Category Archives: Mondo

Terremoto Afghanistan, l’emergenza ignorata dalla comunità internazionale

“La devastazione è totale. Ci sono villaggi completamente distrutti, perché le case, fatte di fango e paglia, sono crollate completamente a causa del terremoto; quando si passa di lì, si può vedere che molti dei morti sono sepolti con le pietre”. A tratteggiare questo quadro inquietante è Thamindri de Silva. Il quale, direttore generale dell’Ong World Vision in Afghanistan, prova a spostare l’attenzione su quanto sta accadendo in un Paese scosso da una nuova emergenza comunitaria: il terremoto, o meglio l’ondata sismica, di magnitudo compresa tra 5.5. e 6.3, verificatasi sabato scorso 7 ottobre.

L’assistenza che manca

La catastrofe ci riporta al terribile post terremoto che ha colpito la Turchia e la Siria, lo scorso febbraio, facendo circa 60mila vittime. Allora, però, c’era l’ausilio della tecnologia utilizzata in quell’area, e il supporto dei tanti Paesi che inviarono squadre di emergenza. A denunciarlo, sulle pagine del quotidiano spagnolo El Pais, il responsabile delle comunicazioni dell’Unicef in Afghanistan, Daniel Timme. Il quale aggiunge che tutto è molto più improvvisato. E che c’è il sostegno di due Paesi soltanto: l’Iran e la Turchia. Gli aiuti alla popolazione arrivano dalle Ong locali e internazionali. Che devono fronteggiare la scarsa assistenza internazionale. Come ha dichiarato lo stesso de Silva, l’Afghanistan ha ricevuto soltanto il 20 per cento degli aiuti internazionali di cui necessitava prima del terremoto; e il timore è che quanto sta accadendo nel resto del mondo, soprattutto il conflitto di Gaza, mettano in ombra il nuovo disastro verificatosi nel Paese, e le emergenze umanitarie che lo stesso ha generato.

Terremoto in Afghanistan, la terra trema ancora

Nelle scorse ore, intanto, una nuova forte scossa di magnitudo 6,3 ha colpito la parte occidentale del Paese. Segnatamente l’area limitrofa alla città di Herat, vicino all’epicentro del terremoto di sabato scorso. Le vittime sono circa 2.400 in totale. Donne e bambini, in particolare. Altrettanti i feriti, secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero della Sanità pubblica afghano – a oltre 72 ore dalla catastrofe, diminuiscono sempre più le probabilità di ritrovare persone in vita. Lo riportano anche i Talebani, che da oltre due anni hanno ripreso il potere in Afghanistan. Gli stessi hanno incontrato le Ong per coordinare l’assistenza umanitaria. A tal fine, per aiutare la popolazione locale, alle donne viene concesso di lavorare di più. Temporaneamente, sia chiaro: l’emergenza lì, nella terra abbandonata nel 2021 dagli americani, è vissuta in tutti gli altri giorni dell’anno, in termini di mortificazioni e di violazione dei diritti umani.

Addio al fumo: le nuove generazioni sono più intelligenti e virtuose

Fumare nuoce gravemente alla salute. È risaputo quanto riporta proprio il pacchetto di sigarette nel monito rivolto al consumatore: un paradosso destinato ad avere fine, l’acquisto di ciò che si trova in tabaccheria. Almeno nel nord  Europa. Si pensi alla Nuova Zelanda che, seguita a ruota dal Regno Unito, è il primo Paese al mondo ad introdurre leggi volte a impedire alle nuove generazioni di darsi al vizio del fumo.

I numeri in fumo

In Nuova Zelanda è stato raggiunto un minimo storico: attualmente soltanto l’8 per cento della popolazione fuma. Numeri incoraggianti anche nel Regno Unito. A fumare, infatti, è circa il 12,9% degli adulti. Tuttavia va sottolineato che il fenomeno del vaping non è in crisi. Anzi, i fumatori di sigarette elettroniche aumentano. Tra gli adulti britannici la percentuale si attesta sull’8,7%.

Un tabù per i minori

Il primo ministro del Regno Unito Rishi Sunak ha dichiarato che i bambini sotto i 14 anni non potranno mai acquistare legalmente sigarette nel corso della loro vita. Lo ha detto intervenendo alla conferenza del Partito Conservatore del 2023 a Manchester. Con questa motivazione: “Dobbiamo affrontare la più grande causa interamente prevenibile di malattia, disabilità e morte. E questo è il fumo, e il nostro Paese”. Così diventerà illegale vendere tabacco a chiunque sia nato dopo il 2008. Per tutti gli altri, per i fumatori più incalliti, sarà raccomandato il passaggio alle sigarette elettroniche. Che pure provocano dipendenza da nicotina e numerosi problemi alle vie respiratorie. Il premier, infatti, ha preannunciato di voler mettere al bando i vapes con confezioni e aromi pensati per attirare i giovani.

Step by step

Per liberarci delle sigarette, una volta per tutte, il primo passo è l’innalzamento dell’età legale. Già fatto: per fumare oggi bisogna essere maggiorenni, prima del 2006 il fumatore poteva avere 16 anni. Si potrebbe alzare l’età legale ad almeno 22 anni. Perché al di sopra di quell’età, come conclude un recente studio giapponese presentato al congresso della Società europea di cardiologia (Esc), è meno facile acquisire la dipendenza dal fumo. E liberarsene meno difficile. Per aiutare il governo a raggiungere questo obiettivo, l’All-party parliamentary group (Appg) ha definito dodici passi. Alleati preziosi insieme alla proposta di legge che potrebbe portare alla svolta storica. A fare del Regno Unito, entro il 2040, il primo Paese “libero dal fumo”. Un modello virtuoso da emulare tra gli Stati membri dell’Unione europea.

Per non dimenticare: i danni del fumo

Ogni anno il fumo uccide più di 8 milioni di persone. Segnatamente 7 milioni di fumatori attivi, e circa 1,2 milioni di soggetti esposti al fumo passivo – fonte Oms. Per tanti la sigaretta rappresenta una compagna amica. Qualcuno azzarda persino dei benefici, sui livelli di attenzione, in abbinamento al consumo di caffeina. Nessuno nega il fascino che la sigaretta ha esercitato per decenni, particolarmente attorno alla figura maschile (la puzza mal si concilia con la bellezza e con la grazia nella donna), ma in un mondo minacciato da nuove e gravi crisi, non possiamo più permetterci alcun atto di autolesionismo.

Segnali di disgelo attraverso l’abbigliamento: OVS apre a Mosca

La guerra infuria in Ucraina. E l’escalation continua, stando alle ultime dichiarazioni di Vladimir Putin, c’è poco da stare tranquilli: il presidente della Federazione russa ha minacciato l’utilizzo di nuove armi chimiche, in produzione. Una notizia interessante che potrebbe prestarsi ad una lettura positiva è invece il ritorno di OVS nel mercato russo.

