Scuole chiuse a Taranto: l’allerta meteo (arancione) e la polemica giustificata

La prudenza non è mai troppa: prevenire è meglio che curare, a costo di sovrastimare un pericolo reale. Così è arrivata l’ordinanza di chiusura degli istituti scolastici a Taranto. Come azione di contrasto all’allerta meteo, di grado arancione, diramata dalla Protezione civile per la giornata odierna, giovedì cinque dicembre. Una misura in parte contestata. Anche perché tardiva – l’ordinanza firmata dal vice sindaco Gianni Azzaro è stata pubblicata sul sito del Comune dopo la mezzanotte. L’opinione pubblica è divisa. Le motivazioni che stanno alla base dell’ordinanza sono condivisibili, chiare. Una soluzione tampone efficace. Ma la strada che porta all’adattamento al cambiamento climatico non può essere quella di starcene rintanati in casa. Occorre ripensare l’architettura urbana, le infrastrutture e le strade. Gli esempi virtuosi, che vanno in questa direzione, non mancano.

La città-spugna

Senza andare all’estero, nei Paesi più tecnologicamente avanzati, nella provincia di Varese (Busto Arsizio) è nato un progetto di rigenerazione urbana che trasforma il centro storico in una “Sponge City”: utilizzando depaving e verde urbano, si può migliorare la gestione delle acque piovane. L’iniziativa punta a rendere la città più resiliente e sostenibile. Un progetto che è stato finanziato dalla Regione Lombardia attraverso il bando “Sviluppo dei distretti del commercio 2022-2024”, mira a migliorare il deflusso delle acque piovane integrando specie vegetali a basso manutenzione e resistenza idrica perfettamente adattate all’ambiente urbano e al cambiamento climatico.

Il Depaving

Si tratta del processo di rimozione delle superfici impermeabili, come cemento o asfalto, da aree urbane, per ripristinare il terreno permeabile sottostante sostituendolo con un nuovo tipo di pavimentazione in porfido e granito bianco drenante. Ciò consente di ridurre l’effetto della impermeabilizzazione urbana che contribuisce ad allagamenti e inondazioni. E al sovraccarico delle fognature. Tale approccio innovativo che sfrutta le risorse naturali per assorbire l’acqua piovana, e prevenire i danni derivanti dagli eventi meteorologici estremi, ha l’obiettivo di contrastare l’impatto dell’urbanizzazione e dei cambiamenti climatici.

L’allerta meteo

Tornando a Taranto, va aggiunto che è stata disposta anche la chiusura del parco Cimino e dei cimiteri cittadini. Che in risposta all’allerta meteo, il Comune ha invitato la cittadinanza a osservare tutte le misure precauzionali previste allo scopo di salvaguardare la pubblica sicurezza e l’incolumità personale. La chiusura di tutti i plessi scolastici, di qualsiasi ordine e grado, degli asili nido pubblici e privati (nonché della frequenza delle attività scolastiche e di formazione superiore, di parchi, giardini e cimiteri presenti sull’intero territorio comunale) è stata decisa e trasmessa alla comunità attraverso l’ordinanza aggiornata alle ore 00:25 del 5 dicembre 2024. Meglio tardi che mai. Perché dall’allerta meteo alla catastrofe è un attimo, e mai vorremmo rivedere quelle immagini del maltempo che ha messo in ginocchio la Spagna, tre settimane fa.  

Le carceri tra sovraffollamento e impraticabilità: l’allarme dei penalisti

“Una pena che tenda alla rieducazione, al trattamento individualizzato, alla progressività in ‘meglio’ del trattamento penitenziario, sembrano ormai miraggi difficilmente raggiungibili”.  Così la Camera penale di Bari stigmatizza le condizioni in cui versano le carceri italiane. Altro che strutture adeguate al livello di civiltà: “La realtà quotidiana delle nostre carceri è diversa: violenze, spazi ristretti, aree trattamentali inadeguate, come abbiamo più volte constatato e denunciato nella casa circondariale di Bari”. Le carceri italiane sono oggi strutture incapaci di gestire un numero così alto di detenuti se non calpestandone la dignità – si legge nello stesso comunicato della Camera Achille Lombardo Pijola – e deludendo le legittime aspettative ad un trattamento penitenziario “rieducativo”, come previsto dalla Costituzione e dalle leggi sull’ordinamento penitenziario.

