Una miniserie che ha fatto discutere. Come tutte le fiction che parlano di mafia, di criminalità, soggette al rischio della spettacolarizzazione del male. Ma “Il capo dei capi” (2007) è senz’altro un prodotto d’eccellenza della televisione italiana. Riproposto poche volte sul piccolo schermo, Cine34, il giovedì in prima serata, sta mandando in onda la miniserie che vede protagonista Claudio Gioè alias Salvatore Riina. Per il poliedrico e talentuoso attore siciliano (recentemente ha fatto rivivere Mike Bongiorno in una serie della Rai) si può parlare della miglior interpretazione di sempre, quella del capo di Cosa nostra, del quale si ripercorre la vita in sei puntate
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Vaccini anticancro, la svolta è vicina
“Non molti anni fa avrei detto che non sarebbe mai stato possibile”. Lo ha dichiarato il Professor Alan Melcher dell’Institute of cancer research di Londra, con riferimento a quello che non è più un’utopia: i vaccini anticancro proseguono efficacemente la fase di sperimentazione. Siamo al punto di svolta. Realisticamente, il sogno potrebbe materializzarsi entro il 2030.
Vaccini anticancro, le pubblicazioni
Un vaccino per il melanoma, sviluppato dalle aziende statunitensi Moderna e Merck, noto come mRna-4157 (V940), ha completato gli studi della seconda fase su pazienti ai quali era stato asportato chirurgicamente un tumore in stadio avanzato. A tre anni dal trattamento il rischio di recidiva si è quasi dimezzato. Sebbene i risultati siano incoraggianti, per festeggiare bisognerà attendere quelli delle fasi successive. In fase di sperimentazione ci sono vaccini contro vari tipi di cancro – dai tumori della cute e delle ovaie a quelli del cervello e del polmone. Le sperimentazioni aperte sono oltre 400 in tutto il mondo. L’obiettivo condiviso è creare non un unico vaccino, ma tanti. I risultati di quello studio, su pazienti affetti da melanoma in fase III/IV, sono stati presentati a dicembre.
Cosa abbiamo imparato dalla pandemia
Gli studi sui vaccini a mRna si sono intensificati negli anni di lotta contro il Covid 19. Quelli utilizzati nell’azione di contrasto al virus, che nel 2020 ci era sconosciuto, inducono l’organismo a produrre una delle proteine del sars-cov-2: il sistema immunitario poi se ne serve per creare gli anticorpi. I vaccini anticancro potrebbero comportarsi in modo simile. La stessa pandemia ci ha insegnato che la prevenzione è meglio della cura (vaccinarsi contro il Covid serve ancora). Così i vaccini antitumorali devono progredire non solo per ridurre il ricorso a trattamenti invasivi come la chemioterapia o la chirurgia, ma perché possano essere usati addirittura a scopo preventivo, iniettati sui soggetti più a rischio. Allora si potrebbe parlare di vaccino propriamente in luogo del farmaco.
L’intuizione di William Coley
Il processo che ha portato ai vaccini anticancro è lungo più di un secolo. Dobbiamo risalire infatti alla fine del XIX, quando William Coley osservò un fenomeno sorprendente: un suo paziente affetto da un tumore al collo si riprese dopo aver contratto un’infezione batterica alla cute. Il chirurgo statunitense iniettò ad altri suoi pazienti un cocktail di batteri morti nel tentativo di far regredire i tumori. Era l’infezione quindi, secondo William Coley, a spingere il sistema immunitario a combattere il cancro. L’intuizione ha dimostrato la sua fondatezza. Ma lunga ancora è la strada da percorrere. La storia ci insegna che anche i vaccini evolvono: non si può negare la loro efficacia su malattie molto gravi o mortali. Qualora dovessero vincere anche il cancro, finalmente, il mondo della scienza farebbe uno straordinario passo in avanti per garantire all’essere umano non l’immortalità ma una vita senza troppe sofferenze.
Due anni fa l’arresto di Matteo Messina Denaro: il ricordo di “Pietra”
Parla il carabiniere del Crimor dei Ros che ha ammanettato l’ex numero uno di Cosa Nostra. Il suo nome in codice “Pietra”, insieme al collega “Turco” è stato protagonista di un’operazione storica, effettuata il 16 febbraio 2023, presso la clinica La Maddalena di Palermo: l’arresto di Matteo Messina Denaro, arrivato dopo 10.820 giorni di latitanza, era diventato un’ossessione per chi lo ha studiato per anni. Quella dedizione, il lavoro della magistratura e delle forze dell’ordine, resta l’unica certezza in mezzo a tanti misteri irrisolti
Gaza, la strage silenziosa e ininterrotta dei bambini
Il primo pensiero dovrebbe andare a loro. Oltre alle vittime dei “feroci bombardamenti russi” citati nel discorso di fine anno dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. A non scandalizzare mai abbastanza l’opinione pubblica sono i decessi a Gaza dei bambini. Si pensi che ogni dieci minuti ne muore uno. Quasi ottomila i neonati che rischiano la vita nella Striscia, tra condizioni igienico-sanitarie disastrose, carenza di acqua e cibo, bombardamenti sulle strutture ospedaliere. La responsabilità è di Israele.
Freddo killer
Il neonato morto nelle scorse ore per ipotermia fa salire a 8 il bilancio delle vittime, nelle ultime settimane, tra i bambini. A riferirlo, il ministero della Sanità di Gaza. Si tratta del piccolo Yousef Anwar Klubb. Che aveva solo trentacinque giorni, morto al Mawasi, nel sud della Striscia, in conseguenza delle difficili condizioni climatiche e del freddo intenso. Stessa sorte può capitare ad altre creature tra i 7.700 neonati a rischio – tanti sono, per esattezza, secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unrwa). Va ricordato che quasi la totalità dei 2,3 milioni di abitanti della Striscia è stata sfollata dalle forze israeliane. La conseguenza è che decine di migliaia di persone sono state costrette ad ammassarsi in precarie tendopoli lungo la costa meridionale di Gaza, dove le condizioni meteorologiche sono assai sfavorevoli.
Dall’inizio del conflitto sono almeno 15mila le piccole vittime. E laddove la notte si fa gelida, con temperature che scendono fino a 10 gradi sottozero, il bilancio è destinato tragicamente a salire. Anche il freddo quindi diventa un’arma in uso a Israele. Che costringendo tanti abitanti a fuggire nei mesi estivi, gli ha privati della possibilità di coprirsi.
