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Referendum 8-9 giugno, il diritto di non votare e il dovere di informare

I media nazionali non ne parlano abbastanza. Eppure le tematiche affrontate, come il lavoro e la cittadinanza, sono di fondamentale importanza: i referendum abrogativi chiameranno alle urne i cittadini italiani, nelle giornate dell’otto e nove giugno 2025, in concomitanza con il secondo turno delle elezioni amministrative, come stabilito dal Consiglio dei Ministri. E comunque la si possa pensare, nessuno dovrebbe invitare gli elettori a non votare. Perché il voto resta il più grande strumento che abbiamo per difendere la democrazia in Europa e in Italia.

Referendum, i 5 quesiti

Contratto a tutele crescenti (Jobs Act)

Si propone l’abrogazione del Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n.23, che ha introdotto il contratto a tutele crescenti, modificando le norme sui licenziamenti illegittimi per i nuovi assunti. Attualmente, nelle imprese con più di 15 dipendenti, un lavoratore licenziato illegittimamente non ha diritto al reintegro.

Indennità di licenziamento nelle piccole imprese

Il quesito mira a eliminare il tetto massimo di sei mensilità per l’indennità di licenziamento nelle aziende con meno di 15 dipendenti, lasciando al giudice la determinazione dell’importo in caso di licenziamento illegittimo.

Contratti a termine

Si propone l’abrogazione parziale delle norme che regolano la durata massima e le condizioni per la proroga e il rinnovo dei contratti di lavoro a tempo determinato, al fine di rendere più flessibile la normativa. Il terzo quesito pertanto propone di reintrodurre l’obbligo di causale per i contratti di lavoro inferiori ai 12 mesi. L’obiettivo è garantire una maggiore tutela ai lavoratori precari.

Responsabilità solidale negli appalti

Il quarto quesito è legato alla sicurezza sul lavoro: intende ampliare la responsabilità dell’azienda che commissiona un appalto. Si parla di responsabilità solidale del committente negli appalti, al fine di renderlo responsabile, insieme all’appaltatore, per il pagamento dei salari e contributi ai lavoratori coinvolti.

Cittadinanza per i residenti stranieri

Si propone la modifica delle norme sull’acquisizione della cittadinanza italiana per i residenti stranieri, al fine di semplificare e accelerare il processo di naturalizzazione. I tempi verrebbero dimezzati. Ovvero da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale in Italia necessario per la presentazione della richiesta di cittadinanza.

Come votare

Il referendum è di tipo abrogativo. Pertanto, votando Sì, si chiede l’eliminazione della norma esistente. Votando No si chiede di mantenerla. Le urne saranno aperte nell’intera giornata di domenica, dalle ore 7 alle 23, e il lunedì (7.00-15.00). Gli italiani residenti all’estero e iscritti all’AIRE riceveranno per posta il plico elettorale. Mentre gli elettori che per motivi di lavoro, studio o cure mediche, si trovano temporaneamente fuori Italia, devono fare richiesta al proprio comune entro il 7 maggio. Va ricordato che il referendum è vincolato al raggiungimento del quorum. È quindi necessario che voti il 50 per cento più uno degli elettori aventi diritto: una sfida complicata in un Paese dove l’astensionismo dilaga. E storicamente rispetto ai quesiti referendari.

Giovanni Paolo II: “La guerra è sempre una sconfitta dell’umanità”

Vent’anni senza Karol Wojtyla. Il papa polacco è stato un gigante della fede, e un grande punto di riferimento, soprattutto per i giovani. A loro deve continuare a rivolgersi nel monito contro la guerra voluta dai “potenti” del mondo. San Giovanni Paolo II non può che essere contrario al conflitto russo-ucraino, o al genocidio perpetrato da Israele contro la popolazione di Gaza palestinese. Durante il suo pontificato Sua Santità ha avuto sempre avuto parole di condanna contro la violenza e i conflitti. Il predecessore di Benedetto XVI ci lasciava il 2 aprile 2005 in un mondo distante e simile al nostro, che non è affatto migliore di quello vissuto a inizio millennio.

La guerra è sempre una sconfitta dell’umanità

Tra i conflitti del secolo scorso, papa Wojtyla criticò apertamente quello del Golfo. E pure l’invasione dell’Iraq nel 2003: un dissenso profondo che espresse più volte. Un discorso che è tra i più famosi, quello pronunciato durante l’Angelus domenicale, il 16 marzo 2003. Eccone un estratto significativo: “No alla guerra! La guerra non è mai una fatalità; essa è sempre una sconfitta dell’umanità. Il diritto internazionale, il dialogo leale, la solidarietà tra gli Stati, l’esercizio nobile della diplomazia: ecco i veri strumenti per risolvere le contese tra i popoli. È ancora possibile evitare la guerra! Perciò non si deve interrompere l’impegno di chi a cuore la pace. Io appartengo alla generazione che ha vissuto la Seconda guerra mondiale e, sopravvissuto a essa, ho il dovere di testimoniare che la guerra non risolve i problemi, ma li accresce. È necessario e urgente che si ritornino ad attivare gli strumenti della diplomazia e del dialogo. Con l’aiuto di Dio, è sempre possibile cambiare il corso degli eventi”.

La voce inascoltata

Con riferimento alla guerra in Iraq, non possiamo dimenticare le ragioni dell’invasione, dimostratesi fake news (si parlava delle armi di distruzione di massa irachene). Giovanni Paolo II non usò mai toni di aperta condanna contro la Nato o gli Stati Uniti d’America. Ma espressa una ferma e chiara opposizione al conflitto. All’iniziativa guidata dagli Usa con il supporto di una coalizione internazionale. Nessuno, però, ascoltò il suo appello: già il 13 gennaio 2003, nel discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, chiedeva che si scongiurasse la minaccia della guerra.

Come Francesco

È il dovere di ogni pontefice, parlare contro la guerra. Così papa Bergoglio non fa che ripeterlo. Anche nelle condizioni di salute critiche in cui si trova adesso: nel testo dell’Angelus diffuso domenica scorsa in forma scritta, ha citato anche il Congo, il Sud Sudan e il Myanmar, devastato dalla guerra civile oltre che dal terremoto. E naturalmente il pensiero costante va sull’Ucraina e sul Medio Oriente. È facile rilevare l’inutilità degli interventi degli uomini di fede; ma le parole di Verità del Vangelo travalicano la dimensione temporale per fissare un orizzonte già definito.

Giovanni Motisi, un pesce piccolo scambiato per capo di Cosa Nostra?

I media ne parlano come il successore di Matteo Messina Denaro. Il suo nome è Giovanni Motisi, finito nella lista dei most wanted di Europol. È lui il numero uno di Cosa Nostra? Verosimilmente potrebbe persino trattarsi di pura manovalanza. Un tentativo di depistaggio. Una considerazione, intanto, possiamo farla: finché non lo prendono, finché non esce dai binari (condizione perché ci sia la reale volontà di arrestarlo), non ci è dato sapere con certezza chi è l’attuale Capo dei Capi, all’interno della mafia siciliana. Così è stato fino all’arresto di Totò Riina o di Bernardo Provenzano.

