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Gaza, lo scenario è apocalittico. Ma non se ne può parlare

La denuncia era arrivata da Lynn Hastings. La quale aveva parlato di situazione apocalittica venutasi a creare a Gaza. La pronta risposta di Israele è stata la revoca del visto della donna, coordinatrice umanitaria delle Nazioni Unite. Il provvedimento si colloca nella condotta diffamatoria fatta di abusi verbali e intralcio al lavoro delle organizzazioni e dei funzionari Onu. Così, anche in questo modo, Israele dimostra totale disprezzo per le Nazioni Unite, per il diritto internazionale e per le vite dei palestinesi: lo dichiara l’ambasciata di Palestina in Italia.

Cosa sta accadendo a Gaza

Le truppe dell’esercito israeliano hanno circondato la città di Khan Younis con l’obiettivo di smantellare il centro di comando di Hamas nel Sud della Striscia. I bombardamenti si fanno martellanti: solo nelle ultime ore l’aviazione israeliana ha colpito circa 250 obiettivi nell’enclave. A essere presi di mira sono tunnel e pozzi sotterranei. Oltre a ordigni esplosivi e armi.

Una catastrofe umanitaria

Un milione di sfollati. A piedi o in motocicletta, stipati nei carretti, oppure ammucchiati sui tetti delle loro auto insieme ai bagagli, a fuggire verso Sud sono in migliaia. Il responsabile degli aiuti umanitari dell’Onu ha quindi parlato di situazione apocalittica riferendosi alla impossibilità di svolgere significative operazioni umanitarie. Colpa della campagna militare israeliana, che non si cura di proteggere i civili in fuga da Gaza.

Il bilancio delle vittime palestinesi ha raggiunto e superato quota 16mila. Tanti ne sono morti dall’inizio della guerra, dichiara Hamas – donne e bambini più del 70 per cento. Chi resta soffre anche la carenza di acqua potabile. Il quadro è aggravato dalle conseguenze della crisi climatica. Le falde acquifere, infatti, hanno risentito dell’innalzamento del mare e dell’acqua salata, riferisce la Banca mondiale. Crisi climatica e guerra sono quindi un connubio micidiale. Che non può essere ignorato dalla comunità internazionale.  

Essere pagati per mangiare un gelato dopo l’altro: i lavori che gratificano

Per avere un buon lavoro bisogna studiare. Per essere persone migliori, certamente; ma per campare in questi tempi è meglio fare l’influencer, lo youtuber, o altri lavori bizzarri. Che possono essere gratificanti e, più di una professione intellettuale, remunerativi. Uno di questi è capitato a Paloma Pozanco. La quale ha 25 anni, spagnola di Cadice, e prima di questa esperienza (mangiare il gelato) non aveva mai firmato un contratto di lavoro – ha studiato Legge e sta preparando concorsi.

L’offerta della Nestlé- “Essere pagati per mangiare un gelato dopo l’altro e per di più pagare i contributi previdenziali è incredibile. È un lavoro da sogno”. Così questa giovane donna commenta la mansione che può mettere nel curriculum. Un’occasione da non rendere unica: “Ripeterei l’esperienza un milione di volte”. Immaginiamo che a pensarla in questo modo non sia l’unica. Paloma, infatti, aveva risposto a un annuncio postato su Infojobs lo scorso ottobre, al quale si erano candidati 49.584 persone – un numero record. La “professione” richiesta era quella di tester del gelato Maxibon della Nestlé. Figura che possa assaggiare il gelato che la multinazionale svizzera lancerà nel 2024. La prima persona esterna, che possa fare da cavia, potremmo dire.

L’esperienza fatta dalla giovane le ha fruttato mille euro. Per soli due giorni di lavoro: uno svolto da casa, l’altro in un giardino lontano dalla sua abitazione. Dopo aver degustato il prodotto lo ha recensito. Le sarà piaciuto? Una pillola amara, quel gelato remunerativo, non è stata di sicuro.

Dal gelato alla musica: il “cool jobs”- Un’offerta simile è la ricerca di un tester per il Wizink Center. Persona che dovrà assistere ai concerti di artisti spagnoli, come Melendi e Aitana Lopez: l’obiettivo è migliorare il rapporto tra cantanti e fan. L’impegno stavolta dura tre giorni e frutta sempre 1.000 euro. L’offerta viene sempre da Infojobs, che mette in evidenza il “cool jobs”, attirando migliaia di candidature. I lavori collocati in questa iniziativa saliranno a cinque nel prossimo mese.

Usa, dai fondi di caffè la speranza per la cura di Parkinson e Alzheimer

È stata definita una delle sfide più complesse per il secondo Paese più longevo al mondo, qual è l’Italia. Una malattia che spaventa: l’Alzheimer. Parimenti il Parkinson. Malattie neurodegenerative per le quali non esiste una cura attualmente. La ricerca, però, non si arresta, ed è vicina a un punto di svolta. La speranza viene dai Quantum Dots di carbonio a base di acido caffeico, realizzati con gli scarti di una tazza di caffè, i quali si sono dimostrati promettenti nel trattamento dei disturbi neurodegenerativi. 

I ricercatori statunitensi hanno scoperto che questi farmaci a basso costo hanno contribuito a proteggere dagli effetti del Parkinson in esperimenti provetta quando la malattia era causata da un pesticida chiamato paracqua. L’auspicio è che lo stesso trattamento possa essere utilizzato anche per aiutare le persone nelle prime fasi della demenza, per evitare che la malattia progredisca ulteriormente. La conferma viene da Jyotish Kumar. “I Cacqd hanno il potenziale per essere trasformativi nel trattamento dei disturbi neurodegenerativi”, ha dichiarato lo studioso dell’Università del Texas a El Paso.

La mission: cercare una cura per Parkinson e Alzheimer

Lo stesso Jyotish Kumar ha chiarito che nessuno dei trattamenti attualmente in uso risolve le malattie. Si può soltanto gestire i sintomi. “Il nostro obiettivo è trovare una cura affrontando le basi atomiche e molecolari che guidano queste condizioni”. È importante intervenire nella fase iniziale dei disturbi. Che causati da fattori ambientali o da stili di vita, presentano caratteristiche comuni, come gli elevati livelli nel cervello di radicali liberi – molecole dannose note per contribuire ad altre malattie, anche tumorali. Ebbene, nello studio condotto si è dimostrato che i Cacqd sono stati in grado di rimuovere i radicali liberi o di impedire che gli stessi causassero danni, e che hanno inibito l’aggregazione dei frammenti di proteina amiloide senza causare effetti collaterali significativi.

La conclusione

Il team ipotizza che negli esseri umani, nella fase iniziale di una patologia come l’Alzheimer o il Parkinson, un trattamento a base di Cacqd possa essere efficace nel prevenire la malattia vera e propria. Per questo è fondamentale intervenire nella fase embrionale. Ovvero affrontare questi disturbi prima che raggiungano la fase clinica, perché non si debba essere costretti a fare il miracolo. Viene altresì sottolineata la peculiarità dell’acido caffeico. Che può penetrare la barriera emato-encefalica, al punto da esercitare i suoi effetti sulle cellule del cervello.