Le carceri focolaio di criticità

Il primo problema resta il sovraffollamento. Ma anche la mancanza di personale, il numero di suicidi elevato, le condizioni sanitarie inadeguate. Tutto ciò concorre a rendere quel luogo davvero infernale. La riprova sta nella più recente cronaca: in quelle raccapriccianti immagini delle violenze sui detenuti nel carcere di Trapani – 46 agenti sono indagati per torture e altri reati. Il malessere può degenerare sino al prezzo della vita umana. Nella lunga lista dei suicidi è finito Ben Mahmud, tunisino di ventotto anni, che è stato l’81esima vittima nelle carceri italiane. C’è poi il nodo irrisolto delle persone tossicodipendenti. Secondo il Coordinamento delle comunità di accoglienza (Cnca), ci sarebbe la possibilità di farle uscire dalle carceri con le misure alternative. I numeri riferiti al 31 dicembre scorso dicono che i detenuti tossicodipendenti presenti negli istituti di pena sono 17.405. Ovvero il 29 per cento della popolazione carceraria totale (60.166).

Il sovraffollamento

La Camera penale aveva già denunciato le criticità del carcere di Bari. Questa estate, infatti, nell’ambito dell’iniziativa nazionale “Ristretti in Agosto” proposta in collaborazione con l’Unione delle Camere penali italiane, aveva organizzato una visita nel penitenziario di Carrassi invitando anche i parlamentari. Immaginiamo quanto il caldo, sempre più intenso ogni anno, possa essere un elemento aggravante. Non va meglio nelle altre stagioni. Non c’è primavera per quanti si trovano nelle carceri pugliesi e italiane. Tornando al sovraffollamento, va sottolineato che a Bari ci sono mediamente quasi 400 detenuti, a fronte di una capienza di 260 posti. Numeri purtroppo in linea con quelli degli altri istituti penitenziari italiani. A nulla è valsa la sentenza Torreggiani: correva l’anno 2013 quando la Corte europea dei diritti umani condannò l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU). Ovvero per i trattamenti inumani e degradanti, che si ripetono nel disprezzo della dignità umana. 

Il cambiamento climatico impatta sulla salute: l’allarme dell’Oms

Non solo eventi meteo estremi. Che, destinati a moltiplicarsi, trasfigurano i paesaggi e danneggiano l’economia. Non solo danni materiali o affettivi, perdite di attività e di vite: il cambiamento climatico può impattare negativamente sulla qualità della vita. Ovvero sulla salute delle persone in tutto il globo.

LA LOTTA AL CAMBIAMENTO CLIMATICO COME PRIORITA’ ASSOLUTA- Gli esperti non hanno dubbi. “Il cambiamento climatico ci sta facendo ammalare, e intervenire con urgenza è una questione di vita o di morte”, avverte l’Organizzazione mondiale della sanità. Il danno più evidente è il caldo estremo. Che comporta numerosi rischi per la salute: dai disturbi renali alle malattie cardiovascolari e respiratorie, dal rischio di complicanze per le donne incinte o per i soggetti più fragili con patologie, sino al decesso dell’individuo, alle morti premature. Quasi certamente il 2024 sarà l’anno più caldo mai registrato. Si dovrebbe superare il record del bollente 2023, secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM). Gli altri fattori che influenzano la salute derivano dall’inquinamento atmosferico. Si pensi che nei giorni scorsi la seconda città più grande del Pakistan, Lahore, ha registrato valori 40 volte superiori al livello ritenuto accettabile dall’Oms.

LE MALATTIE INFETTIVE- Il cambiamento climatico costringe uccelli, zanzare e mammiferi a spostarsi oltre i loro habitat ideali. Il risultato è che gli stessi possono diffondere malattie infettive. Parliamo di quelle trasmesse dalle zanzare: dengue, chikungunya, virus Zika, virus del Nilo occidentale e malaria. A causa del riscaldamento globale potrebbero diffondersi ulteriormente. Il rischio è già concreto. Quello di trasmissione della dengue, infatti, è aumentato del 43 per cento negli ultimi 60 anni, secondo The Lancet Countdown – oltre 5 milioni i casi registrati lo scorso anno.

GLI ACCORDI SUL CLIMA- La madre di tutte le questioni dovrebbe essere in cima alle agende di governo e monopolizzare il dibattito pubblico. L’auspicio quindi è che il prossimo presidente degli Stati Uniti cambi posizione: nel giorno del suo nuovo insediamento alla Casa Bianca, il 20 gennaio 2025, Donald Trump firmerà l’ordine esecutivo per il ritiro dall’accordo di Parigi sul clima. A rivelarlo, il Wall Street Journal. E c’è da crederci, visto che il successore e insieme predecessore di Joe Biden si era già ritirato dall’accordo nel 2019.

Ricordiamo che il trattato internazionale stipulato nel 2015 tra gli Stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) si propone l’obiettivo di contenere la temperatura media globale ben al di sotto della soglia dei 2 gradi. Possibilmente sotto 1,5° rispetto ai livelli preindustriali. La realtà dice che la direzione in cui si sta andando è contraria: si stima un aumento della temperatura compreso tra 2,6 e 3,1 gradi, entro la fine del secolo. Una catastrofe. L’Italia, per scongiurarla, è disposta a fare la sua parte, ha assicurato la premier Meloni intervenendo alla Cop29.