Giovanni Motisi, una lunga latitanza

Quel che è certo, stando alle dichiarazioni di un pentito, è che il boss è stato il killer di fiducia di Totò Riina. Giovanni Motisi ha 66 anni ed è latitante dall’anno 98 del secolo scorso. È accusato di omicidio e di strage, con un ergastolo da scontare. La sua ultima apparizione risale al ’99: fu accertata la sua presenza alla festa di compleanno della figlia. Poi non se n’è saputo più niente. Tanto che per anni venne ritenuto morto. La Polizia, l’anno scorso, ha diffuso un nuovo identikit dell’uomo, per agevolare le ricerche. L’ipotesi più accreditata è che possa aver trovato rifugio in Francia. Ma non si può escludere che possa nascondersi proprio nella sua terra. Con ogni probabilità il killer del commissario vicequestore Ninni Cassarà (1947-1985) e dell’agente di scorta Roberto Antiochia (1962-1985) è ancora tra noi – ne è convinto il procuratore capo di Palermo, Maurizio De Lucia. Capo dell’omonimo clan, Giovanni Motisi, nato a Palermo, è soprannominato ‘U Pacchiuni (il grasso). Almeno, questa è l’immagine che si aveva di lui fino all’epoca remota dell’ultimo avvistamento. Non sappiamo se negli anni sia stato costretto a una cura dimagrante.

Ventiquattrore di speranza

Il nome di Giovanni Motisi certamente non compare nel maxi blitz effettuato a Palermo, che ha portato a oltre 180 arresti. La notizia di apertura di giornali e telegiornali è passata presto in secondo piano. Dopo che la premier Meloni è intervenuta parlando di “colpo durissimo a Cosa Nostra”. L’operazione della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo portata a termine può essere considerata un risultato parziale che dimostra lo stato di salute e la capacità di riadattamento della criminalità organizzata. Si pensi all’utilizzo della tecnologia più avanzata, per fare affari sul dark web, al ricorso alle chat criptate, in luogo dei più rischiosi incontri tra i boss in presenza. La brutta notizia è che con antiche e nuove modalità i boss continuano a lavorare anche tra le mura della casa circondariale. La buona è che, tra gli arrestati, figurano uomini d’onore e colonnelli, oltre agli estortori di diversi mandamenti. Insomma, pezzi di media taglia. E questo ci fa ben sperare. Perché il lavoro della magistratura e delle forze dell’ordine deve proseguire senza soluzione di continuità, parallelamente alla promozione della cultura della legalità.

Scuole chiuse a Taranto: l’allerta meteo (arancione) e la polemica giustificata

La prudenza non è mai troppa: prevenire è meglio che curare, a costo di sovrastimare un pericolo reale. Così è arrivata l’ordinanza di chiusura degli istituti scolastici a Taranto. Come azione di contrasto all’allerta meteo, di grado arancione, diramata dalla Protezione civile per la giornata odierna, giovedì cinque dicembre. Una misura in parte contestata. Anche perché tardiva – l’ordinanza firmata dal vice sindaco Gianni Azzaro è stata pubblicata sul sito del Comune dopo la mezzanotte. L’opinione pubblica è divisa. Le motivazioni che stanno alla base dell’ordinanza sono condivisibili, chiare. Una soluzione tampone efficace. Ma la strada che porta all’adattamento al cambiamento climatico non può essere quella di starcene rintanati in casa. Occorre ripensare l’architettura urbana, le infrastrutture e le strade. Gli esempi virtuosi, che vanno in questa direzione, non mancano.

La città-spugna

Senza andare all’estero, nei Paesi più tecnologicamente avanzati, nella provincia di Varese (Busto Arsizio) è nato un progetto di rigenerazione urbana che trasforma il centro storico in una “Sponge City”: utilizzando depaving e verde urbano, si può migliorare la gestione delle acque piovane. L’iniziativa punta a rendere la città più resiliente e sostenibile. Un progetto che è stato finanziato dalla Regione Lombardia attraverso il bando “Sviluppo dei distretti del commercio 2022-2024”, mira a migliorare il deflusso delle acque piovane integrando specie vegetali a basso manutenzione e resistenza idrica perfettamente adattate all’ambiente urbano e al cambiamento climatico.

Il Depaving

Si tratta del processo di rimozione delle superfici impermeabili, come cemento o asfalto, da aree urbane, per ripristinare il terreno permeabile sottostante sostituendolo con un nuovo tipo di pavimentazione in porfido e granito bianco drenante. Ciò consente di ridurre l’effetto della impermeabilizzazione urbana che contribuisce ad allagamenti e inondazioni. E al sovraccarico delle fognature. Tale approccio innovativo che sfrutta le risorse naturali per assorbire l’acqua piovana, e prevenire i danni derivanti dagli eventi meteorologici estremi, ha l’obiettivo di contrastare l’impatto dell’urbanizzazione e dei cambiamenti climatici.

L’allerta meteo

Tornando a Taranto, va aggiunto che è stata disposta anche la chiusura del parco Cimino e dei cimiteri cittadini. Che in risposta all’allerta meteo, il Comune ha invitato la cittadinanza a osservare tutte le misure precauzionali previste allo scopo di salvaguardare la pubblica sicurezza e l’incolumità personale. La chiusura di tutti i plessi scolastici, di qualsiasi ordine e grado, degli asili nido pubblici e privati (nonché della frequenza delle attività scolastiche e di formazione superiore, di parchi, giardini e cimiteri presenti sull’intero territorio comunale) è stata decisa e trasmessa alla comunità attraverso l’ordinanza aggiornata alle ore 00:25 del 5 dicembre 2024. Meglio tardi che mai. Perché dall’allerta meteo alla catastrofe è un attimo, e mai vorremmo rivedere quelle immagini del maltempo che ha messo in ginocchio la Spagna, tre settimane fa.  

Le carceri tra sovraffollamento e impraticabilità: l’allarme dei penalisti

“Una pena che tenda alla rieducazione, al trattamento individualizzato, alla progressività in ‘meglio’ del trattamento penitenziario, sembrano ormai miraggi difficilmente raggiungibili”.  Così la Camera penale di Bari stigmatizza le condizioni in cui versano le carceri italiane. Altro che strutture adeguate al livello di civiltà: “La realtà quotidiana delle nostre carceri è diversa: violenze, spazi ristretti, aree trattamentali inadeguate, come abbiamo più volte constatato e denunciato nella casa circondariale di Bari”. Le carceri italiane sono oggi strutture incapaci di gestire un numero così alto di detenuti se non calpestandone la dignità – si legge nello stesso comunicato della Camera Achille Lombardo Pijola – e deludendo le legittime aspettative ad un trattamento penitenziario “rieducativo”, come previsto dalla Costituzione e dalle leggi sull’ordinamento penitenziario.

Le carceri focolaio di criticità

Il primo problema resta il sovraffollamento. Ma anche la mancanza di personale, il numero di suicidi elevato, le condizioni sanitarie inadeguate. Tutto ciò concorre a rendere quel luogo davvero infernale. La riprova sta nella più recente cronaca: in quelle raccapriccianti immagini delle violenze sui detenuti nel carcere di Trapani – 46 agenti sono indagati per torture e altri reati. Il malessere può degenerare sino al prezzo della vita umana. Nella lunga lista dei suicidi è finito Ben Mahmud, tunisino di ventotto anni, che è stato l’81esima vittima nelle carceri italiane. C’è poi il nodo irrisolto delle persone tossicodipendenti. Secondo il Coordinamento delle comunità di accoglienza (Cnca), ci sarebbe la possibilità di farle uscire dalle carceri con le misure alternative. I numeri riferiti al 31 dicembre scorso dicono che i detenuti tossicodipendenti presenti negli istituti di pena sono 17.405. Ovvero il 29 per cento della popolazione carceraria totale (60.166).