Russia, la qualità della vita migliora: indicatori record nel settore dell’edilizia

I numeri si riferiscono al periodo in cui infuria inarrestata la guerra in Ucraina. E sembrano andare nella direzione contraria alle sanzioni inflitte dall’Occidente, dall’Alleanza Nato e dall’Unione europea, volte ad indebolire l’economia della Russia. Buon per la popolazione, se sul piano dell’edilizia quasi 7 milioni di cittadini miglioreranno, entro la fine dell’anno, le loro condizioni. L’annuncio viene da Vladimir Putin in occasione dell’incontro tenuto il quattordici novembre con il capo del Ministero delle Costruzioni Irek Faizullin.

Edilizia, la crescita della Russia

“Nel 2023 abbiamo migliorato le condizioni abitative di 7 milioni di persone, cioè 3,2 milioni di famiglie. Abbiamo reinsediato quasi 2 milioni di metri quadrati di alloggi di emergenza -1,8 milioni di metri quadrati, pari a 104,4mila persone”. Così Putin nel suo intervento di apertura. “E abbiamo migliorato 7031 spazi pubblici”, ha aggiunto il presidente della Federazione russa. Gli fa eco lo stesso ministro per il quale quest’anno si prevede la messa in funzione di un numero record di 104-105 metri quadrati di abitazioni – già raggiunti gli 83,6 milioni di metri quadrati secondo Putin. Dalla costruzione di edifici al reinsediamento degli alloggi di emergenza, dal programma di riparazione, ripristino e ammodernamento delle infrastrutture al recupero delle strutture presenti nelle nuove regioni: i temi al centro dell’incontro, affrontati dal ministro e dal presidente russo. Mentre si intensificano gli interventi anche sul piano della manutenzione.

Al netto dei numeri, il dato che emerge è la tenuta del Paese. Mentre la guerra, laddove è combattuta (ad oltranza in Ucraina), rivela la propria forza distruttiva del tessuto economico. E non soltanto nel settore dell’edilizia. Anche il primo cittadino di Mosca Sergey Sobyanin aveva già dichiarato che solo nella capitale, dall’inizio del 2023, sono stati costruiti e messi in funzione 10,7 milioni di metri quadrati di immobili, di cui la metà sono abitazioni.

Lizzi Jordan, dalla cecità ai sogni di gloria

Il male che non ti uccide ti fortifica. E Lizzi Jordan ci è andata vicina alla morte, prima di dare alla propria vita una imprevedibile, insperata, svolta. Si è riscoperta atleta lanciata verso traguardi da sogno. Che sono alla portata di una persona dal potenziale enorme, sottolineato dalla sua allenatrice: la campionessa paralimpica Helen Scott. Un potenziale sviluppato rapidamente da chi vuole dare il massimo e fare sempre meglio.

Il dramma di Lizzi Jordan

Una serata come tutte le altre: è il 2017 quando la 19enne studentessa di psicologia alla Royal Holloway, University of London, consuma un pasto al fast food. Fa l’esperienza di una intossicazione alimentare causata da un raro ceppo di batterio E. La conseguenza è il coma, la lotta per la sopravvivenza. Lizzi Jordan si risveglia ma priva della vista. Una botta tremenda.

A confidarlo lei stessa, in una intervista rilasciata a BBC Sport: “Ero molto, molto malata. Ho sofferto di un’insufficienza multipla degli organi e i medici hanno avvertito i miei genitori in diverse occasioni che avrei potuto non farcela”. “Ma grazie all’uso di un farmaco raro e costoso, sono riusciti a farmi uscire dal coma”, continua LJ ricordando quanto sia stato terrificante il risveglio da cieca. Nella sua mente l’interrogativo che chiunque si farebbe senza trovare risposta (“Come farò a vivere la mia vita senza la vista?”). Immaginiamo gli attimi di terrore diventati giorni. Poi la svolta: “Mi sono detta, ho due opzioni: posso starmene seduta a piangermi addosso, oppure posso provare a fare qualcosa della mia vita e magari realizzare qualcosa che non avrei fatto nemmeno se avessi avuto la vista”. Ha scelto la seconda.

La rinascita attraverso lo sport

Un passo alla volta, Lizzi Jordan ha dapprima imparato a camminare, poi ha corso: ha preso parte alla Maratona di Londra nel 2019, raccolto 13mila sterline per l’associazione RNIB. Quindi l’incontro con la bicicletta. Una compagna con la quale non andare a spasso, ma lavorare duramente. Ai test effettuati nel 2020, in una giornata organizzata dal British Cycling per la scoperta di nuovi talenti, ha impressionato positivamente, sebbene prima di diventare cieca avesse a malapena guidato una bicicletta. Si è data all’agonismo conquistando la medaglia d’oro ai Campionati del Mondo 2023 di Glasgow. E pure il bronzo nel tandem kilo, insieme ad Amy Cole, ciclista vedente – l’argento al Campionato mondiale di paraciclismo su pista UCI lo scorso anno. Il suo obiettivo adesso è far parte della squadra di paraciclismo della GB alle Paralimpiadi di Parigi nel 2024. Una sfida che intende vincere, per continuare ad imparare da un’intensa e non comune esistenza. Naturalmente la donna ha già imparato dalle persone alle quali può fare affidamento. Ma vuole rendersi anche autonoma: si è iscritta a un corso di formazione per fare uso di un bastone bianco. “Mi cambierà la vita”, dice, come se non avesse preso coscienza di quanto di straordinario sta già facendo ponendosi come modello virtuoso, punto di riferimento in tutto il mondo.

Giochi mondiali dell’Amicizia 2024, l’ultima trovata di Putin

Lo abbiamo visto proporsi persino come mediatore nel conflitto in Medio Oriente tra Israele e Hamas chiedendo il cessate il fuoco, la fine delle ostilità. Come se solo lui fosse titolato a far la guerra, in corso contro l’Ucraina. Adesso Vladimir Putin punta anche sullo sport per riabilitarsi a livello internazionale. Ma in totale autonomia, senza alcuna richiesta di approvazione da parte delle federazioni internazionali, ha firmato il decreto per lo svolgimento di una competizione che si terrà il prossimo anno. Significativo che l’abbia denominata Giochi mondiali dell’Amicizia. A voler intendere lo sport come strumento di riconciliazione tra nazioni e popoli.

Giochi mondiali dell’Amicizia

Le competizioni “World Friendship Games” si terranno a Mosca e a Ekaterinburg nel prossimo mese di settembre. Nascono per garantire il libero accesso degli atleti e delle organizzazioni sportive russe alle attività sportive internazionali, lo sviluppo di nuove forme di cooperazione sportiva internazionale. Lo si chiarisce nel documento varato. I Giochi mondiali dell’Amicizia dovrebbero tenersi ogni quattro anni. Secondo il format delle Olimpiadi, che si terranno a Parigi nel 2024, e che vedranno l’esclusione della Russia verosimilmente, a causa dell’invasione dell’Ucraina bollata come un’infamia. La competizione russa, la cui prima edizione partirà il mese dopo, comprenderà 30 sport, dei quali 20 olimpici. E  chiamerà a raccolta circa 10mila atleti – potrebbero essere inserite altre 14 discipline sportive. Ad annunciarlo è stato lo stesso Putin a margine del forum internazionale “La Russia è una potenza sportiva” tenutosi a Perm. Ricordiamo che il presidente della Federazione russa è uno sportivo, praticante delle arti marziali: mal deve digerire l’isolamento subito anche in questo ambito. È dal 2022, infatti, che vige il divieto di organizzare in Russia competizioni internazionali. Decisione che non tutti i Paesi condividono.

