa, che dovrebbe partire a novembre, è finalizzata all’azione di contrasto contro l’assenteismo ed il bullismo nelle scuole. Un sostegno a quanti manifestano, in generale, difficoltà di inserimento nelle classi degli istituti scolastici che frequentano. Robot di altezza non superiore al metro potrebbero spostarsi da una classe all’altra autonomamente, controllati a distanza dagli studenti, per fare in modo che i “sostituti” possano prendere parte alle lezioni e alle discussioni con i compagni.

“Comunicare attraverso questi robot non è completamente reale, ma può dare un certo senso di realtà ai bambini che sono ancora insicuri e hanno paura di interagire con gli altri. Speriamo che questo aiuti questi bambini a superare le loro paure”. Così il portavoce della città Maki Yoshizato motiva il progetto. In particolare, l’idea di utilizzare i robot nasce dall’esigenza di porre un argine all’incremento del numero di assenze degli studenti. I quali preferiscono starsene a casa per non subire umiliazioni dai loro coetanei e tenere a bada i sentimenti di paura o ansia. Il fenomeno del bullismo, infatti, può fare danni consistenti, anche permanenti. L’assenteismo in Giappone ha coinvolto il numero record di  244.940 studenti delle scuole primarie e secondarie. Lo attesta l’ultima indagine del ministero dell’Istruzione, con riferimento al 2021.

Il pericolo incombente

Gli aggressori sono giovani ma anche adulti. Si pensi a quanto capitato, lo scorso mese di maggio, ad uno studente di Tokyo accoltellato da un anziano nei pressi di una stazione ferroviaria. Anche l’Italia deve fare i conti con l’incremento degli episodi di violenza. Sono infatti in costante crescita i casi di molestie, bullismo o cyber bullismo negli ultimi cinque anni, dei quali sono vittime bambini e adolescenti – 32.600 nel periodo 2022/2023. Violenze fisiche o psicologiche che richiedono interventi. Dal Belpaese al continente asiatico, anche la tecnologia può fare la sua parte per instillare nei più giovani la cultura del rispetto. Come aveva preannunciato il primo cittadino di Kumamoto Kazufumi  Onishi, qualsiasi azione, allora, può essere messa in campo per offrire più opzioni a quegli studenti che non possono raggiungere il luogo dove dovrebbero essere.

Modello Coluccia: la Chiesa che ci piace sa dare fastidio

È il prete simbolo della lotta allo spaccio e alla criminalità a Roma. Ma non chiamatelo eroe: don Antonio Coluccia è stato vittima di una intimidazione, perché fa il proprio dovere. L’episodio si è verificato durante una marcia per la legalità in Via dell’Archeologia. Nel pomeriggio di ieri, martedì scorso 29 agosto, un uomo ha cercato di investirlo in scooter per le strade di Tor Bella Monaca, dove si stava tenendo la manifestazione. L’aggressore non è andato a segno. Infatti, si è frapposto un agente della scorta, il quale ha reagito sparando e ferendolo la stessa persona. Un grande spavento per il sacerdote salentino originario di Specchia, che ha confidato di aver avuto paura. Il responsabile dell’aggressione era un bielorusso 28enne già noto alle forze dell’ordine. In quanto aveva precedenti per droga – dopo una colluttazione è stato poi trasportato al Policlinico Casilino.

Don Antonio Coluccia, la missione ininterrotta

“L’aggressione non mi fermerà. Continuerò la mia battaglia che sto portando avanti contro la criminalità che controlla le piazze di spaccio a San Basilio, Quarticciolo e Tor Bella Monaca”. Così don Antonio Coluccia ha commentato l’agguato che poteva costargli la vita. Il suo lavoro, portato avanti da venticinque anni contro la criminalità organizzata e lo spaccio di droga (vive sotto scorta), non può piacere a chi delinque. Soprattutto, non viene visto di buon occhio l’attenzione del religioso verso i più giovani, i quali vengono sottratti alla cultura della morte, attraverso le numerose iniziative in cui vengono coinvolti.