Il sovraffollamento

La Camera penale aveva già denunciato le criticità del carcere di Bari. Questa estate, infatti, nell’ambito dell’iniziativa nazionale “Ristretti in Agosto” proposta in collaborazione con l’Unione delle Camere penali italiane, aveva organizzato una visita nel penitenziario di Carrassi invitando anche i parlamentari. Immaginiamo quanto il caldo, sempre più intenso ogni anno, possa essere un elemento aggravante. Non va meglio nelle altre stagioni. Non c’è primavera per quanti si trovano nelle carceri pugliesi e italiane. Tornando al sovraffollamento, va sottolineato che a Bari ci sono mediamente quasi 400 detenuti, a fronte di una capienza di 260 posti. Numeri purtroppo in linea con quelli degli altri istituti penitenziari italiani. A nulla è valsa la sentenza Torreggiani: correva l’anno 2013 quando la Corte europea dei diritti umani condannò l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU). Ovvero per i trattamenti inumani e degradanti, che si ripetono nel disprezzo della dignità umana. 

Crisi climatica e non solo: la più grande alluvione che flagellò Palermo

Sicilia, 27 settembre 1557, ore 20.00. Una spaventosa alluvione a Palermo provoca un’ondata di fango che raggiunge la città dai monti, con conseguente scia di distruzione e di morte. Migliaia le vittime. Un numero imprecisato compreso tra 2000 e 7000, e oltre. Siamo alla metà del XVI secolo, ben lontani dai giorni che viviamo oggi, condizionati dalle ricadute drammatiche del cambiamento climatico: gli eventi meteo estremi si stanno sì moltiplicando nell’ultimo trentennio, ma quei numeri, fortuna nostra, sono inimmaginabili adesso.

La grande alluvione

Gli storici fanno riferimento a quell’evento, attestato dalla relazione del Maestro Razionale del Regno Pietro Agostino, come il più violento che colpì l’allora capitale del Regno di Sicilia. Un’alluvione assimilabile a una tempesta perfetta. Ci furono delle repliche in questi anni: 1666, 1769, 1772, 1778, 1851, 1862, 1907, 1925, 1931. Il comune denominatore è il caldo eccezionale o i periodi siccitosi che hanno preceduto le abbondantissime precipitazioni. Con riferimento alla catastrofe del 1557, il nubifragio ebbe inizio il ventuno settembre protraendosi per giorni. Il 27 avvenne il cedimento del Ponte di Corleone, muro-diga che serviva ad arrestare le acque meteoriche provenienti da Monreale, per scaricarle nell’alveo del fiume Oreto. I danni alla struttura edilizia e al tessuto economico della città furono ingenti – mille case distrutte. Colpa di scelte ingegneristiche errate e degli interventi di prevenzione fatti male.

Adattarsi al cambiamento

La storia ci insegna che questi eventi si sono sempre verificati nel tempo. Tuttavia, a convalidare la tesi del cambiamento climatico, processo irreversibile da mettere al centro delle agende di governo, c’è l’elevata frequenza. L’alluvione è quell’evento che si ripete facendosi sempre più intenso. Si pensi all’accanimento delle precipitazioni in alcune aree come l’Emilia Romagna – sono caduti 300 litri di acqua per metro quadrato in soli quindici giorni. Sebbene certi fenomeni ci vedano spettatori, senza volerlo, la nostra unica possibilità di sopravvivenza è legata alla capacità di adattamento, per mezzo del progresso e dello sviluppo delle tecnologie moderne. Va sottolineato che le previsioni meteo sono sempre più precise. Almeno quelle provenienti da siti affidabili, alle quali lavorano gli studiosi, come gli esperti dell’Aeronautica militare.

I danni della crisi climatica

I numeri sono inquietanti. È l’Osservatorio Anbi sulle Risorse idriche a divulgarli: dall’inizio del 2024 al 15 settembre si sono registrati 212 tornado, 1.023 nubifragi e 664 grandinate con chicchi di dimensioni grandi. In totale gli eventi estremi sono 1.899. Lo Stivale, quindi, è diventato l’hub mediterraneo della crisi climatica, con piogge torrenziali concentrate sulle aree costiere dell’Adriatico. Eppure sino a non molto tempo fa l’Italia veniva identificata nella mitezza mediterranea. Si guardava ai tornado come a un fenomeno lontano, riguardante in particolare gli Stati Uniti d’America. Quanto ai danni, alla necessità di adattarsi al cambiamento climatico, c’è da dire che dagli anni Ottanta manca in Italia una pianificazione nazionale di interventi per la prevenzione idrogeologica, e si preferisce intervenire con fondi per le emergenze. Una verità scomoda. L’ha denunciata il presidente dell’Anbi Francesco Vincenzi.

Strage di Capaci, il lungo esilio dei sopravvissuti

Ricordare sempre. Sebbene non sia sufficiente: il 23 maggio 1992 mille chilogrammi di tritolo, azionati con telecomando da Giovanni Brusca, fanno saltare in aria un tratto dell’autostrada A29 che collega Palermo con l’aeroporto di Punta Raisi, presso lo svincolo di Capaci. Accade nel momento esatto in cui transitano tre automobili. Quella su cui viaggia Giovanni Falcone insieme alla moglie, e le due auto della scorta. Per mano di Cosa Nostra, muoiono il magistrato antimafia e Francesca Morvillo, gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Quattro sono i sopravvissuti. Due di loro, l’agente di scorta Angelo Corbo e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza, hanno raccontato recentemente come è cambiata la loro vita.

Capaci, la strage dopo la strage

“La mia vita è cambiata. Ma è dopo l’attentato che è iniziata la mia strage: dopo 18 mesi di malattia, sono tornato in tribunale e mi aspettavo un’accoglienza diversa”. “Invece, non riuscivano a trovarmi un posto, una mansione – denuncia Giuseppe Costanza a Caro Marziano, il programma di Pierfrancesco Diliberto e Luca Monarca, andato in onda su Rai3 – mi facevano fare il tappabuchi, a volte ho pensato che in questo Paese è una disgrazia se rimani vivo”. L’uomo ha già ricordato che per anni non è mai stato invitato alle celebrazioni commemorative. Anche se quell’attentato lo hai vissuto sulla propria pelle, lui. Invece le celebrazioni sono state una passerella istituzionale utile a personaggi illustri. Si ricorda la protesta del testimone diretto sopravvissuto che, il 23 maggio 1994, arrivò a incatenarsi davanti il tribunale di Palermo, per far sentire la propria voce. Una delle tante mortificazioni subìte dopo la strage di Capaci. 