Un inferno per i bambini
“A Gaza non c’è uno spazio sicuro, né un senso di stabilità per i bambini, che non dispongono di beni di prima necessità come cibo, acqua potabile, forniture mediche e vestiti caldi mentre le temperature invernali scendono. Le malattie prevenibili continuano a diffondersi rapidamente, tra cui più di 800 casi di epatite e più di 300 casi di varicella”. È la fotografia scattata da Catherine Russell. “Migliaia di bambini soffrono di eruzioni cutanee e infezioni respiratorie acute – sottolinea la Direttrice generale dell’Unicef – il clima invernale aumenta le sofferenze dei bambini”.
Il mondo non può distogliere lo sguardo da quanto accaduto. Né dai rischi ai quali sono esposti quotidianamente i più piccoli, rileva CR. Facendo questo appello da condividere: “Chiediamo con urgenza a tutte le parti in conflitto, e a coloro che hanno influenza su di esse, di intraprendere un’azione decisiva per porre fine alle sofferenze dei bambini, di rilasciare tutti gli ostaggi, di garantire il rispetto dei diritti dei bambini e di aderire agli obblighi previsti dal diritto internazionale umanitario”. Allo stesso modo vanno risolte e denunciate le difficoltà riscontrate da Save The Children nella raccolta e nella verifica dei dati nella Striscia. Perché le restrizioni di accesso e la distruzione delle infrastrutture lo impediscono.
L’orologio dell’apocalisse e l’utilità del Premio Nobel per la Pace
L’organizzazione insignita del riconoscimento è la giapponese Nihon Hidankyo. Alla quale è andato il premio Nobel per la pace 2024. Un risultato da festeggiare. Perché finché c’è qualcuno che parla di pace, e soprattutto che si adopera per realizzarla, possiamo non disperare. Premiare gli uomini e le donne di buona volontà significa anche onorare la memoria di quanti per la pace, per i diritti e la libertà, per la conservazione dell’umanità hanno lottato.
Nihon Hidankyo
Il nome completo dell’organizzazione è Confederazione giapponese delle organizzazioni di vittime delle bombe A e H. Essa riunisce i sopravvissuti ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki del 1945, i quali sono noti come Hibakusha. Nella loro opera di testimonianza viene riconosciuta una forte opposizione mondiale all’uso delle armi nucleari. Costoro vengono considerati testimoni storici. Come chiarito dal Comitato Nobel, gli Hibakusha ci aiutano a descrivere l’indescrivibile, a pensare l’impensabile e in qualche modo a comprendere l’incomprensibile dolore e la sofferenza causate dalle armi nucleari. Una follia che si rinnova anche attraverso i missili e le bombe convenzionali.
La Confederazione giapponese delle organizzazioni delle vittime della bomba atomica e delle bombe a idrogeno ha quasi settant’anni di attività (nata nel 1956). E la sua mission resta attuale e irrealizzata. Gli Hibakusha hanno preso parte alla tradizionale fiaccolata che si tiene in onore dei vincitori del Premio Nobel per la Pace: la cerimonia è andata in scena a Oslo, dove i membri della Nihon Hidankyo sono stati accolti dal pubblico sul balcone del Grand Hotel, dopo aver ricevuto il riconoscimento.
Quanta pace hanno portato al mondo i premi Nobel e i loro nominati?
Se lo chiede Maria Sokolova su Newizv.ru. A giudicare dal fatto che il trattato START-III tra Russia e Stati Uniti è scaduto nel 2023, e che l’Ucraina minaccia di cambiare il suo status nucleare e di costruire una bomba nucleare in pochi mesi, le attività di questa organizzazione non hanno avuto particolare successo. Non è la scoperta dell’acqua calda, potremmo aggiungere. Che c’è un premio ma non la pace. Ma è sempre stato così – continua MS – o il premio Nobel è diventato troppo politicizzato negli ultimi tempi?
C’è da ammettere che le figure premiate sono quelle nelle quali le comunità possono essere in qualche modo rassicurate. Così si ricorda il predecessore di Donald Trump alla Casa Bianca: “Vale la pena di assegnare il premio nobel per la pace nel 2009 al presidente degli Stati Uniti Barack Obama non per le sue azioni effettive (era presidente da dieci mesi e non aveva fermato un solo conflitto o ridotto le scorte di armi strategiche), ma per il fatto che la gente riponeva le proprie speranze in lui”.
Le conclusioni
“Nella storia del Premio Nobel per la Pace, 111 persone e 28 organizzazioni lo hanno vinto. Hanno contribuito a rendere l’umanità più pacifica?” È difficile dirlo, la risposta. Quel che è certo è che, nonostante tutti gli sforzi dei pacifisti, il tempo ci è nemico. L’epilogo: il cosiddetto Doomsday Clock, che è stato impostato 46 anni dopo l’assegnazione del primo Nobel, e le cui lancette sono mosse da ben 18 premi Nobel, indica oggi 90 secondi alla mezzanotte (cioè prima di un cataclisma nucleare). “Questo è il tempo più breve all’annientamento totale dell’umanità che l’orologio abbia mai indicato”. Speriamo funzioni male, o che si possa bloccare!
Scuole chiuse a Taranto: l’allerta meteo (arancione) e la polemica giustificata
La prudenza non è mai troppa: prevenire è meglio che curare, a costo di sovrastimare un pericolo reale. Così è arrivata l’ordinanza di chiusura degli istituti scolastici a Taranto. Come azione di contrasto all’allerta meteo, di grado arancione, diramata dalla Protezione civile per la giornata odierna, giovedì cinque dicembre. Una misura in parte contestata. Anche perché tardiva – l’ordinanza firmata dal vice sindaco Gianni Azzaro è stata pubblicata sul sito del Comune dopo la mezzanotte. L’opinione pubblica è divisa. Le motivazioni che stanno alla base dell’ordinanza sono condivisibili, chiare. Una soluzione tampone efficace. Ma la strada che porta all’adattamento al cambiamento climatico non può essere quella di starcene rintanati in casa. Occorre ripensare l’architettura urbana, le infrastrutture e le strade. Gli esempi virtuosi, che vanno in questa direzione, non mancano.