Sulla scia di don Pino Puglisi

Don Antonio Coluccia rimanda a un’altra grande figura di riferimento del passato non troppo remoto. Il sacerdote che ha combattuto la mafia in Sicilia, a Palermo: don Pino Puglisi. Il quale amava proprio i giovani. E per toglierli dalla strada, dalle mani della mafia che li reclutava sin da giovanissimi, si impegnò, con la collaborazione di un amico e di un gruppo di suore – ricordiamo il film di Roberto Faenza Alla luce del sole (2005) che per la prima volta in televisione ne raccontò la storia. Don Pino Puglisi fu minacciato e picchiato. Infine assassinato. La determinazione del prete, che ha portato avanti la propria missione, è il segno della perseveranza che non trova ostacolo neanche di fronte al pericolo incombente della morte.

Così don Antonio Coluccia lascia intendere tutta la propria inarrestabile forza. L’auspicio è che l’esito sia diverso: che non venga lasciato solo. Se non altro, lo stesso ha ricevuto le telefonate del ministro Matteo Piantedosi, del primo cittadino di Roma Roberto Gualtieri, del Capo della Polizia Vittorio Pisani e di altre autorità. Compresa la solidarietà degli esponenti del mondo della politica. L’episodio può avere una duplice lettura… Come ha dichiarato il Presidente del Municipio VI delle Torri Nicola Franco, quanto accaduto dimostra che gli sforzi di don Coluccia “danno fastidio in questa zona”. Viva la Chiesa e gli uomini di Dio che scelgono la strada della lotta educativa e non quella della compromissione.

I 159 anni della prima Convenzione di Ginevra: la vita è sacra sempre

Reiterare l’impegno a tutela dei diritti delle vittime nelle guerre e promuovere la cultura del rispetto. È questa la mission nel ricordo della prima Convenzione di Ginevra – il 159 anniversario della nascita ricorre oggi, ventidue agosto. I diritti da tutelare includono quelli dell’assistenza a feriti e malati, il riconoscimento del prezioso lavoro offerto dalle strutture sanitarie e dal personale medico.

La sacralità della vita sotto la minaccia costante della guerra

“Ancora oggi assistiamo a numerose violazioni del Diritto internazionale umanitario (Diu) che minacciano pesantemente la protezione dei civili, nonché di tutti gli operatori umanitari e il personale medico impegnati a salvare vite umane”. Lo ha detto il presidente della Croce Rossa Italiana Rosario Valastro. Ricordando le parole di Henry Dunant, che sono un vivo monito nel presente: la vita è sacra sempre. Lo è anche in mezzo agli orrori della guerra. Laddove il virus della bestialità annebbia la mente e indurisce i cuori, sino alla sconfitta dell’umanità.

Prima convenzione di Ginevra

Sei erano le convenzioni negli anni che precedettero la prima e la seconda guerra mondiale. La Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei militari feriti in guerra fu adottata il 22 agosto 1864 a Ginevra. Ad ispirarla fu lo stesso Henry Dunant, il quale fu impressionato dalle sofferenze inflitte a 40mila soldati durante la battaglia di Solferino, che nel 1859 contrappose l’esercito francese a quello austriaco. Promotore dell’iniziativa fu il Comitato Internazionale della Croce Rossa. Fattasi conoscere nel 1863, la “Società Ginevrina per il Benessere Pubblico” raccolse i rappresentanti di 11 Paesi europei, e degli Stati Uniti d’America, con l’obiettivo di salvare vite umane e prevenire o alleviare le sofferenze. Oltre all’Italia firmarono: Spagna, Prussia, Francia, Portogallo, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Assia, Baden, Confederazione Svizzera e Wurtemburg. Mentre i rappresentanti di Inghilterra, Sassonia, Svezia e Stati Uniti non ebbero poteri di firma.

I valori

In linea di principio, la prima Convenzione di Ginevra dovrebbe tutelare tutte le persone “non combattenti”. Ovvero quanti sono vittime di conflitti che non vorrebbero minimamente. In realtà, come già denunciato più volte, tale principio non viene applicato quotidianamente in tutto il globo, nelle aree più disagiate particolarmente. Laddove non vengono garantiti i principi fondanti della stessa Convenzione di Ginevra, che sono sette: umanità, imparzialità, neutralità, indipendenza, volontarietà, unità e universalità. Valori che sono il faro della Croce Rossa.