Nulla è cambiato, in sostanza, dal ‘92

Le inquietudini di Giuseppe Costanza trovano condivisione nelle parole di Angelo Corbo. Che facendo riferimento alla preparazione del cosiddetto attentatuni, ha aggiunto la presenza di soggetti esterni alla mafia come possibilità concreta. Parla anche dell’indecente trattamento ricevuto in ospedale dagli agenti rimasti feriti dall’esplosione. Prima che il circo mediatico prendesse il via. E poi dopo: trattati, i sopravvissuti, come testimoni scomodi persino per le istituzioni. Adesso Angelo Corbo raggiunge le scuole. Lo fa per non rimuovere la strage di Capaci dalla memoria collettiva, per sensibilizzare le nuove generazioni alla cultura della legalità, alla lotta al crimine; ma anche per non pensare a quanto gli è accaduto, dice, non negando il cambiamento, la maggiore attenzione data al fenomeno mafioso. Dall’altro lato c’è l’ipocrisia. La commemorazione? “È un anniversario dal quale vorrei scappare. La falsità delle istituzioni è qualcosa che ancora mi dà fastidio”. Perché “nulla è cambiato dal ‘92”. E per questo il poliziotto, che continua a credere nello Stato, e nel servizio pubblico, non rimette quasi più piede nella sua terra natia. La denuncia si accompagna al senso di inadeguatezza voluto proprio dalle istituzioni. Da quella parte corrotta, che ha affidato la sicurezza di Giovanni Falcone (e poi pure la vita di Paolo Borsellino) a persone impreparate al delicato compito specifico.

Suicidi in carcere, le morti silenziose che sono in aumento costante

Sono esseri umani. E la vita di ogni persona è sacra: lo è quella dei detenuti che abitano le carceri italiane. Soggetti da riabilitare. Uomini e donne che, il più delle volte, non trovano nella casa circondariale il luogo della espiazione e rieducazione ma un vero proprio inferno, capace di tradursi in una trappola mortale. Si pensi che i suicidi in carcere sono già 30 nel 2024. Si va verso un nuovo record, dopo quello registrato due anni fa, con 85 decessi accertati – nel 2023 erano 71. Pertanto la media attuale è di un suicidio ogni tre giorni e mezzo.

Suicidi in carcere e sovraffollamento

L’altro dato allarmante riguarda il tasso di affollamento. Lo dicono i numeri riferiti a quest’anno: al 31 marzo le persone detenute erano 61.049, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti. “Le cause di questa crescita sono diverse: maggiore lunghezza delle pene comminate, minore predisposizione dei magistrati di sorveglianza a concedere misure alternative alla detenzione o liberazione anticipata, introduzione di nuove norme penali e pratiche di Polizia che portano a un aumento degli ingressi”, riporta il dossier Nodo al collo pubblicato da Antigone. I tassi di affollamento più alti a livello regionale si continuano a registrare in Puglia (152,1%), in Lombardia (143,9%) e in Veneto (134,4%). Solo il Covid ha frenato la crescita nel recente passato. Dalla fine del 2019 alla fine del 2020, a cause delle misure deflattive adottate durante la pandemia, le presenze in carcere erano infatti calate di 7.405 unità, precisa lo stesso XX rapporto dell’associazione italiana che si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario.

Le vittime

L’età media di chi si è tolto la vita è di 40 anni. La fascia più rappresentata, infatti, è quella compresa tra 30 e 39 anni. Muoiono gli stranieri più degli italiani. Considerando che la loro presenza in carcere è leggermente inferiore a un terzo della popolazione detenuta totale (31,3%). Oltre alle persone giovani o giovanissime, a quelle di origini straniera, sono numerose le situazioni di presunte o accertate patologie psichiatriche, riconducibili ai suicidi in carcere. Il che certamente non può essere considerata la normalità. Per alcuna ragione, infatti, la sofferenza di un individuo dovrebbe essere portata alla disperazione totale. Tra le vittime in carcere ci sono persone passate dal tunnel della tossicodipendenza. O quelle che erano senza fissa dimora.

Cosa si può fare per arrestare il trend di crescita allarmante? Secondo gli esperti di Antigone occorre favorire percorsi alternativi al carcere, e migliorare la qualità della vita all’interno degli istituti, al fine di ridurre il più possibile il senso di isolamento e di marginalizzazione, che stanno alla base dei suicidi in carcere. Concretamente si potrebbe incentivare una maggiore apertura nei rapporti con l’esterno. Le telefonate andrebbero liberalizzate: “Poter parlare con una persona cara può far tanto, per chi si trova in una situazione di profondo dolore potrebbe anche salvare la vita”. Occorrerebbe poi ripensare il sistema carcere. Che già da tempo, ormai, non è più il luogo dove marcire per aver commesso uno o più reati.

Undici anni con Francesco: il coraggio di predicare e praticare la pace

Le sue parole sono state fraintese e criticate. Non da tutti, in verità – larga parte dell’opinione pubblica deve essere dalla sua parte. Non c’è niente di nuovo ma è sempre rivoluzionario quanto ha detto papa Bergoglio sulla guerra in Ucraina. Sono undici anni infatti (tra poco, mercoledì prossimo 13 marzo, ricorre l’anniversario del Pontificato) che Francesco parla di pace, con la forza e con il coraggio di chi sa andare controcorrente, se necessario. Più di undici anni che il religioso parla di amore e di fratellanza universale. E la pace non si costruisce con le armi.

Il coraggio di negoziare

Il papa usa il termine bandiera bianca a indicare la cessazione delle ostilità. Lo ha precisato Matteo Bruno, direttore della sala stampa della Santa sede, dopo l’intervista rilasciata da Francesco alla Radio televisione svizzera, due giorni fa. Parole che sono state strumentalizzate in una scia polemica inarrestata. Quanto richiesto, auspicato, dal pontefice è la tregua da raggiungere (dopo tante bombe, vittime e ostilità) attraverso il coraggio del negoziato. “Oggi, per esempio nella guerra in Ucraina, ci sono tanti che vogliono fare da mediatore: la Turchia si è offerta per questo, e altri. Non abbiate vergogna di negoziare prima che la cosa sia peggiore”, ha detto papa Bergoglio alla stessa Rsi. Le sue dichiarazioni vanno contestualizzate in tempi di crisi e di violenze generalizzate. La sua missione resta quella di moltiplicare non l’angoscia, ma la speranza.

L’escalation, il rischio da scongiurare

La violenza genera altra violenza. L’incidente, dietro l’angolo; e oltre al suicidio di un Paese devastato, il pericolo dell’allargamento del conflitto in Ucraina con il coinvolgimento della Nato è reale, sino al rischio di una terrificante guerra nucleare. Pensiamo alle recenti dichiarazioni del Capo di Stato della Francia Emmanuel Macron o alle esercitazioni della Nordic Response propedeutiche a una risposta o un’azione militare a sostegno del Paese invaso. Intanto, il presidente ceco Petr Pavel ha già dichiarato che le truppe della Nato potrebbero svolgere attività di sostegno direttamente sul territorio dell’Ucraina. Perché questo non violerebbe alcuna regola internazionale. Sebbene ci sia da fare una netta distinzione tra il dispiegamento delle truppe da combattimento e l’eventuale utilizzo di altre in attività di cosiddetto appoggio, nelle quali l’Alleanza ha già esperienza, questa mossa potrebbe essere mal interpretata da Mosca. Ovvero letta come segnale di una escalation che bisogna avere invece il coraggio di arrestare.

“Giornata della Memoria” tra antisemitismo e genocidio del popolo palestinese

Quest’anno se n’è parlato con largo anticipo. Più degli scorsi anni, a causa dello scenario di crisi internazionale.  Ed è un bene, che il tema sia trattato attraverso dibattiti, incontri, film in televisione. Perché la Shoah al centro della Giornata della Memoria è stata un’infamia nel cosiddetto secolo degli Stermini. Ma quello perpetrato ai danni del popolo ebraico è grave quanto il genocidio del popolo palestinese, del quale il governo israeliano si sta macchiando, agendo impunemente. Nessuno è esente da colpe. La “pulizia etnica” della Palestina ad opera dei governi israeliani con la complicità dell’Occidente, perdura da oltre quarant’anni: lo denuncia lo storico israeliano Ilan Pappé nel suo libro La prigione più grande del mondo.