L’altro mondo

Putin si è rivolto alla sua popolazione dichiarando che uno degli obiettivi del Paese in ambito sportivo è quello di attirare il 70 per cento dei russi verso lo sport entro il 2030. Ha inoltre evidenziato i segni di degenerazione che lo sport internazionale, “molto commercializzato e politicizzato” sta mostrando: per contrastarli egli promuove la creazione di nuove leghe e associazioni che “mineranno il sistema di monopolio stabilito dall’ufficialità internazionale”. Putin, insomma, sa che i rapporti con l’Occidente sono irrimediabilmente compromessi, almeno nel medio termine; e cerca di correre ai ripari inventandosi altro. Ai Giochi mondiali dell’Amicizia i Paesi cosiddetti ostili non potranno di certo prendere parte. Gareggeranno invece gli atleti delle Nazioni membri dell’Alleanza politica: Brasile, India, Cina e Sudafrica, insieme alla Russia. Ma anche Pakistan e gli ex Stati sovietici dell’Asia centrale, Kazakhstan, Kirghizistan, Tajikistan e Uzbekistan. L’auspicio è che entro quella data nuove inimicizie non vengano a nascere precarizzando ulteriormente gli equilibri mondiali.

Terremoto Afghanistan, l’emergenza ignorata dalla comunità internazionale

“La devastazione è totale. Ci sono villaggi completamente distrutti, perché le case, fatte di fango e paglia, sono crollate completamente a causa del terremoto; quando si passa di lì, si può vedere che molti dei morti sono sepolti con le pietre”. A tratteggiare questo quadro inquietante è Thamindri de Silva. Il quale, direttore generale dell’Ong World Vision in Afghanistan, prova a spostare l’attenzione su quanto sta accadendo in un Paese scosso da una nuova emergenza comunitaria: il terremoto, o meglio l’ondata sismica, di magnitudo compresa tra 5.5. e 6.3, verificatasi sabato scorso 7 ottobre.

L’assistenza che manca

La catastrofe ci riporta al terribile post terremoto che ha colpito la Turchia e la Siria, lo scorso febbraio, facendo circa 60mila vittime. Allora, però, c’era l’ausilio della tecnologia utilizzata in quell’area, e il supporto dei tanti Paesi che inviarono squadre di emergenza. A denunciarlo, sulle pagine del quotidiano spagnolo El Pais, il responsabile delle comunicazioni dell’Unicef in Afghanistan, Daniel Timme. Il quale aggiunge che tutto è molto più improvvisato. E che c’è il sostegno di due Paesi soltanto: l’Iran e la Turchia. Gli aiuti alla popolazione arrivano dalle Ong locali e internazionali. Che devono fronteggiare la scarsa assistenza internazionale. Come ha dichiarato lo stesso de Silva, l’Afghanistan ha ricevuto soltanto il 20 per cento degli aiuti internazionali di cui necessitava prima del terremoto; e il timore è che quanto sta accadendo nel resto del mondo, soprattutto il conflitto di Gaza, mettano in ombra il nuovo disastro verificatosi nel Paese, e le emergenze umanitarie che lo stesso ha generato.

Terremoto in Afghanistan, la terra trema ancora

Nelle scorse ore, intanto, una nuova forte scossa di magnitudo 6,3 ha colpito la parte occidentale del Paese. Segnatamente l’area limitrofa alla città di Herat, vicino all’epicentro del terremoto di sabato scorso. Le vittime sono circa 2.400 in totale. Donne e bambini, in particolare. Altrettanti i feriti, secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero della Sanità pubblica afghano – a oltre 72 ore dalla catastrofe, diminuiscono sempre più le probabilità di ritrovare persone in vita. Lo riportano anche i Talebani, che da oltre due anni hanno ripreso il potere in Afghanistan. Gli stessi hanno incontrato le Ong per coordinare l’assistenza umanitaria. A tal fine, per aiutare la popolazione locale, alle donne viene concesso di lavorare di più. Temporaneamente, sia chiaro: l’emergenza lì, nella terra abbandonata nel 2021 dagli americani, è vissuta in tutti gli altri giorni dell’anno, in termini di mortificazioni e di violazione dei diritti umani.

Addio al fumo: le nuove generazioni sono più intelligenti e virtuose

Fumare nuoce gravemente alla salute. È risaputo quanto riporta proprio il pacchetto di sigarette nel monito rivolto al consumatore: un paradosso destinato ad avere fine, l’acquisto di ciò che si trova in tabaccheria. Almeno nel nord  Europa. Si pensi alla Nuova Zelanda che, seguita a ruota dal Regno Unito, è il primo Paese al mondo ad introdurre leggi volte a impedire alle nuove generazioni di darsi al vizio del fumo.

I numeri in fumo

In Nuova Zelanda è stato raggiunto un minimo storico: attualmente soltanto l’8 per cento della popolazione fuma. Numeri incoraggianti anche nel Regno Unito. A fumare, infatti, è circa il 12,9% degli adulti. Tuttavia va sottolineato che il fenomeno del vaping non è in crisi. Anzi, i fumatori di sigarette elettroniche aumentano. Tra gli adulti britannici la percentuale si attesta sull’8,7%.

Un tabù per i minori

Il primo ministro del Regno Unito Rishi Sunak ha dichiarato che i bambini sotto i 14 anni non potranno mai acquistare legalmente sigarette nel corso della loro vita. Lo ha detto intervenendo alla conferenza del Partito Conservatore del 2023 a Manchester. Con questa motivazione: “Dobbiamo affrontare la più grande causa interamente prevenibile di malattia, disabilità e morte. E questo è il fumo, e il nostro Paese”. Così diventerà illegale vendere tabacco a chiunque sia nato dopo il 2008. Per tutti gli altri, per i fumatori più incalliti, sarà raccomandato il passaggio alle sigarette elettroniche. Che pure provocano dipendenza da nicotina e numerosi problemi alle vie respiratorie. Il premier, infatti, ha preannunciato di voler mettere al bando i vapes con confezioni e aromi pensati per attirare i giovani.

Step by step

Per liberarci delle sigarette, una volta per tutte, il primo passo è l’innalzamento dell’età legale. Già fatto: per fumare oggi bisogna essere maggiorenni, prima del 2006 il fumatore poteva avere 16 anni. Si potrebbe alzare l’età legale ad almeno 22 anni. Perché al di sopra di quell’età, come conclude un recente studio giapponese presentato al congresso della Società europea di cardiologia (Esc), è meno facile acquisire la dipendenza dal fumo. E liberarsene meno difficile. Per aiutare il governo a raggiungere questo obiettivo, l’All-party parliamentary group (Appg) ha definito dodici passi. Alleati preziosi insieme alla proposta di legge che potrebbe portare alla svolta storica. A fare del Regno Unito, entro il 2040, il primo Paese “libero dal fumo”. Un modello virtuoso da emulare tra gli Stati membri dell’Unione europea.