Le quattro Convenzioni del 1949

Attingendo a quegli accordi e a quei valori, all’indomani della Seconda guerra mondiale (1939-1945) si tenne una conferenza internazionale, sempre a Ginevra, presieduta dal consigliere federale Max Petitpierre. L’iniziativa nacque dall’esigenza di compiere maggiori sforzi nella direzione della tutela delle vittime di guerra. Le quattro Convenzioni ratificate universalmente vennero poi integrate da tre protocolli aggiuntivi nel ’77 e nel 2005. Tutto questo rappresenta le fondamenta del diritto internazionale consuetudinario valido per tutti gli Stati e le parti in conflitto nel mondo.

Meteo, nessun caldo africano a ferragosto: quando si cade nel catastrofismo climatico

La premessa è che occorre combattere in modo concreto e celere quanto è correlato all’azione umana. Ovvero il tanto discusso, pernicioso fenomeno del cambiamento climatico, responsabile degli eventi meteo estremi. Pensiamo anche agli incendi che hanno fatto vittime e trasformato in un inferno il paradiso delle Hawaii. Come pure va contrastato il negazionismo di chi ha perso il contatto con la realtà. Ma non bisogna neppure esagerare, cadere nel catastrofismo facendo allarmismo climatico: con riferimento alle previsioni meteo per ferragosto, ad esempio, i media nazionali insistono su un’ondata di caldo rovente africano. Che non ci sarà, a quanto pare, in Italia. A denunciarlo sono gli esperti del portale meteobook. I quali osservano, studiano le carte, con professionalità, e lavorano nella logica contraria al sensazionalismo acchiappa like.

Previsioni meteo ferragosto: cosa dicono i modelli

Guardando alla circolazione delle masse d’aria prevista per le ore centrali di giorno quindici agosto, alla quota di 5.500 metri, si può osservare che le correnti in transito sull’Italia provengono da nord, e hanno un’origine marittima. Ovvero originate alle medie latitudini dell’Atlantico. Il tanto temuto caldo africano finirà invece tra la Grecia e l’Egeo. Così, guardando alla circolazione delle masse d’aria nei bassi strati, a 1.500 metri, si può notare che il pennacchio rovente nord-africano defluirà in direzione della Spagna. Ciò non significa che farà fresco sulla Penisola italiana. Ma che la stessa andrà ad auto produrre il caldo in proporzione alla compressione anticiclonica, detta subsidenza, e all’irraggiamento solare: condizione che farà salire le temperature sino a punte di 35-37 gradi, in alcuni casi. Insomma, caldo sì, ma niente di eccezionale. Non un’ondata assimilabile alle tre settimane di fuoco che abbiamo visto nel mese più caldo di sempre. Qual è stato luglio 2023.

Ancora meglio al Meridione

Le previsioni per ferragosto sono piuttosto rassicuranti. Al momento, la Puglia è interessata da venti settentrionali. E la circolazione non dovrebbe cambiare. L’estremo sud peninsulare, in particolare, potrebbe addirittura risentire di un’infiltrazione relativamente più fresca proveniente dai Balcani, capace di contenere l’aumento delle temperature. Che dovrebbero mantenersi vicine alla media. Ci avviciniamo, cioè, alla fine dell’estate. L’anticiclone africano potrebbe avere altre occasioni favorevoli per riguadagnare campo. Non nel breve termine, in ogni caso: dimentichiamo i quaranta gradi e oltre registrati, per più giorni consecutivi, in diverse località dell’Italia, a causa del flusso canicolare proveniente dall’entroterra sahariano. Non ci sarà alcun ritorno di Nerone, l’anticiclone porta caldo, come è stato soprannominato – sarebbe il caso, anche, di smetterla con la mania di dare un nome a tutte le ondate di calore o le perturbazioni che raggiungono ogni anno lo Stivale.

Energia pulita, la prima batteria gravitazionale in Cina

La buona notizia viene dal Paese che più inquina. Ovvero dalla Cina, corresponsabile in larga parte del fenomeno del surriscaldamento globale, del quale stiamo facendo tutti le spese. C’è da benedire l’entrata in funzione della prima batteria gravitazionale. Il progetto portato a termine nei pressi di Shanghai, nella provincia di Jiangsu, porta la firma di Energy Vault, azienda svizzera. È il primo impianto di stoccaggio a gravità non pompato al mondo.