Giornata della Memoria: tutti uniti nella condanna

Non è mai stata retorica. L’obiettivo della Giornata della Memoria (27 gennaio) resta testimoniare, ricordare, e meditare sui tragici avvenimenti che colpirono l’Europa nella prima metà del Novecento: la condanna va contro il sistema dello sterminio di massa, degli ebrei e non soltanto. Hitler e Mussolini ne furono i maggiori responsabili. Ma quanto avvenuto negli anni successivi alla prima guerra mondiale fu alimentato da un consenso largo – si obbediva per paura o per apatia morale. Le vittime della Shoah (catastrofe) vanno ricordate attraverso l’impegno costante a fare in modo che simili e irrazionali atrocità non abbiano a ripetersi mai.

Il potere della Musica

Un film da rivedere sulla Shoah è “Il pianista” di Roman Polansky. Opera di successo e intensa che, tratta dal romanzo di Wladyslaw Szpilman, ci interroga sulla devastazione, sull’orrore e sulla miseria portate dalla guerra. Ma  il pianista interpretato da Adrien Brody magistralmente lascia germogliare anche e soprattutto il seme della speranza. È il potere della Musica che si erge sopra tutto, che zittisce gli orrori della guerra, e alla quale si deve inchinare anche il più empio, nell’ascolto con deferenza.

27 ottobre, il nostro No alla pseudocultura della violenza e dell’odio

Il popolo della pace chiamato a raccolta. Una giornata, quella di venerdì prossimo 27 ottobre, che vuole essere un inno alla Vita attraverso la mobilitazione: in tutta Italia si scende in piazza e ci si riunisce nei luoghi di aggregazione per chiedere la pace laddove la guerra, feroce, inattesa, si è fatta protagonista negli ultimi giorni. Ovvero in Israele e in Palestina. Perché alle guerre, ai fiumi di sangue, che sono una costante nella storia, l’uomo evoluto si ribella.

Le iniziative

In prima linea c’è Amnesty International Italia. Che chiede il rispetto dei diritti umani, la protezione dei civili, e lo stop della violenza in Palestina e Israele. L’iniziativa è condivisa da Aoi (Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale) e da tante altre realtà della società civile. Segnatamente questo è l’appello rivolto alle istituzioni italiane: rimettere al centro dell’azione politica proprio il rispetto dei diritti umani e della vita delle persone. Tra i tanti eventi, appuntamenti pubblici e incontri, va segnalata la lectio magistralis che il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury terrà a Trieste, in occasione del 75esimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. L’intera settimana è caratterizzata dall’attivismo nelle principali città d’Italia. Dai flash mob ai seminari, dalle mostre a tema ai workshop agli stand informativi e proiezioni passando per i momenti conviviali: tutto questo rientra nella campagna #IoMiAttivo

27 ottobre di digiuno e preghiera

Un pacifista come papa Bergoglio non può che sostenere la grande mobilitazione. Infatti, per lo stesso 27 ottobre, è prevista una giornata di digiuno e preghiera: le armi del credente. La ricorrenza è l’anniversario dell’Incontro interreligioso di Assisi del 1986. Il momento di raccoglimento si terrà a San Pietro alle ore 18.00. E potrà coinvolgere “fratelli e sorelle di varie confessioni cristiane, appartenenti ad altre religioni, e quanti hanno a cuore la causa della pace”. Ovvero coloro che non accettano il sacrificio di vittime innocenti.

Tacciano le armi

L’invito, il monito, del pontefice è ad ascoltare il grido di pace dei poveri, della gente. Dei bambini particolarmente. Perché la guerra non risolve alcun problema, denuncia Francesco: semina solo distruzione e morte. I riflettori dei media si sono spostati dall’Ucraina al Medio Oriente. La condanna va estesa a tutti i conflitti che sconquassano il mondo, per scongiurare anche l’allargamento di quei fronti bellici già aperti. Il pensiero va alla martoriata Ucraina, sempre. Al rischio che i conflitti diventino guerre di logoramento. Perché per arrestarli, in sostanza, non si fa niente. La priorità intanto è evitare la catastrofe umanitaria a Gaza. La stessa Amnesty International denuncia e documenta gli attacchi illegali compiuti dalle forze israeliane che hanno causato, tra i civili, massicce perdite: chiunque compia simili azioni, l’aggressore come l’aggredito, va messo sotto processo per crimini di guerra. Il numero di morti e feriti tra i bambini è sconcertante. Si contano almeno 2.360 vittime negli ultimi 18 giorni, denuncia l’Unicef attraverso il direttore regionale per il Medio Oriente e il Nord Africa Adele Khodr.

Modello Coluccia: la Chiesa che ci piace sa dare fastidio

È il prete simbolo della lotta allo spaccio e alla criminalità a Roma. Ma non chiamatelo eroe: don Antonio Coluccia è stato vittima di una intimidazione, perché fa il proprio dovere. L’episodio si è verificato durante una marcia per la legalità in Via dell’Archeologia. Nel pomeriggio di ieri, martedì scorso 29 agosto, un uomo ha cercato di investirlo in scooter per le strade di Tor Bella Monaca, dove si stava tenendo la manifestazione. L’aggressore non è andato a segno. Infatti, si è frapposto un agente della scorta, il quale ha reagito sparando e ferendolo la stessa persona. Un grande spavento per il sacerdote salentino originario di Specchia, che ha confidato di aver avuto paura. Il responsabile dell’aggressione era un bielorusso 28enne già noto alle forze dell’ordine. In quanto aveva precedenti per droga – dopo una colluttazione è stato poi trasportato al Policlinico Casilino.

Don Antonio Coluccia, la missione ininterrotta

“L’aggressione non mi fermerà. Continuerò la mia battaglia che sto portando avanti contro la criminalità che controlla le piazze di spaccio a San Basilio, Quarticciolo e Tor Bella Monaca”. Così don Antonio Coluccia ha commentato l’agguato che poteva costargli la vita. Il suo lavoro, portato avanti da venticinque anni contro la criminalità organizzata e lo spaccio di droga (vive sotto scorta), non può piacere a chi delinque. Soprattutto, non viene visto di buon occhio l’attenzione del religioso verso i più giovani, i quali vengono sottratti alla cultura della morte, attraverso le numerose iniziative in cui vengono coinvolti.

Sulla scia di don Pino Puglisi

Don Antonio Coluccia rimanda a un’altra grande figura di riferimento del passato non troppo remoto. Il sacerdote che ha combattuto la mafia in Sicilia, a Palermo: don Pino Puglisi. Il quale amava proprio i giovani. E per toglierli dalla strada, dalle mani della mafia che li reclutava sin da giovanissimi, si impegnò, con la collaborazione di un amico e di un gruppo di suore – ricordiamo il film di Roberto Faenza Alla luce del sole (2005) che per la prima volta in televisione ne raccontò la storia. Don Pino Puglisi fu minacciato e picchiato. Infine assassinato. La determinazione del prete, che ha portato avanti la propria missione, è il segno della perseveranza che non trova ostacolo neanche di fronte al pericolo incombente della morte.