L’annuncio è stato dato da Natalia Kermedchieva: “Aviapark, Evropeisky, Oceania e Salaris sono già stati aperti. Columbus e TsDM sono in arrivo; all’inizio il marchio ha sviluppato solo la categoria dei bambini, poi ha aggiunto quella degli uomini e delle donne”. “Scommetto che il marchio si svilupperà a un ritmo moderato, cioè aprirà prima 3-7 negozi a Mosca e a San Pietroburgo. Poi si valuterà l’aspetto economico”, ha aggiunto la responsabile dei nuovi marchi presso l’Unione dei centri commerciali (STC)

Il numero non trova conferma. Ma, secondo quanto riferiscono alcune fonti, il gruppo leader in Italia nel mercato dell’abbigliamento OVS avrebbe intenzione di aprire più di cinquanta negozi. Si stima un investimento di oltre 200 milioni di rubli. L’investimento fa il paio con quello preannunciato da Decathlon: l’azienda francese specializzata in articoli sportivi a accessori per lo sport prevede di aprire in Russia il prossimo quindici novembre con il nuovo nome AllDoSport. Un avvio con pochi prodotti inizialmente. Chi ha già ripreso la collaborazione con il Paese in guerra contro l’Occidente è il marchio americano Tommy Hilfiger, che ha aperto il suo primo negozio nel centro commerciale Aviapark di Mosca.

A partire dal febbraio 2022, quando è cominciata la guerra in Ucraina, alcune aziende avevano sospeso le attività o abbandonato il mercato russo. Le stesse hanno poi cambiato atteggiamento. Al punto che, il 19 settembre 2022, il ministro dell’industria e del commercio Denis Manturov aveva dichiarato che le aziende straniere sono ora interessante a continuare le operazioni, o a garantire le condizioni per il loro ritorno. Insomma, il linguaggio dei soldi, il business, legano più delle armi ancora inviate per la difesa di un popolo in forte sofferenza.

Spie glamour invadono la Gran Bretagna e gli Stati Uniti: l’altra guerra di Putin

Nella storia sono sempre esistite. Si pensi ad Elsbeth Schragmuller, a Mata Hari, Edith Cavell o Marthe Richard: agli anni della Prima guerra mondiale (1914-1918) quando lo spionaggio dovette aprirsi al mondo dei civili. Figure che non hanno recitato solamente in parti minori. Così anche Vladimir Putin, nella guerra aperta contro l’Ucraina, allargata ai Paesi che gli sono ostili, fa ricorso a un esercito di spie. Donne attraenti con le quali potrebbe aver inondato la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Lo riporta il quotidiano britannico The Sun. La conferma viene dalle operazioni della polizia che, il mese scorso, ha smascherato il presunto giro di spie russe, a Londra e nella città di Great Yarmouth nel Norfolk.

Come agiscono le spie

Nessuna novità, potremmo dire, alla luce di quanto già accaduto. L’elemento innovativo, in una guerra che si combatte non soltanto per mezzo delle armi convenzionali e con i missili, sta nell’esistenza di vere e proprie scuole di seduzione in Russia, dove le avvenenti spie imparano le tecniche utili alla causa della Federazione russa.

Ad essere presi di mira sono personalità militari e politiche. Uomini che le spie glamour approcciano allo scopo di ottenere informazioni. Le stesse si impegnano a condurre una vita normale, rivela l’ex spia Philip Ingram; ma in realtà “lavorano” le loro vittime – si ritiene che centinaia di “madame” gestiscano reti di spie in diverse città della Gran Bretagna e di altri Paesi in Europa. Il loro lavoro consiste nel prendere parte ad eventi e a feste dove possono fare le conoscenze giuste. Ciò accade sin dai tempi della Guerra Fredda quando le spie raggiungono bar, ristoranti e locali notturni, si avvicinano a uomini e donne di mezza età soprattutto, con l’intento di ricattare i funzionari per ottenere segreti.

Le insospettabili: i casi noti

Tra le spie glamour più famose ci sono Anna Chapman, la rossa dai capelli di fuoco, che ha lavorato come agente dormiente per la Russia negli Stati Uniti; la “gioielliera” Maria Adele Kuhfeldt Rivera, che è stata agente del GRU al servizio della Russia (lo ha rivelato lei stessa, l’anno scorso), e prima di essere identificata come Olga Kolobova, è stata legata sentimentalmente ad alti ufficiali statunitensi e di altri Paesi Nato. Ciò è avvenuto in Italia, a Napoli. Tra i cinque cittadini bulgari accusati di spionaggio per la Russia c’è Vanya Gaberova, estetista che gestiva il salone Pretty Woman ad Acton a Londra: agli occhi di chi la conosceva era una donna normale, discreta e timida. Sono donne che potrebbero non aver fatto le “scuole di seduzione” ma che hanno imparato sul campo il mestiere. Come ha confidato lo stesso Philip Ingram, le aspiranti spie da reclutare e mandare in giro devono possedere determinati requisiti, e vengono esaminate per vedere se sono “disposte a spingersi un po’ più per la Madre Russia”.

In definitiva, l’utilizzo delle spie glamour rappresenta un’arma in più in uso a Putin, che può conoscere le abitudini altrui, e fare leva sulle debolezze del nemico.

Undici settembre, la catastrofe che è costata agli Usa oltre 5.800 miliardi

Una ferita sempre aperta. Che non si può rimarginare: con gli stessi sentimenti di sgomento, di dolore e incredulità, il mondo ricorda gli attentati alle Torri Gemelle del World Trade Center di New York dell’undici settembre, per il 22esimo anno. Il primo dei quattro aerei di linea dirottati, schiantatosi sulla Torre nord a circa 750 km/h, tra il 93° e il 99° piano, ha dato una svolta alla storia contemporanea. Erano le 8.46 (14.46 in Italia) di quella che sembrava essere una splendida giornata. A tutti i livelli, le ricadute della catastrofe sono state importanti. E magari nemmeno immaginabili.

Le spese militari

Tra il 2001 e il 2022 gli Usa hanno speso oltre 5.800 miliardi di dollari. La cifra viene dalle stime del Watson Institute della Brown University; alla stessa vanno aggiunti i costi di cura dei veterani – almeno altri 2.200 $ stimati fino al 2050. All’indomani degli attentati dell’undici settembre l’obiettivo era l’uccisione di colui che fu riconosciuto come il principale responsabile. Ovvero di Osama Bin Laden (1957-2011). La morte del fondatore e leader di Al Qaeda non ha portato, però, a risultati concreti nella lotta alla stessa organizzazione terroristica internazionale. La riprova sta nel ritiro delle truppe statunitensi e della coalizione Nato dall’Afghanistan, avvenuto nel maggio 2021. Azione che, di fatto, ha dato lo Stato in pasto ai talebani. Le operazioni militari si collocavano nella mission denominata nation building. Miravano, cioè, alla costruzione di uno Stato afghano che rispettasse i criteri della democrazia e della stabilità. Oltre alle risorse impiegate sul piano bellico si pensi a quanto speso in sicurezza nel sistema di prevenzione di nuovi attentati. Perché da quel giorno l’intero Occidente si è sentito e continua a sentirsi sempre più vulnerabile.