Batteria gravitazionale, come funziona

Il progetto utilizza i nuovi sistemi di sollevamento a nastro dell’azienda. Quella appena partita è una torre con molti motori elettrici alimentati dall’energia solare. Struttura di stoccaggio a gravità da 25 MW/100 MWh. Tali motori, quando l’energia viene fornita dalla fonte, sollevano verso l’alto i blocchi da 24 tonnellate; gli stessi, quando ricadono, generano nuovamente elettricità, che può essere utilizzata per lo scopo previsto. L’efficienza prevista è dell’80 per cento pari a quella delle batterie e degli accumulatori idroelettrici. I quali funzionano secondo un principio simile. Va precisato che le batterie consentiranno di immagazzinare l’energia in eccesso prodotta dai parchi solari ed eolici; e che per produrre i blocchi è possibile utilizzare il suolo o gli scarti delle miniere. Avviata la prima fase di messa in funzione della batteria, la connessione alla rete elettrica è prevista per il quarto trimestre dell’anno in corso.

Un punto di partenza, modello virtuoso

“Sebbene questo rappresenti un traguardo significativo, il nostro lavoro in Cina è solo all’inizio, visti i recenti annunci locali di accumuli di energia a gravità per svariate ore GW, tra cui i progetti annunciati nel 2022 a sostegno dell’iniziativa cinese ‘Parchi a zero emissioni di carbonio’ con la tecnologia di accumulo di energia a gravità di Energy Vault”. Così il presidente e amministratore delegato della stessa azienda svizzera Robert Piconi commenta il piano di costruzione di cinque progetti dalla capacità di accumulo combinata di 2 GWh. Il sistema complessivamente funziona: il progetto dimostrativo installato nel 2020 in Svizzera ha dimostrato un’efficacia, efficienza di andata e ritorno del 75%. Energy Vault dichiara che prevede di migliorarla fino all’80 per cento circa.

Così la lotta al cambiamento climatico è possibile

C’è un altro aspetto non affatto secondario da sottolineare attorno a questa iniziativa. Ed è la collaborazione senza precedenti dimostrata tra i team degli Stati Uniti e della Cina: le due superpotenze, le maggiori economie del mondo, hanno unito le forze per affrontare il cambiamento climatico in modo concreto, significativo. Lo ha rilevato l’amministratore delegato di Atlas Renewable Eric Fang. Energy Vault aveva già annunciato che attraverso gli impianti installati nei nuovi parchi industriali a zero emissioni di CO2, Pechino intende raggiungere un risultato intermedio nel 2030 e la neutralità climatica entro il 2060. Dal continente asiatico all’America, passando per l’Europa, le grandi sfide del presente e del futuro si vincono attraverso l’innovazione e la cooperazione. Va ribadito.

Crisi climatica: la riprova che ci interessano solo i problemi di casa nostra

Incendi e devastazioni, precipitazioni intense e caldo record: in questi giorni non si parla d’altro che di clima, in piazza e tra i media. Di eventi meteo estremi dalle conseguenze catastrofiche. I riflettori sono calati su altre tragedie, contesti di crisi, sul piano nazionale e internazionale, come la guerra in Ucraina. E ancor meno si parla degli altri conflitti in corso – pensiamo a quello che sta insanguinando il Sudan, da oltre cento giorni. La dimostrazione che ci interessa ciò su cui abbiamo interessi di natura economica. Ora il clima, ora gli intrecci che legano l’Occidente e l’Europa all’Ucraina, alla Federazione russa.

Crisi in Sudan

Una guerra che ha superato i cento giorni. La pace appare ancora lontana in Sudan, dove cresce il numero delle vittime: i rifugiati nei Paesi confinanti sono oltre 740mila. Tanti gli sfollati. Dall’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) è arrivato l’appello per chiedere la fine dei combattimenti. Ma senza soluzione di continuità, l’escalation continua. A farne le spese sono soprattutto i bambini. Secondo quanto denunciato dall’Unicef, sono almeno 435 i piccoli uccisi, e più di duemila quelli rimasti feriti. Gli ospedali sono al collasso. Tanto che il 68 per cento delle strutture è stata costretto a sospendere il servizio, nelle aree più colpite. Il conflitto ha avuto inizio il 15 aprile scorso, ricordiamo. E vede contrapposti i due gruppi di membri del Consiglio di sovranità di transizione: l’esercito sudanese contro le Rapid Support Forces.