Inondazioni, auto inghiottite dalla corrente o distrutte dalla grandine: il maltempo in Spagna

Fino a 490 mm di pioggia. Ovvero la quantità che solitamente cade in un anno. È venuta giù in sole otto ore a Valencia, in Spagna. È l’eccezionale ondata di maltempo innescato dal cambiamento climatico. La stessa perturbazione che, nei giorni scorsi, si è abbattuta sul nord Italia, ha provocato danni e vittime in numero ancora non precisato. Le ricadute in queste immagini – tra gli eventi meteo estremi documentati c’è anche un tornado abbattutosi su un’autostrada.

Crisi umanitaria in Medio Oriente: la denuncia di Medici senza frontiere

Gli aiuti che servono sono urgenti. I numeri, impressionanti, quelli riferiti alla crisi in Medio Oriente: 1,9 milioni di sfollati nella Striscia di Gaza, dove si contano quasi 43.000 vittime, e oltre 112mila in Libano. Persone che necessitano di ogni bene di prima necessità. Ovvero di acqua, di cibo, cure e rifugi. È la denuncia di Medici senza frontiere. Che invita le comunità a non ignorare questa guerra che si protrae senza soluzione di continuità.

Il contributo di Medici senza frontiere

La grande organizzazione umanitaria offre assistenza. Lo fa quotidianamente nella Striscia di Gaza fornendo cure in diverse cliniche e strutture ospedaliere: i volontari di Medici senza frontiere distribuiscono acqua, allestiscono lastrine e tende, forniscono supporto psicologico a chi ha bisogno. Perché le ferite della guerra vanno al di là del corpo per farsi traumi e cicatrici incancellabili. Deve esserne consapevole Israele, il cui obiettivo sembra essere quello di svuotare della popolazione palestinese la Striscia di Gaza, ha accusato Abu Mazen.

La grande fuga

Corpi sparsi sulla strada e gente disorientata costretta a lasciare casa – chi è rimasto fermo nel nord di Gaza è stato torturato. Feriti nell’ospedale Kamal Adwan e altri che non possono raggiungere alcuna struttura per farsi curare. È la fotografia scattata sul posto da un medico chirurgo di Medici senza Frontiere. Quando l’Idf, l’esercito israeliano, ha ordinato agli abitanti di Beit Lahia di spostarsi verso il centro di Gaza. La denuncia viene anche dall’Unicef: a causa degli ordini di sfollamento di massa e della mancanza di pause umanitarie, si è dovuto rimandare la campagna di vaccinazione antipolio.

Quello che possiamo fare

Medici senza frontiere invita a donare 0,23 centesimi al giorno. Tanto basta per garantire cure mediche, acqua pulita e cibo terapeutico in Libano e a Gaza. E ovunque serva. L’organizzazione è seria, affidabile. Lo dimostra da anni sul campo. Al netto delle chiacchiere, delle parole che non sono nemmeno tante (di guerra si parla poco nei telegiornali), la donazione è l’atto più concreto delle quali le popolazioni possono beneficiare. Altre forme di donazioni vanno da 7 a 20 euro al mese.

Nuovi crimini

La cronaca intanto ci porta all’allargamento del fronte di guerra in Medio Oriente. È strage a Gaza: l’esercito di Tel Aviv, ha riferito la protezione civile di Gaza, si è reso responsabile di un massacro di massa, radendo al suolo almeno dieci edifici residenziali nel campo profughi di Jabalya. Ciò ha portato a morti e feriti in numero ancora imprecisato. Un nuovo fronte si è aperto in Siria. Laddove la Turchia ha intensificato gli attacchi. In Libano, vicino al confine con la Siria, nella parte orientale, almeno tre giornalisti che lavoravano per tv filo-iraniane hanno trovato la morte in un raid aereo israeliano. E prendere di mira gli operatori dell’informazione è un altro crimine di guerra da condannare.

“La vera pace va conquistata ogni giorno”: Wojtyla prima di diventare Giovanni Paolo II

Quarantasei anni fa, il 16 ottobre 1978, l’elezione a Pontefice di un gigante della fede, protagonista del secolo scorso. Un uomo che mai ha dato le dimissioni per svolgere la sua missione sino all’ultimo respiro in questo mondo. Nonostante la malattia, in modo eroico. Il suo nome è Karol Wojtyla (1920-2005). La sua presenza si fa viva ed eterna nei luoghi di culto, ma non solo: recentemente è uscito un libro contenente 366 frammenti, brevi testi inediti, datati al periodo antecedente quella data storica, dagli anni Quaranta al ’77. Riguardano la vita interiore e quella di relazione. Il volume si intitola “La meta è la felicità” (Edizioni Ares) e porta la prefazione di papa Bergoglio. Che ha definito lo stesso un assaggio delle doti umane, pastorali, culturali e teologiche di San Giovanni Paolo II.