Per non dimenticare: i danni del fumo

Ogni anno il fumo uccide più di 8 milioni di persone. Segnatamente 7 milioni di fumatori attivi, e circa 1,2 milioni di soggetti esposti al fumo passivo – fonte Oms. Per tanti la sigaretta rappresenta una compagna amica. Qualcuno azzarda persino dei benefici, sui livelli di attenzione, in abbinamento al consumo di caffeina. Nessuno nega il fascino che la sigaretta ha esercitato per decenni, particolarmente attorno alla figura maschile (la puzza mal si concilia con la bellezza e con la grazia nella donna), ma in un mondo minacciato da nuove e gravi crisi, non possiamo più permetterci alcun atto di autolesionismo.

Segnali di disgelo attraverso l’abbigliamento: OVS apre a Mosca

La guerra infuria in Ucraina. E l’escalation continua, stando alle ultime dichiarazioni di Vladimir Putin, c’è poco da stare tranquilli: il presidente della Federazione russa ha minacciato l’utilizzo di nuove armi chimiche, in produzione. Una notizia interessante che potrebbe prestarsi ad una lettura positiva è invece il ritorno di OVS nel mercato russo.

L’annuncio è stato dato da Natalia Kermedchieva: “Aviapark, Evropeisky, Oceania e Salaris sono già stati aperti. Columbus e TsDM sono in arrivo; all’inizio il marchio ha sviluppato solo la categoria dei bambini, poi ha aggiunto quella degli uomini e delle donne”. “Scommetto che il marchio si svilupperà a un ritmo moderato, cioè aprirà prima 3-7 negozi a Mosca e a San Pietroburgo. Poi si valuterà l’aspetto economico”, ha aggiunto la responsabile dei nuovi marchi presso l’Unione dei centri commerciali (STC)

Il numero non trova conferma. Ma, secondo quanto riferiscono alcune fonti, il gruppo leader in Italia nel mercato dell’abbigliamento OVS avrebbe intenzione di aprire più di cinquanta negozi. Si stima un investimento di oltre 200 milioni di rubli. L’investimento fa il paio con quello preannunciato da Decathlon: l’azienda francese specializzata in articoli sportivi a accessori per lo sport prevede di aprire in Russia il prossimo quindici novembre con il nuovo nome AllDoSport. Un avvio con pochi prodotti inizialmente. Chi ha già ripreso la collaborazione con il Paese in guerra contro l’Occidente è il marchio americano Tommy Hilfiger, che ha aperto il suo primo negozio nel centro commerciale Aviapark di Mosca.

A partire dal febbraio 2022, quando è cominciata la guerra in Ucraina, alcune aziende avevano sospeso le attività o abbandonato il mercato russo. Le stesse hanno poi cambiato atteggiamento. Al punto che, il 19 settembre 2022, il ministro dell’industria e del commercio Denis Manturov aveva dichiarato che le aziende straniere sono ora interessante a continuare le operazioni, o a garantire le condizioni per il loro ritorno. Insomma, il linguaggio dei soldi, il business, legano più delle armi ancora inviate per la difesa di un popolo in forte sofferenza.

Spie glamour invadono la Gran Bretagna e gli Stati Uniti: l’altra guerra di Putin

Nella storia sono sempre esistite. Si pensi ad Elsbeth Schragmuller, a Mata Hari, Edith Cavell o Marthe Richard: agli anni della Prima guerra mondiale (1914-1918) quando lo spionaggio dovette aprirsi al mondo dei civili. Figure che non hanno recitato solamente in parti minori. Così anche Vladimir Putin, nella guerra aperta contro l’Ucraina, allargata ai Paesi che gli sono ostili, fa ricorso a un esercito di spie. Donne attraenti con le quali potrebbe aver inondato la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Lo riporta il quotidiano britannico The Sun. La conferma viene dalle operazioni della polizia che, il mese scorso, ha smascherato il presunto giro di spie russe, a Londra e nella città di Great Yarmouth nel Norfolk.

Come agiscono le spie

Nessuna novità, potremmo dire, alla luce di quanto già accaduto. L’elemento innovativo, in una guerra che si combatte non soltanto per mezzo delle armi convenzionali e con i missili, sta nell’esistenza di vere e proprie scuole di seduzione in Russia, dove le avvenenti spie imparano le tecniche utili alla causa della Federazione russa.

Ad essere presi di mira sono personalità militari e politiche. Uomini che le spie glamour approcciano allo scopo di ottenere informazioni. Le stesse si impegnano a condurre una vita normale, rivela l’ex spia Philip Ingram; ma in realtà “lavorano” le loro vittime – si ritiene che centinaia di “madame” gestiscano reti di spie in diverse città della Gran Bretagna e di altri Paesi in Europa. Il loro lavoro consiste nel prendere parte ad eventi e a feste dove possono fare le conoscenze giuste. Ciò accade sin dai tempi della Guerra Fredda quando le spie raggiungono bar, ristoranti e locali notturni, si avvicinano a uomini e donne di mezza età soprattutto, con l’intento di ricattare i funzionari per ottenere segreti.

Le insospettabili: i casi noti

Tra le spie glamour più famose ci sono Anna Chapman, la rossa dai capelli di fuoco, che ha lavorato come agente dormiente per la Russia negli Stati Uniti; la “gioielliera” Maria Adele Kuhfeldt Rivera, che è stata agente del GRU al servizio della Russia (lo ha rivelato lei stessa, l’anno scorso), e prima di essere identificata come Olga Kolobova, è stata legata sentimentalmente ad alti ufficiali statunitensi e di altri Paesi Nato. Ciò è avvenuto in Italia, a Napoli. Tra i cinque cittadini bulgari accusati di spionaggio per la Russia c’è Vanya Gaberova, estetista che gestiva il salone Pretty Woman ad Acton a Londra: agli occhi di chi la conosceva era una donna normale, discreta e timida. Sono donne che potrebbero non aver fatto le “scuole di seduzione” ma che hanno imparato sul campo il mestiere. Come ha confidato lo stesso Philip Ingram, le aspiranti spie da reclutare e mandare in giro devono possedere determinati requisiti, e vengono esaminate per vedere se sono “disposte a spingersi un po’ più per la Madre Russia”.

In definitiva, l’utilizzo delle spie glamour rappresenta un’arma in più in uso a Putin, che può conoscere le abitudini altrui, e fare leva sulle debolezze del nemico.

Undici settembre, la catastrofe che è costata agli Usa oltre 5.800 miliardi

Una ferita sempre aperta. Che non si può rimarginare: con gli stessi sentimenti di sgomento, di dolore e incredulità, il mondo ricorda gli attentati alle Torri Gemelle del World Trade Center di New York dell’undici settembre, per il 22esimo anno. Il primo dei quattro aerei di linea dirottati, schiantatosi sulla Torre nord a circa 750 km/h, tra il 93° e il 99° piano, ha dato una svolta alla storia contemporanea. Erano le 8.46 (14.46 in Italia) di quella che sembrava essere una splendida giornata. A tutti i livelli, le ricadute della catastrofe sono state importanti. E magari nemmeno immaginabili.