Quando la guerra diventa un problema

Più della violazione dei diritti umani, altro finisce dentro il dibattito… Il Sudan è il secondo Paese al mondo per esportazione di gomma arabica. Si tratta di una materia prima molto utilizzata nell’industria alimentare, cosmetica e farmaceutica. Il commercio di questa sostanza si è interrotto con la guerra. Alcune aziende internazionali, come quelle che producono Coca-Cola potrebbero risentire negativamente del deficit di gomma arabica, la quale può essere sostituita come ingrediente nella produzione di cosmetici, ma non in quella delle bevande gassate. Difficile ipotizzare la crisi di queste aziende. Ma quantomeno, il rischio ha acceso i riflettori su una guerra che potrebbe far collassare il continente intero, l’Africa. Allora sì che la questione ci interesserebbe.

Clima, dalle parole ai fatti

Un vizio tipicamente italiano è la gestione dell’emergenza. A catastrofe ormai avvenuta: poco o niente si fa nella prevenzione. Ci occupiamo dell’emergenza. E nel caso del clima, la comunità adesso è divisa tra fanatismo e negazionismo: tra quanti vorrebbero veder riconvertito il sistema produttivo economico, con la bacchetta magica, e coloro che non negano il cambiamento climatico (sarebbe folle), bensì la sua origine antropica. L’auspicio è che le posizioni trovino un punto di incontro e si mettano in campo soluzioni concrete e immediate nell’azione di contrasto al processo irreversibile del cambiamento climatico.

Disconnessi, come riappropriarsi del tempo ricaricando corpo e mente

Dieci giorni senza pc e senza cellulare. Va bene anche meno: il necessario per “staccare la spina” in senso letterale. Un esperimento che andrebbe provato, in modo da ricaricare il corpo e la mente, almeno una volta, o ogni tanto. Cosa accade, quando riusciamo a farlo? Il tempo scorre più lentamente. Ce n’è per guardarsi intorno: per ascoltare il rumore delle cicale fino a sera tarda, quando si sta all’aria aperta; per dare più attenzione a se stessi o agli altri; per far riemergere freschi o vecchi ricordi; per ordinare i pensieri, o per lasciarli in disordine. Una scelta controcorrente, stare “disconnessi”. Perché siamo immersi in tempi nei quali l’utilizzo delle tecnologie si fa sempre più dirompente. Ma pur controcorrente, la stessa scelta consente di risintonizzarsi con la maggioranza. Ovvero con le abitudini perpetuate per millenni dall’essere umano – fino agli anni Novanta del secolo scorso.

Disconnessi, ma riposati

È risaputo che i dispositivi elettronici sono nemici del sonno. Lo attestano diversi studi e ricerche effettuate. Non avere, allora, cellulare o tablet quando si va a letto, giova al riposo notturno. Ovvero alla qualità del sonno. Stare disconnessi per qualche giorno potrebbe essere il miglior rimedio per combattere la vera e propria insonnia da smartphone che colpisce gli italiani, adulti e adolescenti, in numero sempre crescente: la luminosità del display tiene in qualche modo attivo, ancora sveglio il cervello, sollecitandolo inoltre agli stimoli provenienti dall’esterno. Col risultato di favorire le apnee notturne e le interruzioni del sonno. La notte come di giorno, il cellulare crea una vera e propria e subdola dipendenza. Dalla quale occorre disintossicarsi in qualche modo. Va da sé che per favorire il riposo notturno non basta liberarsi di questi aggeggi: occorre spegnere le preoccupazioni, e combattere altri fattori di disturbo. Quali possono essere le zanzare pericolose e il gran caldo di questi giorni.

Elogio della lentezza

Andiamo sempre di corsa. Rallentare i ritmi, riallineandoli a quelli dei nostri antenati, quando l’evasione dalla ruotine e dalla quotidianità diventa una concreta possibilità (il momento migliore per fare questa esperienza è senz’altro la vacanza), significa abbattere lo stress godendosi il panorama. Riprendere il contatto con la realtà senza lasciarsi fagocitare dalla stessa. E se il corpo rallenta, assecondando il passo dell’eleganza, l’agilità mentale migliora, si rafforza. Così la capacità di analisi e di approfondimento. Stare disconnessi, e magari riprendere le letture più impegnate, come le riviste settimanali o i romanzi “mattone” lasciati impolverati durante l’anno, stimola la curiosità rispetto a ciò che ci accade intorno. Senza l’assillo di dover rispondere a chiamate e messaggi, appena li riceviamo, potremmo dare la precedenza ad altro. Riscoprire anche la noia. Che per qualche giorno soltanto, può diventare una compagnia salutare. L’otium può prendersi la rivincita sul suo contrario.