Superfluo sottolineare quanto siano attuali quelle riflessioni. Delle quali sono destinatari in modo particolare i giovani, nei quali Karol Wojtyla credeva molto; e poi coppie, famiglie, lavoratori, ammalati e operatori sanitari. Naturalmente i comuni fedeli.

Figura rimpianta (eppure viva), chissà come avrebbe letto, il papa polacco, gli attuali sconvolgimenti. Il caos che domina il mondo. Certamente ci avrebbe invitato alla perseveranza, a non perdere la bussola. E a fare del dialogo l’unica arma a nostra disposizione. Insieme al sentimento inteso come potenza dominatrice, risorsa irrazionale e insieme inesauribile. (“Più è sconsiderato più è grande, l’amore, si può persino dire”). Ci avrebbe invitato a rialzarci dopo ogni caduta. Lui che guardava all’essere umano nella sua interezza. Consapevole che siamo fatti di anima, corpo, sensualità e spiritualità. E che grazie a quest’ultima l’essere umano “trascende smisuratamente tutto il mondo degli esseri viventi”. La sua vita allora si realizza soltanto in Dio Creatore. A Lui dobbiamo parlare nella ricerca di ogni soluzione.

Ecco alcune delle annotazioni raccolte in La meta è la felicità, sulle quali può meditare ogni lettore. Sono estrapolate da tanti discorsi, lettere, omelie, dai numerosi incontri avuti dal predecessore di Benedetto XVI. Suddivise per argomento, queste sono indirizzate al cuore di ogni individuo. O meglio, della persona:

L’uomo non vive per la tecnologia, la civiltà e nemmeno per la cultura, ma vive per mezzo di esse, mantenendo costantemente la propria finalità

Dobbiamo ogni giorno conquistare la vera pace. E questa pace ha fondamenta profonde; non si limita solo agli slogan e agli annunci politici. Deve basarsi sui diritti umani, sul loro rispetto

Bisogna che nel programma educativo dei nostri tempi l’amicizia occupi un posto di rilievo

L’essenza della felicità non consiste nella distruzione del corpo, ma nel nutrirlo di luce

La felicità non è la via, ma la meta di ogni percorso umano

La società in quanto tale è sempre una creazione temporale, mentre la persona in quanto tale è destinata a vivere in eterno

Karol Wojtyla

Digiunare dalla vendetta: la preghiera laica per la pace nel mondo

Sette ottobre. Una data spartiacque, al pari dell’undici settembre: l’umanità si riscopre vulnerabile agli attacchi più distruttivi, che possono venire a sorpresa. Era ben pianificato, invece, quello di Hamas su Israele, accaduto l’anno scorso. Da allora l’escalation ha finito con l’aprire ben 7 fronti di guerra. Sanguina il Medio Oriente, e si preoccupa l’intera Europa, l’Occidente. Perché la spirale dell’odio e della violenza non si arresta. Così la pace, intesa come cessazione delle ostilità, ovvero tregua, sembra irrealizzabile nel medio termine.

Pregare per la pace in ogni forma

“Volgere lo sguardo al mondo. I fuochi di guerra continuano a sconvolgere popoli e nazioni”. È l’esortazione di papa Bergoglio. Che inaugurando la sessione conclusiva del Sinodo, con la Celebrazione Eucaristica del 2 ottobre scorso, continua a predicare instancabilmente la cultura della pace e del rispetto. Per onorare l’odierna tragica ricorrenza, per combattere la guerra, Francesco invita a vivere una giornata di preghiera e di digiuno. Anche domani 8 ottobre. L’iniziativa può essere condivisa da ogni popolo, in forma individuale o comunitaria. Digiunare giova allo spirito, oltre al corpo: ci aiuta a riflettere sulle priorità, su ciò che è essenziale alla nostra sopravvivenza. Serve dialogare e resistere alla tentazione della vendetta. Pensiamo a quanto sta accadendo negli ultimi giorni. E in queste stesse ore: Hamas lancia razzi verso Israele durante la cerimonia per il 7 ottobre; Israele si accinge a sferrare l’attacco contro l’Iran, ritenuto responsabile di tutte le minacce di guerra totale in Medio Oriente; l’Iran a sua volta ha già compiuto la sua vendetta per il leader della milizia libanese Hezbollah, Nasrallah, con una pioggia di missili su Israele. La cui reazione è imminente. Seguirà un’altra vendetta, con il coinvolgimento di altre nazioni. E così via. Mentre la guerra in Ucraina non è ancora un ricordo.