La città-spugna
Senza andare all’estero, nei Paesi più tecnologicamente avanzati, nella provincia di Varese (Busto Arsizio) è nato un progetto di rigenerazione urbana che trasforma il centro storico in una “Sponge City”: utilizzando depaving e verde urbano, si può migliorare la gestione delle acque piovane. L’iniziativa punta a rendere la città più resiliente e sostenibile. Un progetto che è stato finanziato dalla Regione Lombardia attraverso il bando “Sviluppo dei distretti del commercio 2022-2024”, mira a migliorare il deflusso delle acque piovane integrando specie vegetali a basso manutenzione e resistenza idrica perfettamente adattate all’ambiente urbano e al cambiamento climatico.
Il Depaving
Si tratta del processo di rimozione delle superfici impermeabili, come cemento o asfalto, da aree urbane, per ripristinare il terreno permeabile sottostante sostituendolo con un nuovo tipo di pavimentazione in porfido e granito bianco drenante. Ciò consente di ridurre l’effetto della impermeabilizzazione urbana che contribuisce ad allagamenti e inondazioni. E al sovraccarico delle fognature. Tale approccio innovativo che sfrutta le risorse naturali per assorbire l’acqua piovana, e prevenire i danni derivanti dagli eventi meteorologici estremi, ha l’obiettivo di contrastare l’impatto dell’urbanizzazione e dei cambiamenti climatici.
L’allerta meteo
Tornando a Taranto, va aggiunto che è stata disposta anche la chiusura del parco Cimino e dei cimiteri cittadini. Che in risposta all’allerta meteo, il Comune ha invitato la cittadinanza a osservare tutte le misure precauzionali previste allo scopo di salvaguardare la pubblica sicurezza e l’incolumità personale. La chiusura di tutti i plessi scolastici, di qualsiasi ordine e grado, degli asili nido pubblici e privati (nonché della frequenza delle attività scolastiche e di formazione superiore, di parchi, giardini e cimiteri presenti sull’intero territorio comunale) è stata decisa e trasmessa alla comunità attraverso l’ordinanza aggiornata alle ore 00:25 del 5 dicembre 2024. Meglio tardi che mai. Perché dall’allerta meteo alla catastrofe è un attimo, e mai vorremmo rivedere quelle immagini del maltempo che ha messo in ginocchio la Spagna, tre settimane fa.
Le carceri tra sovraffollamento e impraticabilità: l’allarme dei penalisti
“Una pena che tenda alla rieducazione, al trattamento individualizzato, alla progressività in ‘meglio’ del trattamento penitenziario, sembrano ormai miraggi difficilmente raggiungibili”. Così la Camera penale di Bari stigmatizza le condizioni in cui versano le carceri italiane. Altro che strutture adeguate al livello di civiltà: “La realtà quotidiana delle nostre carceri è diversa: violenze, spazi ristretti, aree trattamentali inadeguate, come abbiamo più volte constatato e denunciato nella casa circondariale di Bari”. Le carceri italiane sono oggi strutture incapaci di gestire un numero così alto di detenuti se non calpestandone la dignità – si legge nello stesso comunicato della Camera Achille Lombardo Pijola – e deludendo le legittime aspettative ad un trattamento penitenziario “rieducativo”, come previsto dalla Costituzione e dalle leggi sull’ordinamento penitenziario.
Le carceri focolaio di criticità
Il primo problema resta il sovraffollamento. Ma anche la mancanza di personale, il numero di suicidi elevato, le condizioni sanitarie inadeguate. Tutto ciò concorre a rendere quel luogo davvero infernale. La riprova sta nella più recente cronaca: in quelle raccapriccianti immagini delle violenze sui detenuti nel carcere di Trapani – 46 agenti sono indagati per torture e altri reati. Il malessere può degenerare sino al prezzo della vita umana. Nella lunga lista dei suicidi è finito Ben Mahmud, tunisino di ventotto anni, che è stato l’81esima vittima nelle carceri italiane. C’è poi il nodo irrisolto delle persone tossicodipendenti. Secondo il Coordinamento delle comunità di accoglienza (Cnca), ci sarebbe la possibilità di farle uscire dalle carceri con le misure alternative. I numeri riferiti al 31 dicembre scorso dicono che i detenuti tossicodipendenti presenti negli istituti di pena sono 17.405. Ovvero il 29 per cento della popolazione carceraria totale (60.166).
Il sovraffollamento
La Camera penale aveva già denunciato le criticità del carcere di Bari. Questa estate, infatti, nell’ambito dell’iniziativa nazionale “Ristretti in Agosto” proposta in collaborazione con l’Unione delle Camere penali italiane, aveva organizzato una visita nel penitenziario di Carrassi invitando anche i parlamentari. Immaginiamo quanto il caldo, sempre più intenso ogni anno, possa essere un elemento aggravante. Non va meglio nelle altre stagioni. Non c’è primavera per quanti si trovano nelle carceri pugliesi e italiane. Tornando al sovraffollamento, va sottolineato che a Bari ci sono mediamente quasi 400 detenuti, a fronte di una capienza di 260 posti. Numeri purtroppo in linea con quelli degli altri istituti penitenziari italiani. A nulla è valsa la sentenza Torreggiani: correva l’anno 2013 quando la Corte europea dei diritti umani condannò l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU). Ovvero per i trattamenti inumani e degradanti, che si ripetono nel disprezzo della dignità umana.
Il cambiamento climatico impatta sulla salute: l’allarme dell’Oms
Non solo eventi meteo estremi. Che, destinati a moltiplicarsi, trasfigurano i paesaggi e danneggiano l’economia. Non solo danni materiali o affettivi, perdite di attività e di vite: il cambiamento climatico può impattare negativamente sulla qualità della vita. Ovvero sulla salute delle persone in tutto il globo.
LA LOTTA AL CAMBIAMENTO CLIMATICO COME PRIORITA’ ASSOLUTA- Gli esperti non hanno dubbi. “Il cambiamento climatico ci sta facendo ammalare, e intervenire con urgenza è una questione di vita o di morte”, avverte l’Organizzazione mondiale della sanità. Il danno più evidente è il caldo estremo. Che comporta numerosi rischi per la salute: dai disturbi renali alle malattie cardiovascolari e respiratorie, dal rischio di complicanze per le donne incinte o per i soggetti più fragili con patologie, sino al decesso dell’individuo, alle morti premature. Quasi certamente il 2024 sarà l’anno più caldo mai registrato. Si dovrebbe superare il record del bollente 2023, secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM). Gli altri fattori che influenzano la salute derivano dall’inquinamento atmosferico. Si pensi che nei giorni scorsi la seconda città più grande del Pakistan, Lahore, ha registrato valori 40 volte superiori al livello ritenuto accettabile dall’Oms.