Undici settembre, il valore della Memoria

Ricordare significa dare giustizia alle vittime e ai loro familiari. Circa 3000 i morti accertati, dalla mattina degli attentati nel cuore della Grande Mela agli ultimi anni, a causa delle patologie sviluppate, correlate allo stesso evento drammatico. La lista è sconfinata, e ancora aggiornata: nelle scorse ore il corpo dei vigili del fuoco ha aggiunto 43 nomi nuovi; le autorità di New York hanno dato un nome ad altre due vittime delle stragi, identificati grazie a un test avanzato del Dna. Tecniche all’avanguardia hanno permesso di non lasciare ignote alcune delle persone che se ne sono andate. Così la tecnologia (almeno quella) ha fatto progressi utili all’umanità. Tuttavia, va considerato che ancora il 40 per cento delle vittime totali resta non identificato. Il memoriale dell’undici settembre ha raggiunto persino Marte. Artefici dell’impresa i rover Spirit e Opportunity che vi hanno portato un ricordo interplanetario per le vittime degli attentati. Una lezione di umanità. Un messaggio che agli extraterrestri in giro per la galassia può dire quanto siamo stupidi noi mortali, capaci di farci del male; ma pure di trovare la via della rinascita e del riscatto.

I 159 anni della prima Convenzione di Ginevra: la vita è sacra sempre

Reiterare l’impegno a tutela dei diritti delle vittime nelle guerre e promuovere la cultura del rispetto. È questa la mission nel ricordo della prima Convenzione di Ginevra – il 159 anniversario della nascita ricorre oggi, ventidue agosto. I diritti da tutelare includono quelli dell’assistenza a feriti e malati, il riconoscimento del prezioso lavoro offerto dalle strutture sanitarie e dal personale medico.

La sacralità della vita sotto la minaccia costante della guerra

“Ancora oggi assistiamo a numerose violazioni del Diritto internazionale umanitario (Diu) che minacciano pesantemente la protezione dei civili, nonché di tutti gli operatori umanitari e il personale medico impegnati a salvare vite umane”. Lo ha detto il presidente della Croce Rossa Italiana Rosario Valastro. Ricordando le parole di Henry Dunant, che sono un vivo monito nel presente: la vita è sacra sempre. Lo è anche in mezzo agli orrori della guerra. Laddove il virus della bestialità annebbia la mente e indurisce i cuori, sino alla sconfitta dell’umanità.

Prima convenzione di Ginevra

Sei erano le convenzioni negli anni che precedettero la prima e la seconda guerra mondiale. La Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei militari feriti in guerra fu adottata il 22 agosto 1864 a Ginevra. Ad ispirarla fu lo stesso Henry Dunant, il quale fu impressionato dalle sofferenze inflitte a 40mila soldati durante la battaglia di Solferino, che nel 1859 contrappose l’esercito francese a quello austriaco. Promotore dell’iniziativa fu il Comitato Internazionale della Croce Rossa. Fattasi conoscere nel 1863, la “Società Ginevrina per il Benessere Pubblico” raccolse i rappresentanti di 11 Paesi europei, e degli Stati Uniti d’America, con l’obiettivo di salvare vite umane e prevenire o alleviare le sofferenze. Oltre all’Italia firmarono: Spagna, Prussia, Francia, Portogallo, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Assia, Baden, Confederazione Svizzera e Wurtemburg. Mentre i rappresentanti di Inghilterra, Sassonia, Svezia e Stati Uniti non ebbero poteri di firma.

I valori

In linea di principio, la prima Convenzione di Ginevra dovrebbe tutelare tutte le persone “non combattenti”. Ovvero quanti sono vittime di conflitti che non vorrebbero minimamente. In realtà, come già denunciato più volte, tale principio non viene applicato quotidianamente in tutto il globo, nelle aree più disagiate particolarmente. Laddove non vengono garantiti i principi fondanti della stessa Convenzione di Ginevra, che sono sette: umanità, imparzialità, neutralità, indipendenza, volontarietà, unità e universalità. Valori che sono il faro della Croce Rossa.

Le quattro Convenzioni del 1949

Attingendo a quegli accordi e a quei valori, all’indomani della Seconda guerra mondiale (1939-1945) si tenne una conferenza internazionale, sempre a Ginevra, presieduta dal consigliere federale Max Petitpierre. L’iniziativa nacque dall’esigenza di compiere maggiori sforzi nella direzione della tutela delle vittime di guerra. Le quattro Convenzioni ratificate universalmente vennero poi integrate da tre protocolli aggiuntivi nel ’77 e nel 2005. Tutto questo rappresenta le fondamenta del diritto internazionale consuetudinario valido per tutti gli Stati e le parti in conflitto nel mondo.

Crisi climatica: la riprova che ci interessano solo i problemi di casa nostra

Incendi e devastazioni, precipitazioni intense e caldo record: in questi giorni non si parla d’altro che di clima, in piazza e tra i media. Di eventi meteo estremi dalle conseguenze catastrofiche. I riflettori sono calati su altre tragedie, contesti di crisi, sul piano nazionale e internazionale, come la guerra in Ucraina. E ancor meno si parla degli altri conflitti in corso – pensiamo a quello che sta insanguinando il Sudan, da oltre cento giorni. La dimostrazione che ci interessa ciò su cui abbiamo interessi di natura economica. Ora il clima, ora gli intrecci che legano l’Occidente e l’Europa all’Ucraina, alla Federazione russa.

Crisi in Sudan

Una guerra che ha superato i cento giorni. La pace appare ancora lontana in Sudan, dove cresce il numero delle vittime: i rifugiati nei Paesi confinanti sono oltre 740mila. Tanti gli sfollati. Dall’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) è arrivato l’appello per chiedere la fine dei combattimenti. Ma senza soluzione di continuità, l’escalation continua. A farne le spese sono soprattutto i bambini. Secondo quanto denunciato dall’Unicef, sono almeno 435 i piccoli uccisi, e più di duemila quelli rimasti feriti. Gli ospedali sono al collasso. Tanto che il 68 per cento delle strutture è stata costretto a sospendere il servizio, nelle aree più colpite. Il conflitto ha avuto inizio il 15 aprile scorso, ricordiamo. E vede contrapposti i due gruppi di membri del Consiglio di sovranità di transizione: l’esercito sudanese contro le Rapid Support Forces.