Il 7 ottobre

Un anno fa il massacro al Festival musicale Nova di Re’im. Il rapimento e l’uccisione dei giovani che prendevano parte all’evento, per mano dei terroristi (oltre 250 ostaggi, 800 civili morti), è un fatto cruento meritevole di condanna senza riserve. La scintilla che ha dato origine alla guerra a Gaza. Dodici mesi che hanno sconvolto il mondo. Una mattanza che fa delle vittime i nuovi carnefici. Perché i 40mila morti per l’attacco di Hamas e per l’invasione israeliana dell’ottobre 2023 (37.396 secondo il Ministero della Salute di Gaza) ce li abbiamo sulla coscienza. Per non parlare dei bambini. Delle creature innocenti, alle quali consegniamo un mondo dominato dal caos e della violenza. Più che salvare vite, scongiurare altre catastrofi umanitarie, la priorità adesso è diventata la caccia a Hamas, che governa la Striscia di Gaza dal 2007 avendo vinto in quell’anno le elezioni parlamentari palestinesi. E che vuole fare della Palestina una patria islamica da sottrarre al controllo israeliano. Questo movimento viene riconosciuto come organizzazione terroristica. Almeno, nella sua ala militare, universalmente. Sconfiggere Hamas è complicato quanto portare la pace attraverso la guerra.

Crisi climatica e non solo: la più grande alluvione che flagellò Palermo

Sicilia, 27 settembre 1557, ore 20.00. Una spaventosa alluvione a Palermo provoca un’ondata di fango che raggiunge la città dai monti, con conseguente scia di distruzione e di morte. Migliaia le vittime. Un numero imprecisato compreso tra 2000 e 7000, e oltre. Siamo alla metà del XVI secolo, ben lontani dai giorni che viviamo oggi, condizionati dalle ricadute drammatiche del cambiamento climatico: gli eventi meteo estremi si stanno sì moltiplicando nell’ultimo trentennio, ma quei numeri, fortuna nostra, sono inimmaginabili adesso.

La grande alluvione

Gli storici fanno riferimento a quell’evento, attestato dalla relazione del Maestro Razionale del Regno Pietro Agostino, come il più violento che colpì l’allora capitale del Regno di Sicilia. Un’alluvione assimilabile a una tempesta perfetta. Ci furono delle repliche in questi anni: 1666, 1769, 1772, 1778, 1851, 1862, 1907, 1925, 1931. Il comune denominatore è il caldo eccezionale o i periodi siccitosi che hanno preceduto le abbondantissime precipitazioni. Con riferimento alla catastrofe del 1557, il nubifragio ebbe inizio il ventuno settembre protraendosi per giorni. Il 27 avvenne il cedimento del Ponte di Corleone, muro-diga che serviva ad arrestare le acque meteoriche provenienti da Monreale, per scaricarle nell’alveo del fiume Oreto. I danni alla struttura edilizia e al tessuto economico della città furono ingenti – mille case distrutte. Colpa di scelte ingegneristiche errate e degli interventi di prevenzione fatti male.

Adattarsi al cambiamento

La storia ci insegna che questi eventi si sono sempre verificati nel tempo. Tuttavia, a convalidare la tesi del cambiamento climatico, processo irreversibile da mettere al centro delle agende di governo, c’è l’elevata frequenza. L’alluvione è quell’evento che si ripete facendosi sempre più intenso. Si pensi all’accanimento delle precipitazioni in alcune aree come l’Emilia Romagna – sono caduti 300 litri di acqua per metro quadrato in soli quindici giorni. Sebbene certi fenomeni ci vedano spettatori, senza volerlo, la nostra unica possibilità di sopravvivenza è legata alla capacità di adattamento, per mezzo del progresso e dello sviluppo delle tecnologie moderne. Va sottolineato che le previsioni meteo sono sempre più precise. Almeno quelle provenienti da siti affidabili, alle quali lavorano gli studiosi, come gli esperti dell’Aeronautica militare.

I danni della crisi climatica

I numeri sono inquietanti. È l’Osservatorio Anbi sulle Risorse idriche a divulgarli: dall’inizio del 2024 al 15 settembre si sono registrati 212 tornado, 1.023 nubifragi e 664 grandinate con chicchi di dimensioni grandi. In totale gli eventi estremi sono 1.899. Lo Stivale, quindi, è diventato l’hub mediterraneo della crisi climatica, con piogge torrenziali concentrate sulle aree costiere dell’Adriatico. Eppure sino a non molto tempo fa l’Italia veniva identificata nella mitezza mediterranea. Si guardava ai tornado come a un fenomeno lontano, riguardante in particolare gli Stati Uniti d’America. Quanto ai danni, alla necessità di adattarsi al cambiamento climatico, c’è da dire che dagli anni Ottanta manca in Italia una pianificazione nazionale di interventi per la prevenzione idrogeologica, e si preferisce intervenire con fondi per le emergenze. Una verità scomoda. L’ha denunciata il presidente dell’Anbi Francesco Vincenzi.