LE MALATTIE INFETTIVE- Il cambiamento climatico costringe uccelli, zanzare e mammiferi a spostarsi oltre i loro habitat ideali. Il risultato è che gli stessi possono diffondere malattie infettive. Parliamo di quelle trasmesse dalle zanzare: dengue, chikungunya, virus Zika, virus del Nilo occidentale e malaria. A causa del riscaldamento globale potrebbero diffondersi ulteriormente. Il rischio è già concreto. Quello di trasmissione della dengue, infatti, è aumentato del 43 per cento negli ultimi 60 anni, secondo The Lancet Countdown – oltre 5 milioni i casi registrati lo scorso anno.
GLI ACCORDI SUL CLIMA- La madre di tutte le questioni dovrebbe essere in cima alle agende di governo e monopolizzare il dibattito pubblico. L’auspicio quindi è che il prossimo presidente degli Stati Uniti cambi posizione: nel giorno del suo nuovo insediamento alla Casa Bianca, il 20 gennaio 2025, Donald Trump firmerà l’ordine esecutivo per il ritiro dall’accordo di Parigi sul clima. A rivelarlo, il Wall Street Journal. E c’è da crederci, visto che il successore e insieme predecessore di Joe Biden si era già ritirato dall’accordo nel 2019.
Ricordiamo che il trattato internazionale stipulato nel 2015 tra gli Stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) si propone l’obiettivo di contenere la temperatura media globale ben al di sotto della soglia dei 2 gradi. Possibilmente sotto 1,5° rispetto ai livelli preindustriali. La realtà dice che la direzione in cui si sta andando è contraria: si stima un aumento della temperatura compreso tra 2,6 e 3,1 gradi, entro la fine del secolo. Una catastrofe. L’Italia, per scongiurarla, è disposta a fare la sua parte, ha assicurato la premier Meloni intervenendo alla Cop29.
Inondazioni, auto inghiottite dalla corrente o distrutte dalla grandine: il maltempo in Spagna
Fino a 490 mm di pioggia. Ovvero la quantità che solitamente cade in un anno. È venuta giù in sole otto ore a Valencia, in Spagna. È l’eccezionale ondata di maltempo innescato dal cambiamento climatico. La stessa perturbazione che, nei giorni scorsi, si è abbattuta sul nord Italia, ha provocato danni e vittime in numero ancora non precisato. Le ricadute in queste immagini – tra gli eventi meteo estremi documentati c’è anche un tornado abbattutosi su un’autostrada.
Crisi umanitaria in Medio Oriente: la denuncia di Medici senza frontiere
Gli aiuti che servono sono urgenti. I numeri, impressionanti, quelli riferiti alla crisi in Medio Oriente: 1,9 milioni di sfollati nella Striscia di Gaza, dove si contano quasi 43.000 vittime, e oltre 112mila in Libano. Persone che necessitano di ogni bene di prima necessità. Ovvero di acqua, di cibo, cure e rifugi. È la denuncia di Medici senza frontiere. Che invita le comunità a non ignorare questa guerra che si protrae senza soluzione di continuità.
Il contributo di Medici senza frontiere
La grande organizzazione umanitaria offre assistenza. Lo fa quotidianamente nella Striscia di Gaza fornendo cure in diverse cliniche e strutture ospedaliere: i volontari di Medici senza frontiere distribuiscono acqua, allestiscono lastrine e tende, forniscono supporto psicologico a chi ha bisogno. Perché le ferite della guerra vanno al di là del corpo per farsi traumi e cicatrici incancellabili. Deve esserne consapevole Israele, il cui obiettivo sembra essere quello di svuotare della popolazione palestinese la Striscia di Gaza, ha accusato Abu Mazen.
La grande fuga
Corpi sparsi sulla strada e gente disorientata costretta a lasciare casa – chi è rimasto fermo nel nord di Gaza è stato torturato. Feriti nell’ospedale Kamal Adwan e altri che non possono raggiungere alcuna struttura per farsi curare. È la fotografia scattata sul posto da un medico chirurgo di Medici senza Frontiere. Quando l’Idf, l’esercito israeliano, ha ordinato agli abitanti di Beit Lahia di spostarsi verso il centro di Gaza. La denuncia viene anche dall’Unicef: a causa degli ordini di sfollamento di massa e della mancanza di pause umanitarie, si è dovuto rimandare la campagna di vaccinazione antipolio.
Quello che possiamo fare
Medici senza frontiere invita a donare 0,23 centesimi al giorno. Tanto basta per garantire cure mediche, acqua pulita e cibo terapeutico in Libano e a Gaza. E ovunque serva. L’organizzazione è seria, affidabile. Lo dimostra da anni sul campo. Al netto delle chiacchiere, delle parole che non sono nemmeno tante (di guerra si parla poco nei telegiornali), la donazione è l’atto più concreto delle quali le popolazioni possono beneficiare. Altre forme di donazioni vanno da 7 a 20 euro al mese.
Nuovi crimini
La cronaca intanto ci porta all’allargamento del fronte di guerra in Medio Oriente. È strage a Gaza: l’esercito di Tel Aviv, ha riferito la protezione civile di Gaza, si è reso responsabile di un massacro di massa, radendo al suolo almeno dieci edifici residenziali nel campo profughi di Jabalya. Ciò ha portato a morti e feriti in numero ancora imprecisato. Un nuovo fronte si è aperto in Siria. Laddove la Turchia ha intensificato gli attacchi. In Libano, vicino al confine con la Siria, nella parte orientale, almeno tre giornalisti che lavoravano per tv filo-iraniane hanno trovato la morte in un raid aereo israeliano. E prendere di mira gli operatori dell’informazione è un altro crimine di guerra da condannare.