Le spese militari

Tra il 2001 e il 2022 gli Usa hanno speso oltre 5.800 miliardi di dollari. La cifra viene dalle stime del Watson Institute della Brown University; alla stessa vanno aggiunti i costi di cura dei veterani – almeno altri 2.200 $ stimati fino al 2050. All’indomani degli attentati dell’undici settembre l’obiettivo era l’uccisione di colui che fu riconosciuto come il principale responsabile. Ovvero di Osama Bin Laden (1957-2011). La morte del fondatore e leader di Al Qaeda non ha portato, però, a risultati concreti nella lotta alla stessa organizzazione terroristica internazionale. La riprova sta nel ritiro delle truppe statunitensi e della coalizione Nato dall’Afghanistan, avvenuto nel maggio 2021. Azione che, di fatto, ha dato lo Stato in pasto ai talebani. Le operazioni militari si collocavano nella mission denominata nation building. Miravano, cioè, alla costruzione di uno Stato afghano che rispettasse i criteri della democrazia e della stabilità. Oltre alle risorse impiegate sul piano bellico si pensi a quanto speso in sicurezza nel sistema di prevenzione di nuovi attentati. Perché da quel giorno l’intero Occidente si è sentito e continua a sentirsi sempre più vulnerabile.

Undici settembre, il valore della Memoria

Ricordare significa dare giustizia alle vittime e ai loro familiari. Circa 3000 i morti accertati, dalla mattina degli attentati nel cuore della Grande Mela agli ultimi anni, a causa delle patologie sviluppate, correlate allo stesso evento drammatico. La lista è sconfinata, e ancora aggiornata: nelle scorse ore il corpo dei vigili del fuoco ha aggiunto 43 nomi nuovi; le autorità di New York hanno dato un nome ad altre due vittime delle stragi, identificati grazie a un test avanzato del Dna. Tecniche all’avanguardia hanno permesso di non lasciare ignote alcune delle persone che se ne sono andate. Così la tecnologia (almeno quella) ha fatto progressi utili all’umanità. Tuttavia, va considerato che ancora il 40 per cento delle vittime totali resta non identificato. Il memoriale dell’undici settembre ha raggiunto persino Marte. Artefici dell’impresa i rover Spirit e Opportunity che vi hanno portato un ricordo interplanetario per le vittime degli attentati. Una lezione di umanità. Un messaggio che agli extraterrestri in giro per la galassia può dire quanto siamo stupidi noi mortali, capaci di farci del male; ma pure di trovare la via della rinascita e del riscatto.

I 159 anni della prima Convenzione di Ginevra: la vita è sacra sempre

Reiterare l’impegno a tutela dei diritti delle vittime nelle guerre e promuovere la cultura del rispetto. È questa la mission nel ricordo della prima Convenzione di Ginevra – il 159 anniversario della nascita ricorre oggi, ventidue agosto. I diritti da tutelare includono quelli dell’assistenza a feriti e malati, il riconoscimento del prezioso lavoro offerto dalle strutture sanitarie e dal personale medico.

La sacralità della vita sotto la minaccia costante della guerra

“Ancora oggi assistiamo a numerose violazioni del Diritto internazionale umanitario (Diu) che minacciano pesantemente la protezione dei civili, nonché di tutti gli operatori umanitari e il personale medico impegnati a salvare vite umane”. Lo ha detto il presidente della Croce Rossa Italiana Rosario Valastro. Ricordando le parole di Henry Dunant, che sono un vivo monito nel presente: la vita è sacra sempre. Lo è anche in mezzo agli orrori della guerra. Laddove il virus della bestialità annebbia la mente e indurisce i cuori, sino alla sconfitta dell’umanità.

Prima convenzione di Ginevra

Sei erano le convenzioni negli anni che precedettero la prima e la seconda guerra mondiale. La Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei militari feriti in guerra fu adottata il 22 agosto 1864 a Ginevra. Ad ispirarla fu lo stesso Henry Dunant, il quale fu impressionato dalle sofferenze inflitte a 40mila soldati durante la battaglia di Solferino, che nel 1859 contrappose l’esercito francese a quello austriaco. Promotore dell’iniziativa fu il Comitato Internazionale della Croce Rossa. Fattasi conoscere nel 1863, la “Società Ginevrina per il Benessere Pubblico” raccolse i rappresentanti di 11 Paesi europei, e degli Stati Uniti d’America, con l’obiettivo di salvare vite umane e prevenire o alleviare le sofferenze. Oltre all’Italia firmarono: Spagna, Prussia, Francia, Portogallo, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Assia, Baden, Confederazione Svizzera e Wurtemburg. Mentre i rappresentanti di Inghilterra, Sassonia, Svezia e Stati Uniti non ebbero poteri di firma.

I valori

In linea di principio, la prima Convenzione di Ginevra dovrebbe tutelare tutte le persone “non combattenti”. Ovvero quanti sono vittime di conflitti che non vorrebbero minimamente. In realtà, come già denunciato più volte, tale principio non viene applicato quotidianamente in tutto il globo, nelle aree più disagiate particolarmente. Laddove non vengono garantiti i principi fondanti della stessa Convenzione di Ginevra, che sono sette: umanità, imparzialità, neutralità, indipendenza, volontarietà, unità e universalità. Valori che sono il faro della Croce Rossa.

Le quattro Convenzioni del 1949

Attingendo a quegli accordi e a quei valori, all’indomani della Seconda guerra mondiale (1939-1945) si tenne una conferenza internazionale, sempre a Ginevra, presieduta dal consigliere federale Max Petitpierre. L’iniziativa nacque dall’esigenza di compiere maggiori sforzi nella direzione della tutela delle vittime di guerra. Le quattro Convenzioni ratificate universalmente vennero poi integrate da tre protocolli aggiuntivi nel ’77 e nel 2005. Tutto questo rappresenta le fondamenta del diritto internazionale consuetudinario valido per tutti gli Stati e le parti in conflitto nel mondo.

Crisi climatica: la riprova che ci interessano solo i problemi di casa nostra

Incendi e devastazioni, precipitazioni intense e caldo record: in questi giorni non si parla d’altro che di clima, in piazza e tra i media. Di eventi meteo estremi dalle conseguenze catastrofiche. I riflettori sono calati su altre tragedie, contesti di crisi, sul piano nazionale e internazionale, come la guerra in Ucraina. E ancor meno si parla degli altri conflitti in corso – pensiamo a quello che sta insanguinando il Sudan, da oltre cento giorni. La dimostrazione che ci interessa ciò su cui abbiamo interessi di natura economica. Ora il clima, ora gli intrecci che legano l’Occidente e l’Europa all’Ucraina, alla Federazione russa.