Se non ci importa un Corno d’Africa della terza guerra mondiale a pezzi

Non solo Medio Oriente e Ucraina. Di guerre è pieno il mondo, e un fronte che preoccupa non poco è quello apertosi nell’Africa Orientale. Una guerra da fermare prima che sia troppo tardi per intervenire. Il responsabile di una catastrofe imminente è Abiy Ahmed Ali con i suoi progetti discutibili e le sue mire espansionistiche: il primo ministro etiope vuole fare dell’Etiopia uno Stato costiero. Ne è ossessionato al punto da volere lo sbocco sul mare non solo con i negoziati ma anche attraverso l’uso della forza. Sebbene l’ex militare fosse stato insignito del premio Nobel per la Pace 2019, grazie alla sua iniziativa risolutiva del conflitto con la confinante Eritrea. Così nel Corno d’Africa la situazione è sempre più insostenibile. E pure gli europei dovrebbero guardarne gli sviluppi con sentimenti di preoccupazione.

L’obiettivo di Abiy Ahmed nel Corno d’Africa

Tra i cinque Paesi costieri confinanti con l’Etiopia il più debole è la Somalia, che per trent’anni è stata oggetto di una devastante guerra civile: lo scorso primo gennaio Abiy Ahmed, che ricordiamo in visita a Roma per la Conferenza Italia-Africa, aveva firmato un memorandum d’intesa con il presidente del Somaliland per il riconoscimento della stessa repubblica separatista in cambio di una base navale di 12 miglia nel Golfo di Aden. La Somalia però si è opposta lanciando un’offensiva diplomatica per dimostrare il tentativo di controllare con mezzi illegali il territorio somalo. Dalla sua parte, le Nazione Unite, gli Stati Uniti e l’Unione europea, oltre all’Unione africana hanno riaffermato il principio della sovranità nazionale e la necessità di rispettare i confini stabiliti. Ma il primo ministro etiope non ha ceduto.

Una polveriera dagli effetti imprevedibili

Le pressioni internazionali non hanno avuto esito positivo. Non quella esercitata dall’amministrazione Biden, che ora pensa alle elezioni presidenziali, alle guerre in Medio Oriente e in Ucraina, più che al Corno d’Africa. Così la Somalia deve fare i conti con un’insurrezione estremista. Anche Abiy Ahmed attende di conoscere chi sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti. Le tensioni crescono, intanto, nelle ultime ore, in tutta la stagione estiva: per due volte l’Etiopia ha mandato le sue truppe in Somalia, noncurante delle proteste andate in scena al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. A sostegno del Paese ci sono la Turchia e l’Egitto. Ma la mediazione di Ankara non è riuscita.

La guerra avrebbe un impatto devastante sia per la Somalia che per l’Etiopia, con il coinvolgimento della comunità internazionale, in particolare degli Stati del Mar Rosso: dalla Russia agli Usa passando per l’Europa e la Cina gli interessi in gioco sono multipli – la strategicità della zona metterebbe in pericolo il commercio. Tanti i soggetti che potrebbero intervenire con l’aggiunta dei gruppi terroristici. Le comunità, però, non hanno ancora percezione di quanto potrebbe accadere: di questa crisi si parla poco o nulla.

“Emily in Paris” parla italiano nella quarta stagione: nel cast anche Raul Bova

Un’americana a Parigi. Una francese quasi acquisita che subisce il fascino del Belpaese: nella quarta stagione di “Emily in Paris” vedremo personaggi nuovi, e volti noti, da Eugenio Franceschini a Raul Bova. Esempio di contaminazione, la serie televisiva romantica statunitense, con protagonista Lily Collins, è un prodotto di successo (due nomination ai Golden Globe 2021) rivolto in particolare al pubblico più giovane. Nel suo linguaggio moderno, non è esente dalla polemica. Continua infatti ad essere criticato per aver alimentato gli stereotipi francesi. La nuova stagione arriva il 15 agosto su Netflix – la seconda parte sarà disponibile a partire dal 12 settembre.

Emily in Paris 4, ecco il trailer:

Paolo Borsellino dopo Capaci: l’ultima intervista di Lamberto Sposini al magistrato

L’amicizia con Giovanni Falcone, il soggiorno all’Asinara e il lavoro instancabile; l’esperimento inedito del pool antimafia, il destino comune di chi ha combattuto fino in fondo la criminalità organizzata, per dovere morale e senso dello Stato: l’ultima intervista di Lamberto Sposini a Paolo Borsellino, datata alla fine di giugno 1992, venti giorni prima che il giudice venisse assassinato (un mese dopo la strage di Capaci), è una lezione aperta sulla legalità. Che le nuove generazioni devono conoscere e assimilare

Texas, giustiziato Ramiro Gonzales: la barbarie della pena di morte

Qualcuno la reintrodurrebbe. La invoca per reati abominevoli, come lo stupro e l’uccisione di una donna; ma la pena di morte non può salvare il mondo, né avere alcuna utilità giuridica. Alimenta solamente la sete di vendetta scambiata per giustizia. Anacronistico, o forse no, mantenerla (la logica dell’occhio per occhio è sempre imperante, in tempi di guerra), l’ultimo ad essere stato giustiziato in Texas è il 41enne Ramiro Gonzales: alle 18.50 di mercoledì scorso ventisei giugno, l’uomo è stato sottoposto a iniezione letale nel penitenziario statale di Huntsville, ed è morto nel giro di un minuto.  