Così don Antonio Coluccia lascia intendere tutta la propria inarrestabile forza. L’auspicio è che l’esito sia diverso: che non venga lasciato solo. Se non altro, lo stesso ha ricevuto le telefonate del ministro Matteo Piantedosi, del primo cittadino di Roma Roberto Gualtieri, del Capo della Polizia Vittorio Pisani e di altre autorità. Compresa la solidarietà degli esponenti del mondo della politica. L’episodio può avere una duplice lettura… Come ha dichiarato il Presidente del Municipio VI delle Torri Nicola Franco, quanto accaduto dimostra che gli sforzi di don Coluccia “danno fastidio in questa zona”. Viva la Chiesa e gli uomini di Dio che scelgono la strada della lotta educativa e non quella della compromissione.

Staffetta dell’Umanità, l’Italia che non vuole più inviare armi ma messaggi di pace

Stop alla guerra e all’escalation che conduce a un nuovo conflitto mondiale o nucleare. Ovvero cessate il fuoco, in Ucraina, e avvio di un negoziato: è l’obiettivo della Staffetta dell’Umanità ideata da Michele Santoro. Un’iniziativa utile a far sentire la voce di chi crede nella pace. E quand’anche fosse inutile, perché ai piani alti inascoltata, la manifestazione da realizzare rappresenta una nota di merito, elemento non aggiuntivo ma consustanziale al sistema democratico. Al dibattito che dovrebbe veder confrontarsi tutte le parti in un Paese civile e libero come l’Italia.

Il percorso

Quattromila chilometri e migliaia di persone in strada a camminare. Un serpentone umano che, domenica 7 maggio, alle ore 11.00, collegherà Aosta a Lampedusa, ovvero tutte le regioni italiane in contemporanea. Transetti da 25 km andranno a costituire il tracciato – per partecipare sarà possibile percorrere anche un solo chilometro. Il percorso della staffetta è stato realizzato dall’Associazione Compagnia dei Cammini. La carovana sarà segnata dai colori dell’arcobaleno.

L’appello dei promotori della Staffetta dell’Umanità

I governi continuano a ignorare il desiderio di pace dei popoli e proseguono nella folle corsa ad armi di distruzione sempre più potenti. Mentre milioni di persone sono costrette dalle inondazioni, dalla siccità e dalla fame, a lasciare le loro terre, centinaia di migliaia di euro vengono spesi per aumentare la devastazione dell’ambiente e spargere veleni nell’aria. È quanto si legge nell’appello dei promotori della Staffetta dell’Umanità. Gli stessi chiariscono, tra l’altro, che Putin è sì il responsabile dell’invasione, “ma la Nato, con in testa il Presidente degli Stati Uniti Biden, non sta operando soltanto per aiutare gli aggrediti”. Mentre la missione dell’Occidente che si batte per esportare la democrazia nel mondo viene bollata come una menzogna reiterata. Della quale la stragrande maggioranza dei mezzi d’informazione è responsabile.

Da Massimo Cacciari a Fausto Bertinotti, da Luigi De Magistris a Leoluca Orlando, da Riccardo Scamarcio a Elio Germano, ad Anna Falcone e Moni Ovadia: tanti gli esponenti del mondo politico, culturale o dello spettacolo che hanno firmato l’appello per la pace. Tra questi, naturalmente, il giornalista Michele Santoro. Le diverse sensibilità sono chiamate in causa per sensibilizzare sull’emergenza legata alla guerra in Ucraina e insieme su quella climatica. Due emergenze che sono intrecciate. Perché il massimo dispiegamento di energie e di risorse dovrebbe essere concentrato nell’azione di contrasto al fenomeno che minaccia la sopravvivenza dell’umanità e del creato: il cambiamento climatico, i cui effetti saranno sempre più devastanti – si stima che nei prossimi 50 anni vaste aree, compresa l’Europa centrale, saranno inabitabili per quasi la metà della popolazione mondiale (3,5 miliardi di persone).

Per aderire all’iniziativa del 7 maggio scrivere alla mail staffetta.pace@gmail.com specificando nome e cognome, numero di telefono e località di residenza. Il lettore può cliccare qui per individuare il transetto da percorrere lungo il tracciato.

Covid, l’addio alla mascherina va festeggiato come la fine della pandemia

Una notizia che non deve passare sottotraccia: tra pochi giorni scadranno le ultime restrizioni usate nell’azione di contrasto al virus terribile. Anche negli ospedali si potrà fare a meno della mascherina. Il 30 aprile, infatti, sarà l’ultimo giorno in cui non si potrà accedere alle strutture sanitarie senza indossare sul volto lo strumento protettivo, che nel pieno della pandemia ha salvato tante vite. E successivamente lo ha fatto nell’azione sinergica con il vaccino anti Covid. L’auspicio è di ritardare il più possibile l’arrivo di una nuova inevitabile pandemia, evento che si ripete nella storia.

Abbiamo atteso a lungo la luce in fondo al tunnel. Quando la televisione pullulava di virologi, esperti che studiavano l’andamento della curva epidemiologica, e il principio della gradualità ispirava le azioni del Governo nell’allentamento delle restrizioni. Rischiamo di non vederla adesso, la luce in fondo al tunnel, perché presi da altre preoccupazioni, come il vicolo cieco della guerra in Ucraina. L’addio alla mascherina va festeggiato come la fine della pandemia. O quantomeno il ridimensionamento forte della malattia, ospite che resta sempre sgradito, col quale bisogna convivere: l’Europa sta andando in questa direzione, con l’abbattimento delle ultime restrizioni, cadute già in Germania e in Portogallo, nei giorni scorsi. Il ritorno alla cosiddetta normalità significa potersi guardare in faccia e cercare l’altrui volto.  Cercare e non temere più le folle.

Sappiamo bene che ospedali, studi medici e strutture di riposo per anziani erano gli ambienti più a rischio per la circolazione e la trasmissione del virus. Il pericolo persiste finché l’Organizzazione mondiale della sanità non dichiara la fine della pandemia – potrebbe avvenire nei prossimi mesi. Caduto l’obbligo, l’utilizzo della mascherina sarà opportuno in particolari situazioni: nei reparti di Pneumatologia, o in strutture che assistono pazienti molto fragili, come i malati oncologici. Sui casi specifici potrebbero essere i direttori sanitari a decidere.

La strage degli innocenti, quando gli Alleati bombardarono Alessandria

Per non dimenticare. Per ricordare a noi stessi, in tempi di conflitto ucraino, e di minacce nucleari, che la guerra è sempre un incubo da scacciare: esattamente 78 anni fa, il 5 aprile, a venti giorni dalla fine della seconda guerra mondiale (1939-1945), gli alleati bombardarono la città di Alessandria. Si trattò dell’ultimo bombardamento alleato sull’Italia. Gli angloamericani lo effettuarono nel tentativo di sbarrare la strada ai tedeschi in ritirata. L’evento suscitò sentimenti di indignazione tra la popolazione, oltre a provocare un surplus di sofferenza, quando il conflitto stava per terminare.