“La vera pace va conquistata ogni giorno”: Wojtyla prima di diventare Giovanni Paolo II
Quarantasei anni fa, il 16 ottobre 1978, l’elezione a Pontefice di un gigante della fede, protagonista del secolo scorso. Un uomo che mai ha dato le dimissioni per svolgere la sua missione sino all’ultimo respiro in questo mondo. Nonostante la malattia, in modo eroico. Il suo nome è Karol Wojtyla (1920-2005). La sua presenza si fa viva ed eterna nei luoghi di culto, ma non solo: recentemente è uscito un libro contenente 366 frammenti, brevi testi inediti, datati al periodo antecedente quella data storica, dagli anni Quaranta al ’77. Riguardano la vita interiore e quella di relazione. Il volume si intitola “La meta è la felicità” (Edizioni Ares) e porta la prefazione di papa Bergoglio. Che ha definito lo stesso un assaggio delle doti umane, pastorali, culturali e teologiche di San Giovanni Paolo II.
Superfluo sottolineare quanto siano attuali quelle riflessioni. Delle quali sono destinatari in modo particolare i giovani, nei quali Karol Wojtyla credeva molto; e poi coppie, famiglie, lavoratori, ammalati e operatori sanitari. Naturalmente i comuni fedeli.
Figura rimpianta (eppure viva), chissà come avrebbe letto, il papa polacco, gli attuali sconvolgimenti. Il caos che domina il mondo. Certamente ci avrebbe invitato alla perseveranza, a non perdere la bussola. E a fare del dialogo l’unica arma a nostra disposizione. Insieme al sentimento inteso come potenza dominatrice, risorsa irrazionale e insieme inesauribile. (“Più è sconsiderato più è grande, l’amore, si può persino dire”). Ci avrebbe invitato a rialzarci dopo ogni caduta. Lui che guardava all’essere umano nella sua interezza. Consapevole che siamo fatti di anima, corpo, sensualità e spiritualità. E che grazie a quest’ultima l’essere umano “trascende smisuratamente tutto il mondo degli esseri viventi”. La sua vita allora si realizza soltanto in Dio Creatore. A Lui dobbiamo parlare nella ricerca di ogni soluzione.
Ecco alcune delle annotazioni raccolte in La meta è la felicità, sulle quali può meditare ogni lettore. Sono estrapolate da tanti discorsi, lettere, omelie, dai numerosi incontri avuti dal predecessore di Benedetto XVI. Suddivise per argomento, queste sono indirizzate al cuore di ogni individuo. O meglio, della persona:
L’uomo non vive per la tecnologia, la civiltà e nemmeno per la cultura, ma vive per mezzo di esse, mantenendo costantemente la propria finalità
Dobbiamo ogni giorno conquistare la vera pace. E questa pace ha fondamenta profonde; non si limita solo agli slogan e agli annunci politici. Deve basarsi sui diritti umani, sul loro rispetto
Bisogna che nel programma educativo dei nostri tempi l’amicizia occupi un posto di rilievo
L’essenza della felicità non consiste nella distruzione del corpo, ma nel nutrirlo di luce
La felicità non è la via, ma la meta di ogni percorso umano
La società in quanto tale è sempre una creazione temporale, mentre la persona in quanto tale è destinata a vivere in eterno
Karol Wojtyla
Digiunare dalla vendetta: la preghiera laica per la pace nel mondo
Sette ottobre. Una data spartiacque, al pari dell’undici settembre: l’umanità si riscopre vulnerabile agli attacchi più distruttivi, che possono venire a sorpresa. Era ben pianificato, invece, quello di Hamas su Israele, accaduto l’anno scorso. Da allora l’escalation ha finito con l’aprire ben 7 fronti di guerra. Sanguina il Medio Oriente, e si preoccupa l’intera Europa, l’Occidente. Perché la spirale dell’odio e della violenza non si arresta. Così la pace, intesa come cessazione delle ostilità, ovvero tregua, sembra irrealizzabile nel medio termine.
Pregare per la pace in ogni forma
“Volgere lo sguardo al mondo. I fuochi di guerra continuano a sconvolgere popoli e nazioni”. È l’esortazione di papa Bergoglio. Che inaugurando la sessione conclusiva del Sinodo, con la Celebrazione Eucaristica del 2 ottobre scorso, continua a predicare instancabilmente la cultura della pace e del rispetto. Per onorare l’odierna tragica ricorrenza, per combattere la guerra, Francesco invita a vivere una giornata di preghiera e di digiuno. Anche domani 8 ottobre. L’iniziativa può essere condivisa da ogni popolo, in forma individuale o comunitaria. Digiunare giova allo spirito, oltre al corpo: ci aiuta a riflettere sulle priorità, su ciò che è essenziale alla nostra sopravvivenza. Serve dialogare e resistere alla tentazione della vendetta. Pensiamo a quanto sta accadendo negli ultimi giorni. E in queste stesse ore: Hamas lancia razzi verso Israele durante la cerimonia per il 7 ottobre; Israele si accinge a sferrare l’attacco contro l’Iran, ritenuto responsabile di tutte le minacce di guerra totale in Medio Oriente; l’Iran a sua volta ha già compiuto la sua vendetta per il leader della milizia libanese Hezbollah, Nasrallah, con una pioggia di missili su Israele. La cui reazione è imminente. Seguirà un’altra vendetta, con il coinvolgimento di altre nazioni. E così via. Mentre la guerra in Ucraina non è ancora un ricordo.
Il 7 ottobre
Un anno fa il massacro al Festival musicale Nova di Re’im. Il rapimento e l’uccisione dei giovani che prendevano parte all’evento, per mano dei terroristi (oltre 250 ostaggi, 800 civili morti), è un fatto cruento meritevole di condanna senza riserve. La scintilla che ha dato origine alla guerra a Gaza. Dodici mesi che hanno sconvolto il mondo. Una mattanza che fa delle vittime i nuovi carnefici. Perché i 40mila morti per l’attacco di Hamas e per l’invasione israeliana dell’ottobre 2023 (37.396 secondo il Ministero della Salute di Gaza) ce li abbiamo sulla coscienza. Per non parlare dei bambini. Delle creature innocenti, alle quali consegniamo un mondo dominato dal caos e della violenza. Più che salvare vite, scongiurare altre catastrofi umanitarie, la priorità adesso è diventata la caccia a Hamas, che governa la Striscia di Gaza dal 2007 avendo vinto in quell’anno le elezioni parlamentari palestinesi. E che vuole fare della Palestina una patria islamica da sottrarre al controllo israeliano. Questo movimento viene riconosciuto come organizzazione terroristica. Almeno, nella sua ala militare, universalmente. Sconfiggere Hamas è complicato quanto portare la pace attraverso la guerra.
