Chi scrive ha avuto il privilegio di pedalargli accanto. Non molto tempo fa, in gara: era e continua ad essere un atleta straordinario, il leccese Carlo Calcagni. Semplicemente uno che non molla mai. E che è capace di fare dello sport, del ciclismo in particolare, la sua ragione di vita, il farmaco più efficace. Il male che non può curare lo ha incontrato durante una missione internazionale. Era il 96 del secolo scorso quando, in compagnia di altri 3mila soldati italiani, il paracadutista e pilota istruttore di elicotteri fu inviato in Bosnia Erzegovina per dare il proprio contributo alla missione di pace della Nato “Joint Endeavour”, funzionale al soccorso civile e militare. Mentre i militari americani erano informati dei pericoli ai quali si sarebbero esposti operando in quell’area, e per questo indossavano strumenti di protezione adeguati (maschere, tute speciali, respiratori a circuito chiuso), gli italiani no. “I vertici militari e politici sapevano, ma hanno volutamente taciuto”, ha denunciato Carlo Calcagni. Che si è ammalato gravemente dopo pochi anni. La stessa missione, infatti, gli ha procurato una massiccia contaminazione da metalli pesanti. Il nemico ha avvelenato ogni cellula del suo corpo generando una grave malattia neurologica cronica degenerativa ed irreversibile. L’unico rimedio sono i farmaci, dei quali l’uomo è costretto a fare incetta sempre (300 pastiglie al giorno, 7 iniezioni, 4 o 5 ore di flebo). Ma le sofferenze fisiche e morali permangono. Le sue notti sono spesso insonni, passate in compagnia del ventilatore polmonare.
La storia di Carlo Calcagni, raccontata da Michelangelo Gratton per Ability Channel (docu-film “Io sono il Colonnello”), è nota ma non troppo divulgata. Recentemente se n’è occupata la trasmissione televisiva “Le Iene”: l’inviato Luigi Pelazza, che ha interpellato anche il Sottosegretario di Stato al Ministero della difesa Giorgio Mulé. Un lavoro prezioso quanto inefficace. Perché a distanza di cinque mesi, nulla è cambiato. Lo ha denunciato lo stesso CC dichiarando di essere disposto a rinunciare al risarcimento milionario pur di ricevere una parola di scusa da parte delle istituzioni. Un atto dovuto che andrebbe esteso a quanti condividono lo stesso dramma.
Ciononostante la testimonianza della “Vittima del dovere” è un inno alla vita. Che va vissuta fino in fondo, in ogni circostanza. A costo di subire ingiustizie senza soluzione di continuità. Tra le ultime c’è l’esclusione dalle Paralimpiadi di Tokyo, inflitta dalla commissione tecnica classificatrice, per la quale il male di cui soffre il Colonnello Calcagni non soddisferebbe i criteri minimi per il ciclismo paralimpico. Sebbene lo stesso sia stato riconosciuto come malattia professionale con il 100 per cento di invalidità permanente. Ebbene la “colpa” di Carlo Calcagni, confida lui stesso, è quella di avere una tempra ed una resilienza straordinaria, tali da non conferirgli l’aspetto del malato. Il ciclismo ha sempre fatto parte della sua esistenza. Le due ruote prima, il triciclo successivamente, devono restituirgli la bellezza della libertà, il dominio della fatica e dell’imprevisto. Mentre il resto sfugge alla nostra volontà. Perché espressione di un disegno troppo grande.