Alessandria sotto le bombe

La città, che sembrava poter essere risparmiata dai bombardamenti nella seconda guerra mondiale, finì tra gli obiettivi dell’operazione “Strangle”. Perché il nodo ferroviario di Alessandria risultava essere fondamentale per i rifornimenti della Wehrmacht. Per questo la città fu bombardata nel 1944: dapprima il 30 aprile al quartiere Cristo, attacco che fece 239 vittime e centinaia di feriti e ingenti danni (fu distrutto lo storico teatro municipale e l’antico Palazzo Trotti-Bentivoglio, sede di biblioteche, musei e archivi civici), poi a più riprese fino al mese di settembre, quando risultarono distrutte 360 case (più di 1500 gli edifici danneggiati). A giugno gli ordigni avevano raggiunto i ponti dei fiumi Tanaro e Bormida. Prima di quei bombardamenti si contavano 12 morti. Vittime di un errore del bombardamento britannico che, anziché colpire Torino e Milano, raggiunse cascina Pistona e il sobborgo di Litta Parodi. Fu colpita inoltre una casa colonica a Cascinagrossa presso San Giuliano Piemonte. Le prime bombe caddero il 14 agosto 1940: le vittime furono 14, dei quali 3 bambini e 5 soccorritori.  

Il conflitto che impatta sulla comunità

La città fu segnata dai tragici eventi legati alla seconda guerra mondiale: dai bombardamenti all’occupazione tedesca, dalle persecuzioni degli ebrei alla Resistenza. Tornando alle bombe, l’ordigno sganciato il 5 settembre 1944 sventrò il rifugio antiaereo del rione Cittadella, in via Giordano Bruno, dando la morte a 39 civili. Possiamo immaginare l’impatto di quell’azione su chi credeva di stare al riparo. Di venti vittime non furono trovati neanche i resti.

Il 5 aprile

Le bombe degli aerei angloamericani che caddero quel giorno su Alessandria colpirono la cattedrale. Fecero numerose vittime, tra diversi rioni popolari e nel centro abitato, sebbene l’obiettivo fosse la stazione ferroviaria: 160 civili, 41 dei quali erano bambini (28), suore e insegnanti dell’Istituto Maria Ausiliatrice. Furono colpite alcune chiese, oltre alla cattedrale, l’ospedale infantile “Cesare Arrigo” e l’asilo di via Gagliaudo. Le case rase al suolo furono 45 e oltre 600 i feriti. Un attacco brutale, al punto che il comando provinciale dei partigiani del CLN (Comitato Liberazione Nazionale) inviò una nota di protesta al Comando Alleato in Italia. A distanza di tanti anni, la ferita resta aperta per la città di Alessandria.

La bellezza di un funerale senza lacrime

Quando un uomo di Dio ci lascia, il sentimento dominante è la serenità. Quella di chi ha vissuto nella fede sino all’ultimo istante. Allora, i travagli che non conoscevamo, in Benigno Luigi Papa, hanno trovato la via della pace. E quella personalità mite generosa riservata ha donato proprio la serenità ai fedeli che hanno riempito la Concattedrale per il suo funerale. Il fine studioso e uomo di preghiera, capace di penetrare, insegnare le Sacre Scritture, e soprattutto di viverle – ha ricordato nell’omelia l’arcivescovo di Taranto Filippo Santoro – ha messo la parola di Dio al centro del proprio cammino esistenziale ed esperienza pastorale. Una scelta condivisa dalla fiumana di sacerdoti che hanno preso parte alla stessa funzione in una chiesa affollata. C’era il cardinale, Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei e arcivescovo di Bologna; c’erano religiosi e laici provenienti anche dalla Calabria. E il sottoscritto che ha assistito alla bellezza di un funerale senza lacrime. Così, con sobrietà, la città di Taranto ha dato l’ultimo saluto all’arcivescovo emerito, spirato nella notte del 6 marzo.

Chi era Benigno Luigi Papa

Teologo di grande spessore, veniva dalla provincia di Lecce (Spongano), dove nacque il 25 agosto 1935. Fu ordinato sacerdote dall’arcivescovo di Bari Enrico Nicodemo nel marzo 1961. È stato alla guida della diocesi di Oppido-Mamertina-Palmi, arcivescovo di Taranto, vicepresidente per il Sud Italia della Cei e presidente della commissione episcopale per il clero e la vita consacrata e presidente della commissione episcopale per la famiglia. Quanto al legame con la città dei due mari, come ricorda Silvano Trevisani, subentrando a Salvatore De Giorgi egli fu pastore negli anni difficili di Taranto, quando c’era da contrastare la guerra di mala. Seppe opporsi sollecitando la reazione della comunità. Poi con una questione gigantesca si è dovuto confrontare. Quella ambientale, con la catastrofe che ha tanti corresponsabili. Il coinvolgimento nell’inchiesta “Ambiente svenduto” non lo poteva turbare. La riprova sta proprio nel suo funerale, in ciò che ha lasciato nei fedeli che gli erano affezionati. Nei non credenti che gli riconoscevano la mitezza e lo spessore culturale.

Il Quarto Stato oggi: migranti. Il fallimento della speranza

La tragedia ha occupato le prime pagine dei giornali, in mezzo agli altri accadimenti, gli articoli di fondo delle firme più autorevoli e più attente, l’apertura dei telegiornali. Ma quanto siamo presi dall’ultima strage di migranti? Quella avvenuta a due passi dalla nostre case – 150 metri dalla riva del litorale di “Steccato” di Cutro, a Crotone. Non abbastanza: la risposta che potremmo darci. A mio parere, non per egoismo o indifferenza, ma per la nostra umanità, in senso stretto: le immagini che non vogliamo vedere rappresentano il  fallimento della speranza. Ovvero di ciò che muove il cammino esistenziale. Ci viene in nostro aiuto l’Arte. Ad aprirci gli occhi, a motivare il nostro stesso atteggiamento, facendoci entrare in empatia con lo stato d’animo dei più sventurati è il dipinto di Giovanni Iudice intitolato “Il Quarto Stato oggi: migranti”. L’artista vi rappresenta il doloroso destino degli emigranti africani approdati sulle coste siciliane.

La lezione di Vittorio Sgarbi. Il destino dei migranti

Così il famoso critico d’arte, che in una recente lectio su “Europa e Mediterraneo” ha presentato il dipinto, scrive dello stesso: “Una singolare testimonianza di profondissimo impegno individuale, pur nell’ambito di convincimenti comuni, e meditando all’impegno etico di Antonio Lòpez Garcia, è quella maturata da Giovanni Iudice, pittore in equilibrio fra realismo magico e neorealismo, al quale si deve l’opera più impegnativa dipinta in Sicilia dopo La Vucciria di Renato Guttuso”. “Un’opera corale – chiarisce Vittorio Sgarbi – nella quale si rappresenta il destino degli emigranti dall’Africa sulle coste siciliane tra Lampedusa e Gela. Quella umanità rassegnata, incapace di decidere il proprio destino, rappresenta il fallimento della speranza cento anni prima evocata nel Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo”.

“Il cammino percorso da quel popolo si è interrotto. E il viaggio verso la speranza si è rivelato, per il popolo dei disperati, un viaggio verso la morte o verso il nulla”. Questo il messaggio, che l’Autore “racconta con freddezza, senza apparente coinvolgimento emotivo”. “Per il suo valore simbolico, l’opera è stata esposta nelle sale dell’Assemblea Regionale Siciliana a Palazzo dei Normanni”, ci ricorda Vittorio Sgarbi. La rassegnazione dei migranti è il nostro senso di impotenza rispetto al ripetersi di simili tragedie nel Mar Mediterraneo e al fallimento delle politiche Ue. Sentimento che non proviamo, invece, guardando alla guerra in Ucraina, laddove prevale l’indignazione e la speranza di poter cambiare qualcosa attivamente attraverso l’invio di armi. O nella ricerca di vie della pace, ancora meglio.