Quando la guerra diventa un problema

Più della violazione dei diritti umani, altro finisce dentro il dibattito… Il Sudan è il secondo Paese al mondo per esportazione di gomma arabica. Si tratta di una materia prima molto utilizzata nell’industria alimentare, cosmetica e farmaceutica. Il commercio di questa sostanza si è interrotto con la guerra. Alcune aziende internazionali, come quelle che producono Coca-Cola potrebbero risentire negativamente del deficit di gomma arabica, la quale può essere sostituita come ingrediente nella produzione di cosmetici, ma non in quella delle bevande gassate. Difficile ipotizzare la crisi di queste aziende. Ma quantomeno, il rischio ha acceso i riflettori su una guerra che potrebbe far collassare il continente intero, l’Africa. Allora sì che la questione ci interesserebbe.

Clima, dalle parole ai fatti

Un vizio tipicamente italiano è la gestione dell’emergenza. A catastrofe ormai avvenuta: poco o niente si fa nella prevenzione. Ci occupiamo dell’emergenza. E nel caso del clima, la comunità adesso è divisa tra fanatismo e negazionismo: tra quanti vorrebbero veder riconvertito il sistema produttivo economico, con la bacchetta magica, e coloro che non negano il cambiamento climatico (sarebbe folle), bensì la sua origine antropica. L’auspicio è che le posizioni trovino un punto di incontro e si mettano in campo soluzioni concrete e immediate nell’azione di contrasto al processo irreversibile del cambiamento climatico.

Rai News: studentesse avvelenate in Afghanistan, è la prima volta da quando ci sono i Talebani

Un titolo che colpisce. Quello realizzato dai giornalisti di Rai News mette l’accento sulla “prima volta” di un avvelenamento tra studentesse afghane, da quando in Afghanistan ci sono i Talebani al potere – agosto 2021. Niente da eccepire. È corretto, l’articolo. Ma è come se il nostro sguardo, centrato sulla guerra in Ucraina, dove sono concentrate le nostre risorse e ogni sforzo, fosse incapace di dirigersi altrove. Alle atrocità e violenze ben note.

Gli attacchi in Afghanistan

Almeno 82 ragazze afghane sono state ricoverate in ospedale dopo essere state avvelenate in due scuole nel nord del Paese, nella provincia di Sar-e-Pol. L’attacco arriva dopo l’ultimo colpo talebano inflitto ai diritti fondamentali della persona. Ovvero il divieto all’istruzione, imposto a dicembre scorso. Colpite le donne che non possono frequentare la scuola secondaria e l’università. I responsabili degli attacchi restano sconosciuti, per ora. Il primo è avvenuto sabato scorso: ha colpito 56 studentesse, 4 insegnanti, di cui 3 donne, un padre e due custodi. Il secondo avvelenamento si è verificato il giorno dopo. Colpite altre ragazze, ventisei, e quattro insegnanti. Lo riporta l’agenzia di stampa Efe. Segnatamente, secondo quanto riferito da un funzionario dell’istruzione locale, Mohammad Rahmani, 60 ragazze sono state avvelenate nella scuola Naswan-e-Kabod Aab e altre diciassette nella Naswan-e-Faizabad, nel distretto di Sangcharak.

Un lungo avvelenamento

“Nessuno parla di salute mentale. È come se le persone venissero avvelenate lentamente. Giorno dopo giorno, le giovani e i giovani stanno perdendo la speranza”. È il monito contenuto nel reportage della BBC. Lavoro fresco di pubblicazione, che accende i riflettori sul dramma vissuto in Afghanistan dalla popolazione. Il malessere è così diffuso da generare una vera e propria “pandemia di pensieri suicidi”. Lo confidano le stesse ragazze, costrette a convivere con ansia e depressione. La conferma viene dai medici che parlano di decine di richieste di aiuto ricevute ogni giorno. Due terzi degli adolescenti riportano sintomi di depressione. Lo attesta uno studio condotto nella provincia di Herat dall’Afghanistan Center for Epidemiological Studies, pubblicato a marzo scorso.

Come in Iran

L’attacco succede a un’ondata di avvelenamenti in massa di bambine in Iran. Centinaia gli studenti di oltre novanta scuole che, nei mesi scorsi, sono finiti in ospedale a causa dell’uso di gas velenoso – il 16 marzo scorso se n’è occupato il Parlamento europeo. Tra le province colpite, la capitale Teheran. Le autorità iraniane avevano minimizzato l’accaduto attribuendolo a fughe di monossido di carbonio. Poi però, per impulso della pressione della popolazione, è stata aperta un’indagine sulla “possibilità di atti criminali e premeditati”. La paura ha preso il sopravvento, ad ogni modo. Tanto che molte famiglie hanno deciso di non mandare a scuola le figlie. E diverse scuole di Qom, la città santa sciita, sono state costrette a chiudere.

Il fenomeno delle case a 1 euro in Sicilia conquista gli inglesi

Non solo catapecchie. Le case a 1 euro possono rivelarsi un vero affare, una volta fatte oggetto di ristrutturazione. Lo è stato per Hussai Ramzan. A riportare la storia, il quotidiano britannico The Sun: l’immobile è stato acquistato a Mussomeli, comune del libero consorzio comunale di Caltanissetta in Sicilia. L’inglese 31enne originario del Portogallo e residente a Watford, ha dichiarato l’intenzione di raggiungere la sua casa ogni anno nella stagione estiva. Ma anche in inverno, insieme alla moglie e ai tre figli.

Case a 1 euro

L’obiettivo del progetto nato nel 2019 è quello di arrestare lo spopolamento dell’area e di incoraggiare i turisti stranieri. Un’iniziativa sempre più condivisa. Perché il ripopolamento dei piccoli paesi, e la riqualificazione dei centri storici, rappresentano in tutto il Paese un’importante sfida. Va sottolineato che tanti borghi sono di una bellezza incredibile. Un patrimonio da difendere in ogni modo. Il successo del progetto è attestato dai numeri: oltre 400 le proprietà vendute a Mussomeli, delle quali una cinquantina a cittadini inglesi. La Sicilia poi continua ad essere una terra attrattiva. Dove tra mari e monti, l’ampia offerta in cultura, c’è solo l’imbarazzo della scelta per la località più suggestiva.

Quando l’investimento conviene

“È stato un vero affare, praticamente un intero edificio per me e la mia famiglia”, ha detto l’uomo, fattosi affascinare dall’opzione della vacanza a basso costo. “La casa costava solo 4.500 euro (3.900 sterline), poi ho speso 3mila euro (2.600 sterline) per ristrutturarla e 3.000 euro per l’atto di proprietà e tutte le pratiche, comprese le spese notarili”. Anche i tempi sono stati favorevoli. Hussai Ramzan, infatti, è riuscito a completare la proprietà in soli tre mesi, prima che scoppiasse la pandemia. “Ha aggiunto di essere stato aiutato anche dalle autorità locali che hanno redatto tutto in inglese, dato che lui non parla italiano”, chiarisce lo stesso giornale britannico che riporta la notizia. In totale il fortunato ha speso solo 9mila sterline. Mentre una casa simile costa 500.000 sterline nel Regno Unito. Novanta metri quadrati con due camere da letto. Il caso non è l’unico. Si cita la testimonianza di una donna, Meredith Tabbone, che ha investito in una casa da 1 euro, sempre in Sicilia stimando che presto potrebbe valere quasi mezzo milione di sterline.