Liu Shikun: “Il concorso Tchaikovsky è un potente carro armato”

Guerra e musica. Gli orrori del conflitto, che vedono insanguinata l’Ucraina, tra i Paesi coinvolti nella umana follia, e la missione salvifica della prima. Ad accostarle si fa peccato. Perché sono davvero agli antipodi. Ma il paragone rende l’idea: per Liu Shikun il concorso Tchaikovsky è un potente carro armato. Lo ha detto proprio ai media russi il pianista e compositore cinese. Che è membro della giuria del concorso internazionale, giunto alla 17esima edizione. Un messaggio pieno di forza.

Liu Shikun, il senso delle sue parole

“Il Concorso Tchaikovsky è come un potente carro armato, con tutto ciò che contiene, mentre tutti gli altri concorsi internazionali sono armi leggere. Senza dubbio rimane, se non il più difficile, uno dei concorsi più impegnativi al mondo”, ha detto il musicista. Liu Shikun ha poi augurato ai finalisti di fare del loro meglio (il vincitore sarà proclamato quest’oggi 29 giugno) e di continuare a servire l’arte nel mondo. Pur credendo nella superiorità della Musica, riconosce che la stessa spesso viene messa in posizione subalterna dalla politica. “Il che è molto frustrante – denuncia – ma questo non ha influito sul livello della competizione e dei concorrenti, ancora alto”.

Il musicista

Classe 1939, Liu Shikun ha iniziato a suonare il pianoforte a soli 3 anni – a 5 cominciava ad esibirsi in pubblico. Ha studiato al Conservatorio centrale di Musica di Pechino e si è diplomato a quello di Mosca. Nel 1958 ha condiviso con Lev Vlassenko il secondo premio alla prima edizione del concorso Tchaikovsky di Mosca, vinto dall’americano Van Cliburn. La sua fama crebbe, non solo in Cina, dove portano il suo nome tante scuole di musica, fino ad essere considerato uno dei migliori concertisti. Fece l’esperienza del carcere: otto anni di prigione, quando la musica occidentale è stata bandita. Attualmente ricopre diversi incarichi. È stato membro della giuria di concorsi pianistici internazionali, tra cui il Franz Lizt e il Van Cliburn, oltre al Tchaikosky.  

Intelligenza artificiale, il potere è nelle nostre mani

È il tema del secolo. E in queste ore tanto se ne parla: l’intelligenza artificiale sta per impattare nelle nostre esistenze, fino a condizionarle. Di un’arma a doppio taglio si tratta. Così l’ha definita Elon Musk, mettendo in guardia dai rischi che potremmo sperimentare. Un’arma talmente potente da poterci sottomettere in futuro. Non sappiamo se avverrà. Probabilmente entreremo dentro questo processo senza nemmeno accorgercene, alla stregua di quanto successo con internet e il cellulare. Ad ogni modo, siamo sempre in tempo per arrestarlo: lo sviluppo delle tecnologie non si arresta, ma rispetto a qualsiasi novità, a decidere se e come utilizzarle è sempre l’essere umano.

Intelligenza artificiale, cosa ne pensa l’opinione pubblica oltre i confini dell’Italia

Una ricerca interessante arriva dalla Russia. Dall’indagine condotta dagli esperti di AlfaStrakhovanie, per la quale il 48 per cento di 1200 intervistati dichiara di non essere pronto ad affidare la propria auto alle tecnologie di intelligenza artificiale. Le motivazioni sono varie. Dallo stesso studio emerge che un automobilista su quattro si diverte a guidare un’auto. Un altro terzo degli intervistati dichiara che, prima o poi, i veicoli senza pilota faranno parte della quotidianità. Mentre il 32% dichiara che queste auto rappresentano una seria minaccia.