Al mare a novembre: non è un dramma il caldo fuori stagione

I catastrofisti parlano del cambiamento climatico. Che c’è, è in atto, con ogni evidenza, nell’anno più caldo dal 1800. Ma non si tratta di una anomalia inedita. Nessun dramma, allora, se potremo andare ancora al mare, secondo le previsioni. Almeno nei primissimi giorni del mese nuovo. Godiamoci queste belle giornate, il sole che dona benessere, che attiva i neuroni: per combattere proprio il cambiamento climatico servono, in un’azione comune, sinergica, le migliori risorse. Stare in pace con se stessi per assicurare un futuro alle persone con cui condividiamo il mondo.

Lo hanno definito Monster, l’anticiclone di Halloween che si farà valere nei prossimi giorni. La fase stabile dovrebbe durare fino al quattro novembre. L’unica insidia, nelle prossime ore, potrebbe arrivare dalle nebbie sulle pianure del Nord. Altrove caldo e cielo sereno su tutta la Penisola. Temperature comprese tra 27 e 30° C. Oltre alle ricadute negative del cambiamento climatico, nel medio e lungo termine, alle frequenti alluvioni (fenomeni localizzati che non si possono prevedere), a preoccupare adesso è l’assenza di precipitazioni al Settentrione: mai era piovuto così poco. In particolare al Nordovest. Tra le regioni più colpite ci sono il Piemonte, la Lombardia, Liguria e Valle d’Aosta.

Se in Italia si boccheggia, quasi, nelle ore centrali del giorno, anche in Spagna sono previsti 32 gradi a fine ottobre. Ovvero temperature record per il perdurare della stagione estiva che va avanti da sei mesi. Fatta eccezione per una piccola parentesi a settembre, quando anche in Italia le temperature sono scese persino sotto la media, sembra che l’autunno meteorologico non ne voglia sapere di entrare in vigore. Dalla Spagna alla Grecia passando per la Francia e la Germania, oltre al Belpaese, l’intera Europa occidentale è interessata da questa ondata di caldo anomalo. Nel resto del mondo, altro aspetto legato al cambiamento climatico sono le nevicate precoci: l’ondata di gelo che ha colpito le aree orientali dell’America, nei giorni scorsi.

Una storia di resilienza e di passione autentica

Inaugurata a Taranto la “Ciclofficina Conte”, il primo servizio a domicilio per la riparazione delle biciclette

“Io la bicicletta la sento con le mani”. Così Armando Conte prova a definire il rapporto che ha con la bici da corsa: per pedalare serve la parte inferiore del corpo, ma non solo. Soprattutto se in bicicletta ci vai da tanti anni – più di venti. Serve ogni organo. Lui (tarantino, classe 1984) l’ha conosciuta nell’estate del ’98, ai tempi del ciclismo pre-moderno, quando le gesta ineguagliabili del Pirata Marco Pantani facevano innamorare di questa disciplina tanti sportivi; non l’hai mai lasciata salvo prendersi delle pause. Adesso ha aperto una ciclo officina a Taranto. Il negozio si trova in viale Magna Grecia 69, ma è mobile, itinerante. Armando è il primo a offrire un servizio a domicilio nella città che vuole fare della mobilità sostenibile e della cultura della bicicletta un vettore di crescita. Avendo viaggiato e soggiornato al di fuori della città dei due mari, il ciclista ha avuto modo di formarsi, di accrescere il proprio bagaglio di conoscenze, e di mettere al servizio della comunità ionica le proprie competenze. Ha un trascorso da agonista tra le file del Gruppo sportivo “Marangiolo Taranto”. Fisico da scalatore, lunghe leve adatte anche a fare il ritmo quando la strada non pende, ha conosciuto la vittoria, le sconfitte, i momenti di prova. Una pedalata agile che conserva quando rimonta in sella ed è lontana la forma migliore.

Ha provato ad uscire dal suo mondo occupandosi d’altro: si è dato alla ristorazione, aveva una pucceria nel cuore di Taranto, prima di tornare tra le due ruote dedicandosi alla officina e vendita con “South Bike”, esperienza chiusa nel pre-pandemia. Ma il richiamo della bici è sempre più forte. Quella ce l’hai nel sangue, ti scorre nelle vene, e non la puoi sostituire. Per anni è stata la sua fedele compagna, con la quale uscire ogni giorno, con qualsiasi condizione meteorologica, sotto la pioggia o sotto il sole cocente dei primi pomeriggi di luglio o agosto: allenamenti e gare, migliaia di chilometri macinati con metodo, ad acqua e banane, la salita come il pane. Lei non lo ha mai tradito. In corsa non è mai finito a terra il corridore, che sembrava avere le antenne. Sapeva fiutare il pericolo. L’amore per lo sport, inteso come ricerca del benessere e sana competizione è rimasto intatto, al riparo da ogni esasperazione. La cura adesso è offerta a chi possiede una bicicletta attraverso il servizio a domicilio per le riparazioni del mezzo. Qualsiasi tipo di bicicletta (da città, da bambino, da corsa, mbt), monopattini ed anche carrozzine per invalidi.

La Ciclofficina Conte, inaugurata nella serata di mercoledì scorso, rappresenta allora un ulteriore punto di svolta nella vita professionale di chi ha scelto di restare nella propria terra, a beneficio dell’intera comunità ionica. Un’attività che può nascere solo dalla passione. E con la stessa, con perseveranza, va fatta crescere. 

Come un fiore nel deserto: l’invito alla castità di Francesco

Quante coppie arrivano al matrimonio senza aver avuto un rapporto intimo? Conosce la risposta lo stesso papa Bergoglio, che tuttavia, alla comunità dei fedeli e non credenti, indica la direzione, la strada da percorrere… La vera trasgressione oggi è il ritorno alla purezza. Che significa, riscoprire il piacere dell’attesa e della lentezza, della scoperta e della conoscenza; assaporare e non sperperare quel patrimonio immenso chiamato Bellezza. Ecco perché il messaggio di Francesco va letto come un accorato invito e non come un monito. Né un’ingerenza nella sfera privata e nella libertà delle persone che mirano al matrimonio. Arriva in tempi nei quali, come sempre, il credente è chiamato ad andare controcorrente. Non è un ritorno al Medioevo, insomma. La Chiesa romana cattolica, e il successore di Joseph Ratzinger particolarmente, si adeguano ai nuovi tempi senza rinnegare la Parola eterna. La comunità dei credenti ha il dovere di far aprire gli occhi su ciò che più conta.

LE NUOVE LINEE PER LA PREPAZIONE AL MATRIMONIO. “Non deve mai mancare il coraggio alla Chiesa di proporre la preziosa virtù della castità, per quanto ciò sia ormai in diretto contrasto con la mentalità comune”. Così il documento per il Dicastero dei Laici traccia l’orientamento. Ne sono coinvolte, in un rapporto dialettico, l’istituzione e le coppie: “Vale la pena di aiutare i giovani sposi a saper trovare il tempo per approfondire la loro amicizia e per accogliere la grazia di Dio. Certamente la castità prematrimoniale favorisce questo percorso”. L’obiettivo è assicurare la solidità del matrimonio. Creare basi solide, perché il castello non cada dopo poco tempo. Il Vaticano intende avere come interlocutori anche le coppie conviventi. E l’astinenza, chiarisce il documento, può essere praticata in alcuni momenti anche nello stesso matrimonio. Naturalmente come libera scelta. Espediente per mantenere accesa la fiamma della passione, che è uno degli ingredienti utili a tenere insieme le coppie.