Crisi climatica e non solo: la più grande alluvione che flagellò Palermo
Sicilia, 27 settembre 1557, ore 20.00. Una spaventosa alluvione a Palermo provoca un’ondata di fango che raggiunge la città dai monti, con conseguente scia di distruzione e di morte. Migliaia le vittime. Un numero imprecisato compreso tra 2000 e 7000, e oltre. Siamo alla metà del XVI secolo, ben lontani dai giorni che viviamo oggi, condizionati dalle ricadute drammatiche del cambiamento climatico: gli eventi meteo estremi si stanno sì moltiplicando nell’ultimo trentennio, ma quei numeri, fortuna nostra, sono inimmaginabili adesso.
La grande alluvione
Gli storici fanno riferimento a quell’evento, attestato dalla relazione del Maestro Razionale del Regno Pietro Agostino, come il più violento che colpì l’allora capitale del Regno di Sicilia. Un’alluvione assimilabile a una tempesta perfetta. Ci furono delle repliche in questi anni: 1666, 1769, 1772, 1778, 1851, 1862, 1907, 1925, 1931. Il comune denominatore è il caldo eccezionale o i periodi siccitosi che hanno preceduto le abbondantissime precipitazioni. Con riferimento alla catastrofe del 1557, il nubifragio ebbe inizio il ventuno settembre protraendosi per giorni. Il 27 avvenne il cedimento del Ponte di Corleone, muro-diga che serviva ad arrestare le acque meteoriche provenienti da Monreale, per scaricarle nell’alveo del fiume Oreto. I danni alla struttura edilizia e al tessuto economico della città furono ingenti – mille case distrutte. Colpa di scelte ingegneristiche errate e degli interventi di prevenzione fatti male.
Adattarsi al cambiamento
La storia ci insegna che questi eventi si sono sempre verificati nel tempo. Tuttavia, a convalidare la tesi del cambiamento climatico, processo irreversibile da mettere al centro delle agende di governo, c’è l’elevata frequenza. L’alluvione è quell’evento che si ripete facendosi sempre più intenso. Si pensi all’accanimento delle precipitazioni in alcune aree come l’Emilia Romagna – sono caduti 300 litri di acqua per metro quadrato in soli quindici giorni. Sebbene certi fenomeni ci vedano spettatori, senza volerlo, la nostra unica possibilità di sopravvivenza è legata alla capacità di adattamento, per mezzo del progresso e dello sviluppo delle tecnologie moderne. Va sottolineato che le previsioni meteo sono sempre più precise. Almeno quelle provenienti da siti affidabili, alle quali lavorano gli studiosi, come gli esperti dell’Aeronautica militare.
I danni della crisi climatica
I numeri sono inquietanti. È l’Osservatorio Anbi sulle Risorse idriche a divulgarli: dall’inizio del 2024 al 15 settembre si sono registrati 212 tornado, 1.023 nubifragi e 664 grandinate con chicchi di dimensioni grandi. In totale gli eventi estremi sono 1.899. Lo Stivale, quindi, è diventato l’hub mediterraneo della crisi climatica, con piogge torrenziali concentrate sulle aree costiere dell’Adriatico. Eppure sino a non molto tempo fa l’Italia veniva identificata nella mitezza mediterranea. Si guardava ai tornado come a un fenomeno lontano, riguardante in particolare gli Stati Uniti d’America. Quanto ai danni, alla necessità di adattarsi al cambiamento climatico, c’è da dire che dagli anni Ottanta manca in Italia una pianificazione nazionale di interventi per la prevenzione idrogeologica, e si preferisce intervenire con fondi per le emergenze. Una verità scomoda. L’ha denunciata il presidente dell’Anbi Francesco Vincenzi.
Edizione straordinaria TG1 – 11 settembre 2001
Come venne data la notizia degli attentati dell’11 settembre 2001: le immagini live riprese dalla CNN, le dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti George W. Bush, il crollo di una delle due torri del World Trade Center. La grande apprensione e un punto interrogativo aperto. Allora ha avuto inizio la storia di un fallimento – dopo 23 anni i Talebani sono ancora al potere e proteggono Al Qaeda
Se non ci importa un Corno d’Africa della terza guerra mondiale a pezzi
Non solo Medio Oriente e Ucraina. Di guerre è pieno il mondo, e un fronte che preoccupa non poco è quello apertosi nell’Africa Orientale. Una guerra da fermare prima che sia troppo tardi per intervenire. Il responsabile di una catastrofe imminente è Abiy Ahmed Ali con i suoi progetti discutibili e le sue mire espansionistiche: il primo ministro etiope vuole fare dell’Etiopia uno Stato costiero. Ne è ossessionato al punto da volere lo sbocco sul mare non solo con i negoziati ma anche attraverso l’uso della forza. Sebbene l’ex militare fosse stato insignito del premio Nobel per la Pace 2019, grazie alla sua iniziativa risolutiva del conflitto con la confinante Eritrea. Così nel Corno d’Africa la situazione è sempre più insostenibile. E pure gli europei dovrebbero guardarne gli sviluppi con sentimenti di preoccupazione.
L’obiettivo di Abiy Ahmed nel Corno d’Africa
Tra i cinque Paesi costieri confinanti con l’Etiopia il più debole è la Somalia, che per trent’anni è stata oggetto di una devastante guerra civile: lo scorso primo gennaio Abiy Ahmed, che ricordiamo in visita a Roma per la Conferenza Italia-Africa, aveva firmato un memorandum d’intesa con il presidente del Somaliland per il riconoscimento della stessa repubblica separatista in cambio di una base navale di 12 miglia nel Golfo di Aden. La Somalia però si è opposta lanciando un’offensiva diplomatica per dimostrare il tentativo di controllare con mezzi illegali il territorio somalo. Dalla sua parte, le Nazione Unite, gli Stati Uniti e l’Unione europea, oltre all’Unione africana hanno riaffermato il principio della sovranità nazionale e la necessità di rispettare i confini stabiliti. Ma il primo ministro etiope non ha ceduto.