Crisi in Sudan

Una guerra che ha superato i cento giorni. La pace appare ancora lontana in Sudan, dove cresce il numero delle vittime: i rifugiati nei Paesi confinanti sono oltre 740mila. Tanti gli sfollati. Dall’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) è arrivato l’appello per chiedere la fine dei combattimenti. Ma senza soluzione di continuità, l’escalation continua. A farne le spese sono soprattutto i bambini. Secondo quanto denunciato dall’Unicef, sono almeno 435 i piccoli uccisi, e più di duemila quelli rimasti feriti. Gli ospedali sono al collasso. Tanto che il 68 per cento delle strutture è stata costretto a sospendere il servizio, nelle aree più colpite. Il conflitto ha avuto inizio il 15 aprile scorso, ricordiamo. E vede contrapposti i due gruppi di membri del Consiglio di sovranità di transizione: l’esercito sudanese contro le Rapid Support Forces.

Quando la guerra diventa un problema

Più della violazione dei diritti umani, altro finisce dentro il dibattito… Il Sudan è il secondo Paese al mondo per esportazione di gomma arabica. Si tratta di una materia prima molto utilizzata nell’industria alimentare, cosmetica e farmaceutica. Il commercio di questa sostanza si è interrotto con la guerra. Alcune aziende internazionali, come quelle che producono Coca-Cola potrebbero risentire negativamente del deficit di gomma arabica, la quale può essere sostituita come ingrediente nella produzione di cosmetici, ma non in quella delle bevande gassate. Difficile ipotizzare la crisi di queste aziende. Ma quantomeno, il rischio ha acceso i riflettori su una guerra che potrebbe far collassare il continente intero, l’Africa. Allora sì che la questione ci interesserebbe.

Clima, dalle parole ai fatti

Un vizio tipicamente italiano è la gestione dell’emergenza. A catastrofe ormai avvenuta: poco o niente si fa nella prevenzione. Ci occupiamo dell’emergenza. E nel caso del clima, la comunità adesso è divisa tra fanatismo e negazionismo: tra quanti vorrebbero veder riconvertito il sistema produttivo economico, con la bacchetta magica, e coloro che non negano il cambiamento climatico (sarebbe folle), bensì la sua origine antropica. L’auspicio è che le posizioni trovino un punto di incontro e si mettano in campo soluzioni concrete e immediate nell’azione di contrasto al processo irreversibile del cambiamento climatico.

Rai News: studentesse avvelenate in Afghanistan, è la prima volta da quando ci sono i Talebani

Un titolo che colpisce. Quello realizzato dai giornalisti di Rai News mette l’accento sulla “prima volta” di un avvelenamento tra studentesse afghane, da quando in Afghanistan ci sono i Talebani al potere – agosto 2021. Niente da eccepire. È corretto, l’articolo. Ma è come se il nostro sguardo, centrato sulla guerra in Ucraina, dove sono concentrate le nostre risorse e ogni sforzo, fosse incapace di dirigersi altrove. Alle atrocità e violenze ben note.

Gli attacchi in Afghanistan

Almeno 82 ragazze afghane sono state ricoverate in ospedale dopo essere state avvelenate in due scuole nel nord del Paese, nella provincia di Sar-e-Pol. L’attacco arriva dopo l’ultimo colpo talebano inflitto ai diritti fondamentali della persona. Ovvero il divieto all’istruzione, imposto a dicembre scorso. Colpite le donne che non possono frequentare la scuola secondaria e l’università. I responsabili degli attacchi restano sconosciuti, per ora. Il primo è avvenuto sabato scorso: ha colpito 56 studentesse, 4 insegnanti, di cui 3 donne, un padre e due custodi. Il secondo avvelenamento si è verificato il giorno dopo. Colpite altre ragazze, ventisei, e quattro insegnanti. Lo riporta l’agenzia di stampa Efe. Segnatamente, secondo quanto riferito da un funzionario dell’istruzione locale, Mohammad Rahmani, 60 ragazze sono state avvelenate nella scuola Naswan-e-Kabod Aab e altre diciassette nella Naswan-e-Faizabad, nel distretto di Sangcharak.

Un lungo avvelenamento

“Nessuno parla di salute mentale. È come se le persone venissero avvelenate lentamente. Giorno dopo giorno, le giovani e i giovani stanno perdendo la speranza”. È il monito contenuto nel reportage della BBC. Lavoro fresco di pubblicazione, che accende i riflettori sul dramma vissuto in Afghanistan dalla popolazione. Il malessere è così diffuso da generare una vera e propria “pandemia di pensieri suicidi”. Lo confidano le stesse ragazze, costrette a convivere con ansia e depressione. La conferma viene dai medici che parlano di decine di richieste di aiuto ricevute ogni giorno. Due terzi degli adolescenti riportano sintomi di depressione. Lo attesta uno studio condotto nella provincia di Herat dall’Afghanistan Center for Epidemiological Studies, pubblicato a marzo scorso.

Come in Iran

L’attacco succede a un’ondata di avvelenamenti in massa di bambine in Iran. Centinaia gli studenti di oltre novanta scuole che, nei mesi scorsi, sono finiti in ospedale a causa dell’uso di gas velenoso – il 16 marzo scorso se n’è occupato il Parlamento europeo. Tra le province colpite, la capitale Teheran. Le autorità iraniane avevano minimizzato l’accaduto attribuendolo a fughe di monossido di carbonio. Poi però, per impulso della pressione della popolazione, è stata aperta un’indagine sulla “possibilità di atti criminali e premeditati”. La paura ha preso il sopravvento, ad ogni modo. Tanto che molte famiglie hanno deciso di non mandare a scuola le figlie. E diverse scuole di Qom, la città santa sciita, sono state costrette a chiudere.

Il fenomeno delle case a 1 euro in Sicilia conquista gli inglesi

Non solo catapecchie. Le case a 1 euro possono rivelarsi un vero affare, una volta fatte oggetto di ristrutturazione. Lo è stato per Hussai Ramzan. A riportare la storia, il quotidiano britannico The Sun: l’immobile è stato acquistato a Mussomeli, comune del libero consorzio comunale di Caltanissetta in Sicilia. L’inglese 31enne originario del Portogallo e residente a Watford, ha dichiarato l’intenzione di raggiungere la sua casa ogni anno nella stagione estiva. Ma anche in inverno, insieme alla moglie e ai tre figli.

Case a 1 euro

L’obiettivo del progetto nato nel 2019 è quello di arrestare lo spopolamento dell’area e di incoraggiare i turisti stranieri. Un’iniziativa sempre più condivisa. Perché il ripopolamento dei piccoli paesi, e la riqualificazione dei centri storici, rappresentano in tutto il Paese un’importante sfida. Va sottolineato che tanti borghi sono di una bellezza incredibile. Un patrimonio da difendere in ogni modo. Il successo del progetto è attestato dai numeri: oltre 400 le proprietà vendute a Mussomeli, delle quali una cinquantina a cittadini inglesi. La Sicilia poi continua ad essere una terra attrattiva. Dove tra mari e monti, l’ampia offerta in cultura, c’è solo l’imbarazzo della scelta per la località più suggestiva.