Yanomami, le sofferenze di un popolo a rischio estinzione

Più che una crisi umanitaria, si tratta di un genocidio. Un popolo che combatte, o meglio si arrende a malattie spesso mortali: in Brasile gli Yanomami vedono minacciata la loro stessa esistenza, che fino agli anni Quaranta del secolo scorso era preservata dal completo isolamento nel quale si trovavano a vivere. La causa va ricercata nelle condizioni disagiate aggravate dall’arrivo dei cercatori d’oro nelle zone abitate da loro. I minatori, infatti, scavando nelle viscere della terra, hanno raccolto acqua che ha attirato zanzare portatrici di malaria. Lo hanno denunciato i membri della comunità locale. Aggiungendo che i fiumi su cui fanno affidamento sono passati dal blu al “colore della Coca-Cola” – colpa del mercurio impiegato per l’estrazione del metallo. Così gli indigeni stanno morendo di fame e di malattie.

La responsabilità politica

Tre mesi fa, il ministro della Giustizia e della Pubblica sicurezza, Flavio Dino (Psb) aveva ordinato l’apertura di un’indagine su presunti reati di genocidio e crimini ambientali nella regione abitata dal popolo degli Yanomami, nello Stato del Roraima. La gravissima crisi sanitaria alimentare ambientale veniva ricondotta in buona parte proprio all’invasione dei minatori e dei cercatori d’oro illegali, dei 20mila “garimpeiros”. Si riconosceva anche che gli stessi sono favoriti dalle iniziative politiche del governo Bolsonaro. Il quale fu colpevole della negligenza dimostrata nei confronti degli Indigeni, e del degrado ambientale alla base dell’emergenza continua.

Le ambizioni di Lula

A parlare di “forti indizi sul crimine di genocidio” è stato lo stesso ministro che ha invitato la polizia federare a indagare sull’ex amministrazione Bolsonaro. Così il giudice della Corte Suprema Luis Roberto Barroso vuole vederci chiaro. Dopo che già l’anno scorso aveva chiesto al governo di espellere i cercatori d’oro. Ad ogni modo, sebbene si parli di genocidio, l’utilizzo di armi è stato escluso. L’emergenza è affrontata da Luiz Inacio Lula da Silva. Almeno nelle intenzioni del presidente del Brasile, che vorrebbe combattere la fame nel Paese: la situazione sembra essere sfuggita di mano, ai danni di questa popolazione.

Le vittime tra gli Yanomami

Almeno 99 i bambini di età inferiore ai 5 anni che hanno perso la vita nel 2022, a causa di “malattie prevenibili”. La denuncia viene da ricercatori incaricati dal Ministero della Salute. Il tasso di mortalità dei più piccoli è superiore di 9 volte alla media nazionale, attesta il reportage condiviso da Survival International. Dal 2018 al 2021 i casi di malaria sono più che raddoppiati, a oltre 20mila. I bimbi uccisi anche dalla malnutrizione sono stati 570 negli ultimi 4 anni. Va ricordato che prima dell’arrivo dei garimpeiros gli Yanomami erano entrati in contatto con il mondo esterno solo grazie ai missionari provenienti anche dai Paesi europei: una presenza benefica ma non risolutiva, rispetto alle sofferenze che si sono poi acuite Già nel 1933 tante donne e bambini finirono vittime degli ospiti più sgraditi.

Iraq, 20 anni fa l’inizio dell’invasione americana e un numero di vittime imprecisato

La guerra è sempre orripilante. Fonte di orrori compiuti dai soldati, nei suoi effetti collaterali, dentro un clima di follia contagiosa, generalizzata. Qualunque matrice abbia, la guerra andrebbe condannata: che sia voluta dalla Federazione russa in Ucraina, dalle dittature, oppure dai democratici Paesi occidentali. Compresa l’invasione americana dell’Iraq, che ha avuto inizio esattamente 20 anni fa, e che ha fatto un numero imprecisato di vittime umane. Le fonti sono discordanti. Qualsiasi cifra appare inaccettabile – da 150mila a 223.000 di morti civili, solo nel periodo compreso tra il 2003 e il 2006. Si parla di un milione di vittime in totale. L’unica certezza sono quelle cifre riferite ai primi tre anni, esito di un vasto studio condotto dal governo iracheno e dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Le cause della guerra in Iraq

L’obiettivo principale della seconda Guerra del Golfo era la deposizione di Saddam Hussein (1937-2006). Il quale, secondo la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti d’America, appoggiava il terrorismo islamista, e provava a dotarsi di armi di distruzione di massa. Tuttavia i timori si rivelarono falsi. Così la minaccia alla sicurezza globale. Dell’arsenale di armi chimiche, infatti, non fu trovata traccia. Altra accusa rivolta all’ex presidente dell’Iraq era la volontà di appropriarsi delle ricchezze petrolifere del Kuwait. In barba a quanti la consideravano un crimine, la guerra fu decisa all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2011 e della caccia ai talebani. L’Italia non prese parte alle operazioni militari ma fornì appoggio politico e logistico alla “operazione speciale”. Il conflitto, durato tanto, si tramutò in una resistenza e guerra di liberazione dalle truppe straniere, invise a molti gruppi armati arabi.

Le conseguenze

L’esito della guerra, avviata dall’allora presidente George W. Bush e conclusasi dopo otto anni (18 dicembre 2011), fu la vittoria statunitense. Ovvero l’abbattimento del regime di Saddam, al quale fece seguito la guerra civile e tribale. Quindi un periodo di forte instabilità. E la situazione adesso si starebbe anche deteriorando. Le conseguenze della guerra riguardano anche il patrimonio culturale: gli americani vengono ritenuti responsabili anche della distruzione dei santuari cristiani. All’impoverimento generale fa da contraltare il “successo” delle armi. Che sono finite, in gran numero, nelle mani della popolazione locale, alimentando conflitti vari e pesanti. Permane il pericolo mine nei territori non bonificati. Il Paese, dopo il ritiro degli americani, è stato spartito tra Al Qaeda e il Califfato. A partire dal 2014 lo Stato islamico dell’Isis prese il sopravvento sulle operazioni di democrazia instaurata. Complessivamente, il prezzo dell’esportazione del modello democratico fu la distruzione di intere città e milioni di rifugiati. Si ricordi la seconda battaglia di Falluja che, per ammissione dello stesso esercito americano, è stato il capitolo più sanguinoso della guerra in Iraq e uno dei più pesanti combattimenti urbani.