Una polveriera dagli effetti imprevedibili
Le pressioni internazionali non hanno avuto esito positivo. Non quella esercitata dall’amministrazione Biden, che ora pensa alle elezioni presidenziali, alle guerre in Medio Oriente e in Ucraina, più che al Corno d’Africa. Così la Somalia deve fare i conti con un’insurrezione estremista. Anche Abiy Ahmed attende di conoscere chi sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti. Le tensioni crescono, intanto, nelle ultime ore, in tutta la stagione estiva: per due volte l’Etiopia ha mandato le sue truppe in Somalia, noncurante delle proteste andate in scena al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. A sostegno del Paese ci sono la Turchia e l’Egitto. Ma la mediazione di Ankara non è riuscita.
La guerra avrebbe un impatto devastante sia per la Somalia che per l’Etiopia, con il coinvolgimento della comunità internazionale, in particolare degli Stati del Mar Rosso: dalla Russia agli Usa passando per l’Europa e la Cina gli interessi in gioco sono multipli – la strategicità della zona metterebbe in pericolo il commercio. Tanti i soggetti che potrebbero intervenire con l’aggiunta dei gruppi terroristici. Le comunità, però, non hanno ancora percezione di quanto potrebbe accadere: di questa crisi si parla poco o nulla.
“Emily in Paris” parla italiano nella quarta stagione: nel cast anche Raul Bova
Un’americana a Parigi. Una francese quasi acquisita che subisce il fascino del Belpaese: nella quarta stagione di “Emily in Paris” vedremo personaggi nuovi, e volti noti, da Eugenio Franceschini a Raul Bova. Esempio di contaminazione, la serie televisiva romantica statunitense, con protagonista Lily Collins, è un prodotto di successo (due nomination ai Golden Globe 2021) rivolto in particolare al pubblico più giovane. Nel suo linguaggio moderno, non è esente dalla polemica. Continua infatti ad essere criticato per aver alimentato gli stereotipi francesi. La nuova stagione arriva il 15 agosto su Netflix – la seconda parte sarà disponibile a partire dal 12 settembre.
Emily in Paris 4, ecco il trailer:
Paolo Borsellino dopo Capaci: l’ultima intervista di Lamberto Sposini al magistrato
L’amicizia con Giovanni Falcone, il soggiorno all’Asinara e il lavoro instancabile; l’esperimento inedito del pool antimafia, il destino comune di chi ha combattuto fino in fondo la criminalità organizzata, per dovere morale e senso dello Stato: l’ultima intervista di Lamberto Sposini a Paolo Borsellino, datata alla fine di giugno 1992, venti giorni prima che il giudice venisse assassinato (un mese dopo la strage di Capaci), è una lezione aperta sulla legalità. Che le nuove generazioni devono conoscere e assimilare
Texas, giustiziato Ramiro Gonzales: la barbarie della pena di morte
Qualcuno la reintrodurrebbe. La invoca per reati abominevoli, come lo stupro e l’uccisione di una donna; ma la pena di morte non può salvare il mondo, né avere alcuna utilità giuridica. Alimenta solamente la sete di vendetta scambiata per giustizia. Anacronistico, o forse no, mantenerla (la logica dell’occhio per occhio è sempre imperante, in tempi di guerra), l’ultimo ad essere stato giustiziato in Texas è il 41enne Ramiro Gonzales: alle 18.50 di mercoledì scorso ventisei giugno, l’uomo è stato sottoposto a iniezione letale nel penitenziario statale di Huntsville, ed è morto nel giro di un minuto.
L’abominio
I fatti risalgono al 2001. Allora Ramiro Gonzales si rese colpevole del rapimento e della morte della 18enne Bridget Townsend: il sequestro avvenne in una casa di campagna nella contea di Bandera. Dopo essere stata abusata la giovane fu uccisa. Solamente nell’ottobre del 2002 i suoi resti furono ritrovati grazie allo stesso killer, che aveva già ricevuto due ergastoli per aver rapito e violentato un’altra donna. Nel 2006 la condanna a morte: inutile la difesa dei legali, in appello dinanzi alla Corte Suprema, i quali cercavano di dimostrare come la non più pericolosità dell’individuo, e la buona condotta: il suo impegno nella fede cristiana, e la dedizione verso gli altri detenuti – anche i tentativi di donare un rene a uno sconosciuto. Con il voto di 7-0 il Texas Board of Pardons and Paroles si è rifiutato di concedergli la clemenza.
Il pentimento di Ramiro Gonzales
Non sappiamo se fosse sincero. Ma, consapevole del dolore causato, in più occasioni Ramiro Gonzales si era scusato con la famiglia Townsend. Dichiarando di aver continuato a vivere al meglio delle sue possibilità, per la restituzione, il ripristino, l’assunzione di responsabilità. E di non aver mai smesso di pregare per il perdono. Che non ha mai ricevuto.
La reazione della famiglia
“Abbiamo finalmente assistito alla giustizia. Questo giorno segna la fine di un lungo e doloroso percorso per la nostra famiglia: per oltre due decenni abbiamo sopportato un dolore e uno strazio inimmaginabili”. Queste le parole del fratello della vittima David Townsend alla notizia dell’esecuzione avvenuta. Uno sfogo di certo comprensibile, che non tiene conto della funzione rieducativa della pena, e della sacralità della vita.
La pena di morte nel mondo
Più di mille esecuzioni (1153) in 16 Paesi. Uccisioni avvenute soprattutto in Cina, poi in Iran, Arabia Saudita, Somalia e Stati Uniti. È la fotografia scattata da Amnesty International riferita all’anno scorso. La stessa organizzazione, sempre ferma nell’opporsi incondizionatamente alla pena di morte, precisa che sono state registrate 508 esecuzioni solo per reati legati alla droga. Alla fine del 2023, 112 Paesi erano completamente abolizionisti e 144 in totale avevano abolito la pena di morte nella legge o nella pratica. Vige ancora in un Paese civile e democratico e potenza guida come gli Stati Uniti.
La sfida del cambiamento climatico: sconfiggere il maltempo con potenti esplosioni
Non è un metodo che rassicura. Ma magari funziona, l’idea da cui prendere spunto, nell’azione di contrasto a un processo divenuto ormai irreversibile, da porre come la madre di tutte le questioni: prevenire la formazione di vortici atmosferici come tornado e tifoni attraverso ordigni esplosivi. La teoria rivoluzionaria porta la firma degli scienziati russi. Per combattere gli effetti più devastanti del cambiamento climatico, servirebbero cinquanta ordigni con una capacità totale di 4 chilotoni, installati con competenza, al posto giusto. È fattibile?