Quando l’investimento conviene

“È stato un vero affare, praticamente un intero edificio per me e la mia famiglia”, ha detto l’uomo, fattosi affascinare dall’opzione della vacanza a basso costo. “La casa costava solo 4.500 euro (3.900 sterline), poi ho speso 3mila euro (2.600 sterline) per ristrutturarla e 3.000 euro per l’atto di proprietà e tutte le pratiche, comprese le spese notarili”. Anche i tempi sono stati favorevoli. Hussai Ramzan, infatti, è riuscito a completare la proprietà in soli tre mesi, prima che scoppiasse la pandemia. “Ha aggiunto di essere stato aiutato anche dalle autorità locali che hanno redatto tutto in inglese, dato che lui non parla italiano”, chiarisce lo stesso giornale britannico che riporta la notizia. In totale il fortunato ha speso solo 9mila sterline. Mentre una casa simile costa 500.000 sterline nel Regno Unito. Novanta metri quadrati con due camere da letto. Il caso non è l’unico. Si cita la testimonianza di una donna, Meredith Tabbone, che ha investito in una casa da 1 euro, sempre in Sicilia stimando che presto potrebbe valere quasi mezzo milione di sterline.

Yanomami, le sofferenze di un popolo a rischio estinzione

Più che una crisi umanitaria, si tratta di un genocidio. Un popolo che combatte, o meglio si arrende a malattie spesso mortali: in Brasile gli Yanomami vedono minacciata la loro stessa esistenza, che fino agli anni Quaranta del secolo scorso era preservata dal completo isolamento nel quale si trovavano a vivere. La causa va ricercata nelle condizioni disagiate aggravate dall’arrivo dei cercatori d’oro nelle zone abitate da loro. I minatori, infatti, scavando nelle viscere della terra, hanno raccolto acqua che ha attirato zanzare portatrici di malaria. Lo hanno denunciato i membri della comunità locale. Aggiungendo che i fiumi su cui fanno affidamento sono passati dal blu al “colore della Coca-Cola” – colpa del mercurio impiegato per l’estrazione del metallo. Così gli indigeni stanno morendo di fame e di malattie.

La responsabilità politica

Tre mesi fa, il ministro della Giustizia e della Pubblica sicurezza, Flavio Dino (Psb) aveva ordinato l’apertura di un’indagine su presunti reati di genocidio e crimini ambientali nella regione abitata dal popolo degli Yanomami, nello Stato del Roraima. La gravissima crisi sanitaria alimentare ambientale veniva ricondotta in buona parte proprio all’invasione dei minatori e dei cercatori d’oro illegali, dei 20mila “garimpeiros”. Si riconosceva anche che gli stessi sono favoriti dalle iniziative politiche del governo Bolsonaro. Il quale fu colpevole della negligenza dimostrata nei confronti degli Indigeni, e del degrado ambientale alla base dell’emergenza continua.

Le ambizioni di Lula

A parlare di “forti indizi sul crimine di genocidio” è stato lo stesso ministro che ha invitato la polizia federare a indagare sull’ex amministrazione Bolsonaro. Così il giudice della Corte Suprema Luis Roberto Barroso vuole vederci chiaro. Dopo che già l’anno scorso aveva chiesto al governo di espellere i cercatori d’oro. Ad ogni modo, sebbene si parli di genocidio, l’utilizzo di armi è stato escluso. L’emergenza è affrontata da Luiz Inacio Lula da Silva. Almeno nelle intenzioni del presidente del Brasile, che vorrebbe combattere la fame nel Paese: la situazione sembra essere sfuggita di mano, ai danni di questa popolazione.

Le vittime tra gli Yanomami

Almeno 99 i bambini di età inferiore ai 5 anni che hanno perso la vita nel 2022, a causa di “malattie prevenibili”. La denuncia viene da ricercatori incaricati dal Ministero della Salute. Il tasso di mortalità dei più piccoli è superiore di 9 volte alla media nazionale, attesta il reportage condiviso da Survival International. Dal 2018 al 2021 i casi di malaria sono più che raddoppiati, a oltre 20mila. I bimbi uccisi anche dalla malnutrizione sono stati 570 negli ultimi 4 anni. Va ricordato che prima dell’arrivo dei garimpeiros gli Yanomami erano entrati in contatto con il mondo esterno solo grazie ai missionari provenienti anche dai Paesi europei: una presenza benefica ma non risolutiva, rispetto alle sofferenze che si sono poi acuite Già nel 1933 tante donne e bambini finirono vittime degli ospiti più sgraditi.

Iraq, 20 anni fa l’inizio dell’invasione americana e un numero di vittime imprecisato

La guerra è sempre orripilante. Fonte di orrori compiuti dai soldati, nei suoi effetti collaterali, dentro un clima di follia contagiosa, generalizzata. Qualunque matrice abbia, la guerra andrebbe condannata: che sia voluta dalla Federazione russa in Ucraina, dalle dittature, oppure dai democratici Paesi occidentali. Compresa l’invasione americana dell’Iraq, che ha avuto inizio esattamente 20 anni fa, e che ha fatto un numero imprecisato di vittime umane. Le fonti sono discordanti. Qualsiasi cifra appare inaccettabile – da 150mila a 223.000 di morti civili, solo nel periodo compreso tra il 2003 e il 2006. Si parla di un milione di vittime in totale. L’unica certezza sono quelle cifre riferite ai primi tre anni, esito di un vasto studio condotto dal governo iracheno e dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Le cause della guerra in Iraq

L’obiettivo principale della seconda Guerra del Golfo era la deposizione di Saddam Hussein (1937-2006). Il quale, secondo la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti d’America, appoggiava il terrorismo islamista, e provava a dotarsi di armi di distruzione di massa. Tuttavia i timori si rivelarono falsi. Così la minaccia alla sicurezza globale. Dell’arsenale di armi chimiche, infatti, non fu trovata traccia. Altra accusa rivolta all’ex presidente dell’Iraq era la volontà di appropriarsi delle ricchezze petrolifere del Kuwait. In barba a quanti la consideravano un crimine, la guerra fu decisa all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2011 e della caccia ai talebani. L’Italia non prese parte alle operazioni militari ma fornì appoggio politico e logistico alla “operazione speciale”. Il conflitto, durato tanto, si tramutò in una resistenza e guerra di liberazione dalle truppe straniere, invise a molti gruppi armati arabi.

Le conseguenze

L’esito della guerra, avviata dall’allora presidente George W. Bush e conclusasi dopo otto anni (18 dicembre 2011), fu la vittoria statunitense. Ovvero l’abbattimento del regime di Saddam, al quale fece seguito la guerra civile e tribale. Quindi un periodo di forte instabilità. E la situazione adesso si starebbe anche deteriorando. Le conseguenze della guerra riguardano anche il patrimonio culturale: gli americani vengono ritenuti responsabili anche della distruzione dei santuari cristiani. All’impoverimento generale fa da contraltare il “successo” delle armi. Che sono finite, in gran numero, nelle mani della popolazione locale, alimentando conflitti vari e pesanti. Permane il pericolo mine nei territori non bonificati. Il Paese, dopo il ritiro degli americani, è stato spartito tra Al Qaeda e il Califfato. A partire dal 2014 lo Stato islamico dell’Isis prese il sopravvento sulle operazioni di democrazia instaurata. Complessivamente, il prezzo dell’esportazione del modello democratico fu la distruzione di intere città e milioni di rifugiati. Si ricordi la seconda battaglia di Falluja che, per ammissione dello stesso esercito americano, è stato il capitolo più sanguinoso della guerra in Iraq e uno dei più pesanti combattimenti urbani.