L’abominio

I fatti risalgono al 2001. Allora Ramiro Gonzales si rese colpevole del rapimento e della morte della 18enne Bridget Townsend: il sequestro avvenne in una casa di campagna nella contea di Bandera. Dopo essere stata abusata la giovane fu uccisa. Solamente nell’ottobre del 2002 i suoi resti furono ritrovati grazie allo stesso killer, che aveva già ricevuto due ergastoli per aver rapito e violentato un’altra donna. Nel 2006 la condanna a morte: inutile la difesa dei legali, in appello dinanzi alla Corte Suprema, i quali cercavano di dimostrare come la non più pericolosità dell’individuo, e la buona condotta: il suo impegno nella fede cristiana, e la dedizione verso gli altri detenuti – anche i tentativi di donare un rene a uno sconosciuto. Con il voto di 7-0 il Texas Board of Pardons and Paroles si è rifiutato di concedergli la clemenza.

Il pentimento di Ramiro Gonzales

Non sappiamo se fosse sincero. Ma, consapevole del dolore causato, in più occasioni Ramiro Gonzales si era scusato con la famiglia Townsend. Dichiarando di aver continuato a vivere al meglio delle sue possibilità, per la restituzione, il ripristino, l’assunzione di responsabilità. E di non aver mai smesso di pregare per il perdono. Che non ha mai ricevuto.

La reazione della famiglia

“Abbiamo finalmente assistito alla giustizia. Questo giorno segna la fine di un lungo e doloroso percorso per la nostra famiglia: per oltre due decenni abbiamo sopportato un dolore e uno strazio inimmaginabili”. Queste le parole del fratello della vittima David Townsend alla notizia dell’esecuzione avvenuta. Uno sfogo di certo comprensibile, che non tiene conto della funzione rieducativa della pena, e della sacralità della vita.

La pena di morte nel mondo

Più di mille esecuzioni (1153) in 16 Paesi. Uccisioni avvenute soprattutto in Cina, poi in Iran, Arabia Saudita, Somalia e Stati Uniti. È la fotografia scattata da Amnesty International riferita all’anno scorso. La stessa organizzazione, sempre ferma nell’opporsi incondizionatamente alla pena di morte, precisa che sono state registrate 508 esecuzioni solo per reati legati alla droga. Alla fine del 2023, 112 Paesi erano completamente abolizionisti  e 144 in totale avevano abolito la pena di morte nella legge o nella pratica. Vige ancora in un Paese civile e democratico e potenza guida come gli Stati Uniti.

La sfida del cambiamento climatico: sconfiggere il maltempo con potenti esplosioni

Non è un metodo che rassicura. Ma magari funziona, l’idea da cui prendere spunto, nell’azione di contrasto a un processo divenuto ormai irreversibile, da porre come la madre di tutte le questioni: prevenire la formazione di vortici atmosferici come tornado e tifoni attraverso ordigni esplosivi. La teoria rivoluzionaria porta la firma degli scienziati russi. Per combattere gli effetti più devastanti del cambiamento climatico, servirebbero cinquanta ordigni con una capacità totale di 4 chilotoni, installati con competenza, al posto giusto. È fattibile?

Le potenze nucleari unite nella lotta al cambiamento climatico

“Tali esplosioni possono essere effettuate in qualsiasi stadio dello sviluppo del tifone. L’importante è che siano nei punti giusti e di potenza sufficiente: i calcoli hanno dimostrato che per fermare l’intera massa rotante alla base del ciclone, avremmo bisogno di un’energia molto grande”. Così Sergei Bautin sulla rivoluzionaria teoria. Lo stesso professore presso la sede del MEPhl di Snezhinsk ha chiarito: “Ci vorrebbe almeno una bomba atomica. Ma se si sa dove farla esplodere, ci si può limitare a esplosioni meno potenti”. “Per calcolarlo, dobbiamo conoscere la velocità del flusso ascensionale intorno al centro del ciclone – aggiunge – la sua geometria, i diametri e le distanze. In sostanza, dobbiamo fermare non il movimento circonferenziale, ma quello verticale verso l’alto dell’aria lungo l’intera circonferenza attorno al centro del vortice atmosferico”. In sostanza, la questione è assai complessa, e sebbene possa avere un certo fondamento scientifico, a noi pare essere una follia. E mai vorremmo assistere a una guerra nucleare spacciata per lotta al cambiamento climatico. A tal proposito, l’avvertimento degli scienziati è che un’esplosione di tale potenza dovrebbe essere coordinata con gli altri Stati.