Gli esempi

Entrando nel merito dell’esempio di applicazione dell’intelligenza artificiale, c’è chi teme che la colpa di un incidente con un drone ricadrebbe sul costruttore; secondo altri finirebbe sulla coscienza del proprietario dell’auto. I test comunque vanno avanti. E vengono superati: i primi camion senza conducente hanno cominciato a circolare, tra Mosca e San Pietroburgo, lungo l’autostrada. Lo riportano i media locali. Li vedremo anche sulle nostre strade? Chissà. Intanto, tra i buoni usi e offerte più promettenti dell’intelligenza artificiale, strumento di supporto alla sicurezza degli esercizi commerciali, c’è Veesion: un algoritmo che è in grado di individuare i furti avvisando tempestivamente le guardie.

La promessa che mantenne Berlusconi: la squadra più forte di tutti i tempi è stata il suo Milan

Si può essere antiberlusconiani e insieme milanisti? Proprio negli anni in cui Silvio Berlusconi era alla guida del Milan? Assolutamente sì. Lo è stato persino quel comunista di Fausto Bertinotti. Al netto della politica, della questione morale o della giustizia, bisogna riconoscere le capacità imprenditoriali di chi sapeva sognare in grande, e cercava il benessere di ogni persona. Così in ambito sportivo. Dove il presidente, scomparso ieri, ha dato tanto, nel mondo del pallone.

Il Milan di Silvio Berlusconi

Lo ha detto anche l’Uefa. Che il Milan di Arrigo Sacchi, con presidente Silvio Berlusconi, è stato la squadra più forte di tutti i tempi. Tra il 1988 e il 1990 i due vinsero 2 Coppe dei Campioni consecutive. Inoltre due Intercontinentali ed altrettante Supercoppe europee. Erano gli anni del trio delle meraviglie, formato dagli olandesi Marco Van Basten, Ruud Gullit e Frank Rijkaard. Una squadra che non ricercava solamente la vittoria ma anche lo spettacolo come mission. E non si dica che con quei giocatori, chiunque avrebbe potuto vincere… La storia anche recente (si veda la Juventus di Cristiano Ronaldo, incapace di vincere la Champions League) dimostra che per raggiungere i grandi obiettivi non bastano gli investimenti e i grandi calciatori: serve l’ambiente giusto, l’amalgama degli ingredienti utili, la presenza di motivatori, dentro e fuori il campo di gioco.

Dalla polvere alle stelle

Berlusconi viene riconosciuto come l’artefice della rinascita del Milan. Quando nel 1986 subentra a Giussy Farina e rileva la proprietà della società rossonera: dichiara di voler portare il club sul tetto del mondo. L’anno successivo ingaggia Sacchi come allenatore. Arrivano i campioni e i trionfi. Ventinove trofei durante la presidenza dell’ex Presidente del Consiglio, dal 1986 al 2017, prima della vendita a Yonghong Li. Vanno ricordati gli otto scudetti e le cinque Champions League / Coppa dei Campioni. Tanti i fuoriclasse che ha voluto: da Dejan Savicevic a George Weah, da Roberto Baggio a Andriy Shevchenko, da Kakà a Zlatan Ibrahimovic. Oltre ai tre famosi olandesi. Ha avuto fiuto anche nella scelta degli allenatori che dopo Sacchi si sono succeduti – 9 i trofei vinti con Fabio Capello. Dei 15 tecnici il primo è stato il “Barone” Nils Liedhom.

Milan-Steaua Bucarest

Le immagini di questi fenomeni sono consegnate alla storia. I rossoneri vincono per 4-0 la finale della Coppa dei Campioni 1988-89 al Camp Nou di Barcellona, sulla malcapitata Steaua Bucarest – vanno a segno due volte Van Basten e Gullit. Il Milan vince grazie ai suoi finalizzatori, al pressing, al gioco a tutto campo, che sono stati in quegli anni le sue prerogative. La squadra di Sacchi ha inciso profondamente sulla storia moderna del calcio: i suoi concetti fondamentali hanno trovato applicazione nel gioco degli allenatori più vincenti, come Pep Guardiola o José Mourinho, che hanno studiato proprio l’allenatore romagnolo. Il quale è ricordato anche per la finale persa ai campionati del mondo di Usa ’94: l’Italia, ahinoi, non era questo Milan.