Chi salva un bambino salva il mondo intero

La tragedia e l’umanità. A far da contraltare alle immagini impressionanti provenienti dalla Turchia, dove abbiamo visto interi edifici sgretolarsi, gli effetti del terremoto devastante, ci sono gli esempi più edificanti. Chi salva un bambino salva il mondo intero, vien da pensare, con riferimento agli ultimi stravolgimenti, dagli orrori della guerra in Ucraina alla calamità naturale: tanto è contraddittoria la natura umana che l’individuo è capace di perpetrare orrori e poi di riscattarsi attraverso gli slanci di generosità donati tirando fuori il meglio proprio nelle situazioni emergenziali.

Tra i veri e propri miracoli avvenuti nella zona terremotata, al confine con la Siria, c’è il salvataggio di un bambino di 8 anni. Era stato sotto le macerie per cinquantadue ore. Un tempo irragionevole per pensare di vederlo tratto in salvo. Invece è successo: merito della macchina della solidarietà, che nulla chiede in cambio, delle mani nude che scavano, noncuranti della fatica e del freddo intenso.

I numeri della catastrofe

Sempre più, il bilancio delle vittime si aggrava: sono oltre 11mila i morti accertati. Si teme che possano essere più di 20mila in totale. Oltre 37.000 i feriti. Trecentomila le persone che sono state costrette a lasciare le loro case.

La gestione emergenziale

“Abbiamo mobilitato tutte le nostre risorse. Lo Stato sta facendo il suo lavoro”, ha dichiarato Erdogan, ammettendo però le grandi difficoltà incontrate. “Inizialmente ci sono stati problemi negli aeroporti e sulle strade, ma oggi le cose stanno diventando più facili e domani sarà ancora più facile”. Il mea culpa del presidente turco non può che trovare la comprensione generale. Perché rispetto ad una simile catastrofe nessuno può farsi trovare preparato.

Lo sciame

La terra trema ancora, intanto: poco dopo le ore 14, nella provincia di Malatya, a Dogansehir, è stata registrata una scossa di magnitudo 5,3. Lo comunica l’Autorità turca per la gestione dei disastri e delle emergenze (Afad). Lo sciame sismico potrebbe durare mesi. Ma il rischio “epidemia”, rassicurano gli esperti, è scongiurato. Quelle immagini, in ogni caso, non sono affatto lontane e ci scuotono profondamente. Nel bene e nel male.

Tigray, la guerra dimenticata che ha fatto oltre mezzo milione di vittime

Non solo Ucraina. Tra le guerre in corso nel 2023 (non possiamo considerarla chiusa) c’è quella del Tigray, nel nord Etiopia, che in due anni ha fatto oltre mezzo milione di vittime: l’Unione europea parla di un numero compreso tra i 600.000 e gli 800mila morti civili (donne, uomini, bambini) – tra i 100.000 e i 200mila, i militari deceduti. Gli sfollati sono più di 2 milioni e mezzo.

DUE ANNI DI CONFLITTO- La guerra ha avuto inizio con l’ascesa al potere di Abiy Ahmed Ali. Il primo ministro etiope, attraverso la sua politica, con le riforme e con il rinvio delle elezioni nel periodo della pandemia, ha provocato la reazione del Tigray: il governo regionale ci vede il tentativo di distruggere il sistema federale del Paese. E ha tenuto le proprie elezioni in autonomia. Da verbale, l’escalation si è fatta fisica, portando all’inizio del conflitto: nel novembre del 2020, il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray ha attaccato le basi militari del governo federale.

PULIZIA ETNICA- Amnesty International ha denunciato i gravi abusi commessi ai danni della popolazione civile. Al punto che si può parlare di pulizia etnica. Tra le negazioni dei diritti, c’è la negazione degli aiuti umanitari che non arrivano a destinazione. La popolazione è vittima della fame e della siccità. In un’area dove i cambiamenti climatici hanno reso la sopravvivenza ancora più difficile.

LA GUERRA INVISIBILE- Come tutte le guerre che avvengono in Africa, il conflitto del Tigray non accende i riflettori dei media. Sarà perché le ricadute dello stesso non coinvolgono l’economia europea.

L’ILLUSIONE DELLA TREGUA- Nel novembre 2022, a Pretoria, i rappresentanti del governo centrale e i leader del Tigray People’s Liberation Front (TPLF) hanno firmato un accordo di pace il governo etiope e le forze del Tigray hanno firmato un cessate il fuoco che prevede il disarmo delle milizie e il rispetto dell’integrità territoriale del Paese. Ma si tratta di una fragile tregua. Un accordo che, in sostanza, tiene accesi i rancori tra le opposte etnie. Non a caso, l’International Crisis Group fa rientrare la guerra del Tigray tra le dieci crisi mondiali da guardare con particolare attenzione.

L’Onu denuncia casi di torture su prigionieri russi: la brutalità della guerra in Ucraina

Non ha vincitori né vinti. Buoni e cattivi. Carnefici e vittime. Come in tutti i conflitti: offesa oltraggiosa alla sacralità della vita, la brutalità della guerra in Ucraina rende tutti ciechi, esalta la bestialità, il germe della violenza e della sopraffazione che è dentro la persona. L’Onu denuncia casi di torture su prigionieri russi. Almeno cinquanta, quelli avvenuti nei primi 6 mesi del conflitto. Lo rende noto un Rapporto dell’Ufficio dell’Alto Commisario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR). Come dichiarato da Ravina Shamdasani, la portavoce dell’agenzia, si tratta di torture o varie forme di maltrattamento inflitte dai combattenti ucraini sui prigionieri di guerra russi.

Le prove delle torture

Le violazioni dei diritti umani sono documentate da un video presentato dalla Federazione Russa. Oltre che dalla testimonianza diretta, dalla voce degli stessi prigionieri – per l’attività di monitoraggio, l’accesso ai luoghi di internamento viene consentito. L’autenticità del video è stata verificata dall’Ufficio. I casi di tortura erano stati già denunciati dal commissario per i diritti umani della Repubblica Popolare di Luhansk, Viktoriya Serdyukova, avvenuti tra i trenta militari dell’LNR rilasciati l’8 gennaio. Due di loro erano tornati a casa in gravi condizioni.

C’è poi il racconto di un prigioniero che per due notti sarebbe stato fatto oggetto di abusi dai soldati delle Forze armate ucraine (Afu). E ancora, lo scorso 14 gennaio, la commissaria russa per i diritti umani Tatyana Nikolayevna Moskalkova ha mostrato un filmato con torture su militari russi. Di maltrattamenti parla il medico militare Daniil Pshenychnyy. Il quale, in un’intervista al Tribunale, ha dichiarato che i militari russi catturati dall’esercito ucraino sono stati picchiati e manipolati dai loro parenti.

LA SVOLTA NEL CONFLITTO- L’escalation, intanto, continua: autorizzato l’invio di Leopard dalla Germania e di Abrams dagli Stati Uniti, la risposta di Mosca non si è fatta attendere. Ed è più di una minaccia la volontà espressa di distruggere i carri armati utili al supporto dell’Ucraina.