Le potenze nucleari unite nella lotta al cambiamento climatico
“Tali esplosioni possono essere effettuate in qualsiasi stadio dello sviluppo del tifone. L’importante è che siano nei punti giusti e di potenza sufficiente: i calcoli hanno dimostrato che per fermare l’intera massa rotante alla base del ciclone, avremmo bisogno di un’energia molto grande”. Così Sergei Bautin sulla rivoluzionaria teoria. Lo stesso professore presso la sede del MEPhl di Snezhinsk ha chiarito: “Ci vorrebbe almeno una bomba atomica. Ma se si sa dove farla esplodere, ci si può limitare a esplosioni meno potenti”. “Per calcolarlo, dobbiamo conoscere la velocità del flusso ascensionale intorno al centro del ciclone – aggiunge – la sua geometria, i diametri e le distanze. In sostanza, dobbiamo fermare non il movimento circonferenziale, ma quello verticale verso l’alto dell’aria lungo l’intera circonferenza attorno al centro del vortice atmosferico”. In sostanza, la questione è assai complessa, e sebbene possa avere un certo fondamento scientifico, a noi pare essere una follia. E mai vorremmo assistere a una guerra nucleare spacciata per lotta al cambiamento climatico. A tal proposito, l’avvertimento degli scienziati è che un’esplosione di tale potenza dovrebbe essere coordinata con gli altri Stati.
Il metodo e l’applicazione
Al netto di una serie di problemi grossi da risolvere, secondo Sergei Bautin, non solo sarebbe possibile fermare un ciclone, ma pure ricavarne energia. Sulla stessa lunghezza d’onda il coordinatore del programma di rinverdimento industriale del Centro per la conservazione della fauna selvatica Ihor Shkradyuk sostiene che l’esplosione possa anche reindirizzare il flusso d’aria. Di diverso parere il ricercatore capo dell’Istituto di ricerca spaziale dell’Accademia delle scienze russa Sergei Pulinets, per il quale esistono modi più semplici per fermare i tifoni senza dover far esplodere nulla. Ad esempio riscaldando la parte superiore del ciclone tramite ionizzazione. Mikhail Leus infine ha precisato che per l’applicazione della rivoluzionaria teoria ci vorrebbe una potenza di esplosione di gran lunga superiore a quella delle bombe sganciate su Nagasaki e Hiroshima: gli scienziati dell’Istituto di Fisica e Tecnologia di Snezhinsk dell’Università nazionale di Ricerca nucleare MEPhl cercano di essere propositivi, positivi, e insieme realisti.
Guerra Ucraina: la libertà di informazione, tra i media russi, va salvaguardata sempre
Il dovere di informare. E pure di sparare “balle”, eventualmente, se la verità da accertare è un’altra, è un diritto da tutelare sempre: non tutti hanno accolto favorevolmente le nuove restrizioni che l’Unione europea intende introdurre sulle trasmissioni dei media russi. È già contraria la Svizzera. Che pure aveva adottato tutte le sanzioni imposte dell’Ue contro la Russia, a causa della guerra in Ucraina.
Il pensiero unico e le contraddizioni dell’Occidente
La comunità di esperti sottolinea che le azioni di Bruxelles contraddicono i principi di rispetto della parola e perseguono l’obiettivo di ripulire lo spazio informativo in Europa. A sottolinearlo è Izvestia. Il pensiero unico, insomma, sulla guerra in Ucraina, è dominante. La contrarietà della Svizzera invece è motivata dal suo portavoce del Ministero degli Esteri, Nicolas Bidault, il quale ha dichiarato che non si ha in programma di sospendere le trasmissioni di alcun media.
Guerra in Ucraina, le restrizioni contro la propaganda
Il Parlamento europeo è fiducioso che l’Ue possa compiere questo passo al più presto. Lo ha fatto sapere il rappresentante della Commissione europea e portavoce della politica estera Peter Stano. Le restrizioni erano state preannunciate dal Consiglio dell’Ue, lo scorso diciassette maggio, ai danni di tre media russi: RIA Novosti, Rossiyskaya Gazeta, e la stessa Izvestia. A questi si aggiunge Voice of Europe. Portale che è stato sottoposto a restrizioni. Lo stesso Peter Stano ha dichiarato che l’Ue è pronta a prendere in considerazione la messa al bando di altri media, qualora gli Stati membri concordino all’unanimità che questa misura sia necessaria in relazione a pubblicazioni specifiche che Bruxelles ritiene siano impegnate nella propaganda.
Il regolamento dovrebbe entrare in vigore verso la fine di giugno. Proprio quando la guerra in Ucraina sta entrando in una nuova e più pericolosa fase, verso l’escalation. La volontà sarebbe quella di imporre il divieto solo sulla trasmissione di queste risorse mediatiche. E non di ostacolare le attività professionali dei giornalisti che lavorano per i media sanzionati sul territorio dell’Unione europea. In realtà, l’ambito di applicazione delle nuove restrizioni “va oltre le trasmissioni televisive”. Ovvero si estende ai siti web. Tant’è che quelli di Izvestia, RIA Novosti e Rossiyskaya Gazeta hanno smesso di funzionare in Germania, il 25 maggio.
La discrezionalità a doppio senso
Qualsiasi decisione spetta ai singoli Paesi membri dell’Ue. Inoltre viene precisato che, con riferimento a quanto imposto ai media, è corretto parlare di divieti e non “sanzioni”, le quali colpiscono persone e organizzazioni includendo il congelamento dei beni e il divieto di viaggiare. La discussione è interna a ogni Stato. E non è escluso che alcuni possano inasprire le misure contro i media russi, rifiutando il confronto con i loro giornalisti, ad esempio. Ciò è intollerabile e inconciliabile con i valori difesi dall’Occidente. Lo rileva la parte avversa: il Ministero degli Esteri russo ha dichiarato che la mossa dell’Ue contro le pubblicazioni russe continua la pratica della censura politica e che Bruxelles sta trascurando i suoi obblighi internazionali di garantire il pluralismo dei media.