Chi salva un bambino salva il mondo intero

La tragedia e l’umanità. A far da contraltare alle immagini impressionanti provenienti dalla Turchia, dove abbiamo visto interi edifici sgretolarsi, gli effetti del terremoto devastante, ci sono gli esempi più edificanti. Chi salva un bambino salva il mondo intero, vien da pensare, con riferimento agli ultimi stravolgimenti, dagli orrori della guerra in Ucraina alla calamità naturale: tanto è contraddittoria la natura umana che l’individuo è capace di perpetrare orrori e poi di riscattarsi attraverso gli slanci di generosità donati tirando fuori il meglio proprio nelle situazioni emergenziali.

Tra i veri e propri miracoli avvenuti nella zona terremotata, al confine con la Siria, c’è il salvataggio di un bambino di 8 anni. Era stato sotto le macerie per cinquantadue ore. Un tempo irragionevole per pensare di vederlo tratto in salvo. Invece è successo: merito della macchina della solidarietà, che nulla chiede in cambio, delle mani nude che scavano, noncuranti della fatica e del freddo intenso.

I numeri della catastrofe

Sempre più, il bilancio delle vittime si aggrava: sono oltre 11mila i morti accertati. Si teme che possano essere più di 20mila in totale. Oltre 37.000 i feriti. Trecentomila le persone che sono state costrette a lasciare le loro case.

La gestione emergenziale

“Abbiamo mobilitato tutte le nostre risorse. Lo Stato sta facendo il suo lavoro”, ha dichiarato Erdogan, ammettendo però le grandi difficoltà incontrate. “Inizialmente ci sono stati problemi negli aeroporti e sulle strade, ma oggi le cose stanno diventando più facili e domani sarà ancora più facile”. Il mea culpa del presidente turco non può che trovare la comprensione generale. Perché rispetto ad una simile catastrofe nessuno può farsi trovare preparato.

Lo sciame

La terra trema ancora, intanto: poco dopo le ore 14, nella provincia di Malatya, a Dogansehir, è stata registrata una scossa di magnitudo 5,3. Lo comunica l’Autorità turca per la gestione dei disastri e delle emergenze (Afad). Lo sciame sismico potrebbe durare mesi. Ma il rischio “epidemia”, rassicurano gli esperti, è scongiurato. Quelle immagini, in ogni caso, non sono affatto lontane e ci scuotono profondamente. Nel bene e nel male.

Tigray, la guerra dimenticata che ha fatto oltre mezzo milione di vittime

Non solo Ucraina. Tra le guerre in corso nel 2023 (non possiamo considerarla chiusa) c’è quella del Tigray, nel nord Etiopia, che in due anni ha fatto oltre mezzo milione di vittime: l’Unione europea parla di un numero compreso tra i 600.000 e gli 800mila morti civili (donne, uomini, bambini) – tra i 100.000 e i 200mila, i militari deceduti. Gli sfollati sono più di 2 milioni e mezzo.

DUE ANNI DI CONFLITTO- La guerra ha avuto inizio con l’ascesa al potere di Abiy Ahmed Ali. Il primo ministro etiope, attraverso la sua politica, con le riforme e con il rinvio delle elezioni nel periodo della pandemia, ha provocato la reazione del Tigray: il governo regionale ci vede il tentativo di distruggere il sistema federale del Paese. E ha tenuto le proprie elezioni in autonomia. Da verbale, l’escalation si è fatta fisica, portando all’inizio del conflitto: nel novembre del 2020, il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray ha attaccato le basi militari del governo federale.

PULIZIA ETNICA- Amnesty International ha denunciato i gravi abusi commessi ai danni della popolazione civile. Al punto che si può parlare di pulizia etnica. Tra le negazioni dei diritti, c’è la negazione degli aiuti umanitari che non arrivano a destinazione. La popolazione è vittima della fame e della siccità. In un’area dove i cambiamenti climatici hanno reso la sopravvivenza ancora più difficile.

LA GUERRA INVISIBILE- Come tutte le guerre che avvengono in Africa, il conflitto del Tigray non accende i riflettori dei media. Sarà perché le ricadute dello stesso non coinvolgono l’economia europea.

L’ILLUSIONE DELLA TREGUA- Nel novembre 2022, a Pretoria, i rappresentanti del governo centrale e i leader del Tigray People’s Liberation Front (TPLF) hanno firmato un accordo di pace il governo etiope e le forze del Tigray hanno firmato un cessate il fuoco che prevede il disarmo delle milizie e il rispetto dell’integrità territoriale del Paese. Ma si tratta di una fragile tregua. Un accordo che, in sostanza, tiene accesi i rancori tra le opposte etnie. Non a caso, l’International Crisis Group fa rientrare la guerra del Tigray tra le dieci crisi mondiali da guardare con particolare attenzione.

L’Onu denuncia casi di torture su prigionieri russi: la brutalità della guerra in Ucraina

Non ha vincitori né vinti. Buoni e cattivi. Carnefici e vittime. Come in tutti i conflitti: offesa oltraggiosa alla sacralità della vita, la brutalità della guerra in Ucraina rende tutti ciechi, esalta la bestialità, il germe della violenza e della sopraffazione che è dentro la persona. L’Onu denuncia casi di torture su prigionieri russi. Almeno cinquanta, quelli avvenuti nei primi 6 mesi del conflitto. Lo rende noto un Rapporto dell’Ufficio dell’Alto Commisario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR). Come dichiarato da Ravina Shamdasani, la portavoce dell’agenzia, si tratta di torture o varie forme di maltrattamento inflitte dai combattenti ucraini sui prigionieri di guerra russi.

Le prove delle torture

Le violazioni dei diritti umani sono documentate da un video presentato dalla Federazione Russa. Oltre che dalla testimonianza diretta, dalla voce degli stessi prigionieri – per l’attività di monitoraggio, l’accesso ai luoghi di internamento viene consentito. L’autenticità del video è stata verificata dall’Ufficio. I casi di tortura erano stati già denunciati dal commissario per i diritti umani della Repubblica Popolare di Luhansk, Viktoriya Serdyukova, avvenuti tra i trenta militari dell’LNR rilasciati l’8 gennaio. Due di loro erano tornati a casa in gravi condizioni.

C’è poi il racconto di un prigioniero che per due notti sarebbe stato fatto oggetto di abusi dai soldati delle Forze armate ucraine (Afu). E ancora, lo scorso 14 gennaio, la commissaria russa per i diritti umani Tatyana Nikolayevna Moskalkova ha mostrato un filmato con torture su militari russi. Di maltrattamenti parla il medico militare Daniil Pshenychnyy. Il quale, in un’intervista al Tribunale, ha dichiarato che i militari russi catturati dall’esercito ucraino sono stati picchiati e manipolati dai loro parenti.

LA SVOLTA NEL CONFLITTO- L’escalation, intanto, continua: autorizzato l’invio di Leopard dalla Germania e di Abrams dagli Stati Uniti, la risposta di Mosca non si è fatta attendere. Ed è più di una minaccia la volontà espressa di distruggere i carri armati utili al supporto dell’Ucraina.

Mosca plaude al papa e ai negoziati: no all’invio di carri armati in Ucraina

Come si esce dalla guerra e dal rischio di un’escalation costante? Con scelte oculate, la strada dei negoziati va promossa, incentivata, specie dai cristiani: da papa Bergoglio arriva il no all’invio di carri armati in Ucraina. Segnatamente la fornitura di veicoli blindati a Kiev da parte dell’Occidente viene considerata una “strada verso il nulla”. La situazione in Ucraina deve essere risolta, invece, ai tavoli dei negoziati.

È quanto emerge dal colloquio avuto da Leonid Sevastyanov con il Santo Padre: a riferirlo, lo scorso 16 gennaio, lo stesso Presidente dell’Unione mondiale dei Vecchi credenti. Una figura importante, quella dell’interlocutore russo, che rappresenta quanti sono impegnati a lavorare attivamente per la pace. Francesco lo aveva già ringraziato affermando: “Noi, cristiani, dobbiamo essere ambasciatori di pace”. Adesso Leonid Sevastyanov riferisce il pensiero del successore di Benedetto XVI sulla fornitura di armi pesanti: “Il papa dice che questa è una strada che non porta a nulla, e che tutti devono sedersi al tavolo dei negoziati”.

Lo sforzo per i negoziati

Il direttore esecutivo della Fondazione San Gregorio legata al dipartimento delle relazioni esterne del Patriarcato di Mosca ha inoltre affermato che il pontefice ha offerto il Vaticano come piattaforma negoziale. Francesco ha espresso la sua disponibilità ad aiutare a “portare tutti al tavolo dei negoziati, e a trovare un algoritmo comune per risolvere il problema”.

I numeri del conflitto in Ucraina

La catastrofe non si arresta, intanto: sono più di 7mila i morti civili dall’inizio della guerra – 456 i bambini. Il bilancio aggiornato delle vittime è stato dato dall’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr). E si tratta di numeri sottostimati. Come riferisce il quotidiano britannico Guardian, la maggior parte delle vittime è stata causata dall’attacco di armi esplosive con effetti ad ampio raggio, tra cui bombardamenti di artiglieria pesante, sistemi missilistici a lancio multiplo. Ovvero missili e attacchi aerei.

La stampa iraniana: “Il Regno Unito commette numerose violazioni dei diritti umani”

Le scuse degli occidentali. Che in nome della libertà, della lotta al terrorismo o ai regimi totalitari, interferisce (per interesse) negli altrui affari comportandosi male. Per la stampa iraniana è il Regno Unito che commette numerose violazioni dei diritti umani. Lo scrive Hassan Babaei sulle pagine del quotidiano britannico Tehran Times. Lo stesso ricorda i “106 risultati delle ispezioni contro i diritti umani riguardanti il mancato rispetto da parte del Regno Unito delle sentenze della Corte europea dei diritti umani, per le quali il governo britannico non ha fornito alcuna risposta adeguata”. “E la violazione delle leggi umanitarie – continua il giornale – denunciata dal Comitato internazionale della Croce rossa alle forze della Coalizione, durante la guerra contro l’Iraq, quando l’esercito britannico lo aveva occupato”.

Iran e guerra in Ucraina

Tehran Times bolla come “ridicole” le sanzioni del governo britannico. È evidente che l’Iran voglia evitarle. E inviare missili alla Russia scongiurando nuove sanzioni dell’Onu: i Fateh-110, e non gli Zolfaghar, in modo da restare nell’ambito della risoluzione che gli impedisce di vendere vettori con gittata maggiore di 300 km. L’Unione europea ha condannato il sostegno militare a Mosca. E ha messo in guardia l’Iran dalle conseguenze legate a una qualsiasi nuova consegna di armi.

Tornando alle accuse della stampa iraniana, “è confermato da molti esperti che la violazione dello Stato di diritto, dell’indipendenza giudiziaria, della libertà di parola e delle proteste legali come elementi principali della vita politica sono sempre utilizzati dal Regno Unito come strumenti per sopprimere – attraverso il dispotismo informativo – i Paesi liberi e indipendenti”. Le violazioni riguarderebbero la politica estera come quella interna. Gli inglesi, in particolare, sono accusati della più grande carestia e disastro avvenuti nella storia dell’Iran quando (tra il 1917 e il ’19) le forze ostili entrarono nel Paese dai confini settentrionali e meridionali – si parla anche del genocidio di circa 6 milioni di abitanti dell’altopiano iraniano.

È una storia, questa, che rimanda ai presunti crimini di guerra commessi dall’esercito ucraino, già a partire dal conflitto del Donbass (2014-15). Le accuse si rimpallano. La situazione incandescente, il risultato che l’escalation non si può arrestare.

Ponte di Crimea, l’ammirazione dei francesi per il video di Putin

Il presidente russo è al volante di una Mercedes. Sta attraversando il ponte di Crimea, che è stato ricostruito dopo l’attentato subito, con un’autobomba, lo scorso otto ottobre (nell’incidente morirono 4 persone): si vede Vladimir Putin, affiancato dal vice primo ministro Marat Khusnullin, indicato dalla televisione pubblica russa. Le immagini, girate nella giornata di ieri 5 dicembre, hanno fatto il giro del mondo, del web; e i media russi enfatizzano l’ammirazione dei francesi per lo stesso video.

Il video avrebbe entusiasmato i lettori del quotidiano francese “Le Figaro”. I quali hanno richiamato l’attenzione sulla velocità con cui Mosca è riuscita a ripristinare le infrastrutture distrutte: il ponte di Kerch che collega la Crimea con il territorio della Federazione russa – aperto al traffico sul lato dove sono state ripristinate le due campate danneggiate dall’esplosione. Putin ha definito quell’incidente un attacco terroristico contro le infrastrutture civili critiche del Paese. Ha parlato di terrorismo internazionale, segnatamente.

La reazione: il ponte di Crimea già ricostruito

Tra i commenti c’è chi sottolinea il fallimento della controffensiva ucraina: “Il presidente ucraino Zelensky deve aver guardato tutto in tv e si è mangiato la camicia. La Russia è riuscita a ricostruire tutto in un periodo di tempo così breve”. Un altro utente ha persino ammirato l’intelligenza del presidente ucraino. Ovvero il fatto che la leadership ucraina e gli Stati Uniti “non sono riusciti a superare Putin”.

La tesi sostenuta della propaganda russa è che le sanzioni antirusse stanno danneggiando solo l’Occidente stesso: “La Russia sta ricostruendo un enorme ponte in poche settimane, e in Europa non riusciamo a pagare i conti. Chi sono allora i danneggiati dalle sanzioni?”. In forza di questa prova c’è chi sentenzia la sconfitta dell’Ucraina. Quindi della Nato e dell’Europa. Il caso dimostra che il malumore è un sentimento diffuso in Francia, e non solo: l’insofferenza degli europei preoccupati dalle ricadute negative della guerra in Ucraina. Gli interrogativi sull’efficacia delle sanzioni alla Russia.

La priorità di Putin? Aumentare l’aspettativa di vita media in Russia

La guerra continua a insanguinare l’Ucraina. A tenere in ambasce l’Occidente, il mondo intero, a turbare il presente, e i sonni di chi non riesce a scorgere tempi sereni. E qual è la priorità di Vladimir Putin? Trovare la via più rapida per porre fine al conflitto che si protrae da nove mesi? Niente affatto. È aumentare l’aspettativa di vita media in Russia. Lo ha dichiarato lo stesso presidente della Federazione Russa. Che così motiva: “Guidando verso il club degli ultraottantenni, questo obiettivo rimane. Sicuramente ci muoveremo e andremo in questa direzione: lo faremo anche con l’aiuto di strumenti di intelligenza artificiale”. Putin parla dell’aspettativa e della qualità della vita come indicatore generalizzato del lavoro dello Stato in tutti i settori, dall’economia alla sfera sociale.

La posizione espressa alla conferenza “Viaggio nel mondo dell’intelligenza artificiale” si colloca sulla scia delle dichiarazioni del presidente del Consiglio di vigilanza dell’Istituto per la demografia, le migrazioni e lo sviluppo regionale Yuri Krupnov, il quale ha parlato del fenomeno dell’inverno demografico. Un problema che riguarda il mondo intero. A dispetto delle varie teorie, previsioni sul pericolo della sovrappopolazione – seconda una stima ufficiale delle Nazioni Unite la popolazione mondiale ha già raggiunto gli 8 miliardi di persone. Per Krupnov il problema principale ora è la “piaga dei bambini piccoli”. Il Fondo pensionistico russo (Pfr) prevede un numero che si aggira tra un milione 385.500 neonati nel 2023 e 1.399.200 nel 2024. Mentre il 2022 potrebbe chiudersi con 1,37 milioni di bambini. Non è un problema invece la longevità della popolazione. E qui Putin da prova di quanto sia contraddittoria la sua natura: noncurante delle vite giovani e giovanissime spezzate in Ucraina, effetto collaterale della “operazione speciale”, come la chiamano ancora i media russi, ha definito nell’aumento dell’aspettativa di vita (da portare a oltre 80 anni) la priorità della Federazione Russa.

Gente dell’altro mondo: i ricchi che spendono 4.500 euro per un piatto di gnocchi

Avete capito bene: mentre i comuni mortali sono alle prese con gli effetti della crisi economica, percepita in tutto il mondo, con le preoccupazioni legate alla guerra in Ucraina, c’è chi naviga nell’oro. Ed è disposto a spendere cifre folli. Ancora oggi, per mangiare cibo non di tutti i giorni. Come i ricchi che spendono 4.500 euro per un piatto di gnocchi. Segnatamente 4.400 dollari, quanto costa, in America, una porzione al ristorante Golden Gates di New York.

Un tuffo nel blu

Il costo è motivato dal caratteristico colore blu dell’impasto che deriva dall’aggiunta di ghiandola di pesce siluro – un ingrediente molto raro. Così, per una porzione di 8 gnocchi bisogna sborsare 2.400 dollari. Chi non si accontenta e vuole una doppia porzione di 16 gnocchi, in modo da uscire dal locale con la pancia piena, almeno, e il portafogli vuoto, può ottenere uno sconto pagando $ 4.400. Buon per la clientela fatta di magnati russi prevalentemente. In Russia, infatti, quel piatto riscuote gran successo. Quello che non ci è dato sapere è se gli stessi russi adesso se lo possono permettere. O se magari devono fare economia, pure loro, e rinunciare alla porzione doppia del cibo più costoso del mondo. Bello da vedere certamente: quell’ingrediente insolito conferisce agli gnocchi una innaturale luce blu-verde.

Il lusso va pagato, come le emozioni

A dispetto dei tempi che corrono, i prezzi esorbitanti nella ristorazione, ai danni dei consumatori, ci sono anche da noi: oltre al caso Briatore, si pensi alla “Mimi la Regina d’oro 24k”, la pizza che, a Jesolo, costa 99 euro. Una invenzione del titolare e pizzaiolo del ristorante Da Robert. La motivazione? “Il lusso va pagato, così come le emozioni diverse che si provano assaggiando l’oro”, ha detto lo stesso titolare, Robert Nedea. Vizi che si possono permettere sempre meno persone. La maggior parte deve tirare la cinghia e aspettare tempi migliori, senza deprimersi troppo. Gli italiani infatti temono di tornare poveri. Come quando, nel primo dopoguerra, un semplice piatto di spaghetti da condire senza troppi fronzoli, era ambito più dell’oro. Altro che gli gnocchi.

Tredicenne scappa di casa, e dorme 3 notti in strada, per incontrare lo youtuber Nischay Malhan

La premessa è che ognuno è libero di inseguire i propri sogni e ideali. Ma se un tredicenne scappa di casa, e dorme 3 notti in strada, per incontrare lo youtuber Nischay Malhan, c’è qualcosa che non va. È la spia di un malfunzionamento alle fondamenta della società. Perché un adolescente dovrebbe essere disposto, se mai, a fare follie per una ragazzina sua coetanea, o per un personaggio pubblico che si è guadagnato fama mettendo a frutto il proprio talento fisico o intellettuale. Viresh Bhushan aveva invece nello youtuber Nischay Malhan la propria stella polare – “Triggered insane”, come viene soprannominato, ha 17 milioni di fan. E ha navigato in un mare di pericoli per incontrarlo.

La traversata

Il fatto è accaduto in India. Lo scorso 4 ottobre: finite le lezioni, il 13enne di Patalia (Punjab) è uscito di scuola e, accompagnato dalla sua bicicletta, per 300 chilometri ha attraversato due Stati. L’obiettivo era arrivare a Delhi. L’influencer però non si trovava nella popolosa città indiana, ma a Dubai. Lo stesso giovanissimo fan ne ha fatto la scoperta dopo aver portato a termine questa impresa sconsiderata – ha dapprima pedalato sull’autostrada, per poi proseguire a bordo di un autobus, caricando la bicicletta sul portabagagli. Non si è arreso. Ha passato infatti tre notti in strada, deciso ad attendere Nischay Malhan fino al suo ritorno a casa.

Il lieto fine, grazie allo stesso youtuber Nischay Malhan

La fuga aveva messo in ansia i familiari. Che hanno allertato la polizia, dopo la scomparsa: VB è stato rintracciato grazie ai successivi messaggi che lo stesso aveva mandato allo youtuber per incontrarlo. Il ragazzino ora avrà bisogno di un supporto psicologico per prendere coscienza di quanto fatto, dei rischi ai quali si è esposto con la bravata, ha preannunciato la mamma, dopo averlo riabbracciato. L’auspicio è che, una volta raggiunta la maggiore età, possa preservare lo spirito di avventura, l’iniziativa ed il coraggio mettendoli al servizio delle più nobili cause.