Il metodo e l’applicazione

Al netto di una serie di problemi grossi da risolvere, secondo Sergei Bautin, non solo sarebbe possibile fermare un ciclone, ma pure ricavarne energia. Sulla stessa lunghezza d’onda il coordinatore del programma di rinverdimento industriale del Centro per la conservazione della fauna selvatica Ihor Shkradyuk sostiene che l’esplosione possa anche reindirizzare il flusso d’aria. Di diverso parere il ricercatore capo dell’Istituto di ricerca spaziale dell’Accademia delle scienze russa Sergei Pulinets, per il quale esistono modi più semplici per fermare i tifoni senza dover far esplodere nulla. Ad esempio riscaldando la parte superiore del ciclone tramite ionizzazione. Mikhail Leus infine ha precisato che per l’applicazione della rivoluzionaria teoria ci vorrebbe una potenza di esplosione di gran lunga superiore a quella delle bombe sganciate su Nagasaki e Hiroshima: gli scienziati dell’Istituto di Fisica e Tecnologia di Snezhinsk dell’Università nazionale di Ricerca nucleare MEPhl cercano di essere propositivi, positivi, e insieme realisti.

Guerra Ucraina: la libertà di informazione, tra i media russi, va salvaguardata sempre

Il dovere di informare. E pure di sparare “balle”, eventualmente, se la verità da accertare è un’altra, è un diritto da tutelare sempre: non tutti hanno accolto favorevolmente le nuove restrizioni che l’Unione europea intende introdurre sulle trasmissioni dei media russi. È già contraria la Svizzera. Che pure aveva adottato tutte le sanzioni imposte dell’Ue contro la Russia, a causa della guerra in Ucraina.

Il pensiero unico e le contraddizioni dell’Occidente

La comunità di esperti sottolinea che le azioni di Bruxelles contraddicono i principi di rispetto della parola e perseguono l’obiettivo di ripulire lo spazio informativo in Europa. A sottolinearlo è Izvestia. Il pensiero unico, insomma, sulla guerra in Ucraina, è dominante. La contrarietà della Svizzera invece è motivata dal suo portavoce del Ministero degli Esteri, Nicolas Bidault, il quale ha dichiarato che non si ha in programma di sospendere le trasmissioni di alcun media.

Guerra in Ucraina, le restrizioni contro la propaganda

Il Parlamento europeo è fiducioso che l’Ue possa compiere questo passo al più presto. Lo ha fatto sapere il rappresentante della Commissione europea e portavoce della politica estera Peter Stano. Le restrizioni erano state preannunciate dal Consiglio dell’Ue, lo scorso diciassette maggio, ai danni di tre media russi: RIA Novosti, Rossiyskaya Gazeta, e la stessa Izvestia. A questi si aggiunge Voice of Europe. Portale che è stato sottoposto a restrizioni. Lo stesso Peter Stano ha dichiarato che l’Ue è pronta a prendere in considerazione la messa al bando di altri media, qualora gli Stati membri concordino all’unanimità che questa misura sia necessaria in relazione a pubblicazioni specifiche che Bruxelles ritiene siano impegnate nella propaganda.

Il regolamento dovrebbe entrare in vigore verso la fine di giugno. Proprio quando la guerra in Ucraina sta entrando in una nuova e più pericolosa fase, verso l’escalation. La volontà sarebbe quella di imporre il divieto solo sulla trasmissione di queste risorse mediatiche. E non di ostacolare le attività professionali dei giornalisti che lavorano per i media sanzionati sul territorio dell’Unione europea. In realtà, l’ambito di applicazione delle nuove restrizioni “va oltre le trasmissioni televisive”. Ovvero si estende ai siti web. Tant’è che quelli di Izvestia, RIA Novosti e Rossiyskaya Gazeta hanno smesso di funzionare in Germania, il 25 maggio.

La discrezionalità a doppio senso

Qualsiasi decisione spetta ai singoli Paesi membri dell’Ue. Inoltre viene precisato che, con riferimento a quanto imposto ai media, è corretto parlare di divieti e non “sanzioni”, le quali colpiscono persone e organizzazioni includendo il congelamento dei beni e il divieto di viaggiare. La discussione è interna a ogni Stato. E non è escluso che alcuni possano inasprire le misure contro i media russi, rifiutando il confronto con i loro giornalisti, ad esempio. Ciò è intollerabile e inconciliabile con i valori difesi dall’Occidente. Lo rileva la parte avversa: il Ministero degli Esteri russo ha dichiarato che la mossa dell’Ue contro le pubblicazioni russe continua la pratica della censura politica e che Bruxelles sta trascurando i suoi obblighi internazionali di garantire il pluralismo dei media.

“La dea dell’arpa”, quella scintilla divina che è in Claudia Lamanna

La Puglia, l’Italia, il continente, pullulano di giovani o affermati talenti. Ma Claudia Lucia Lamanna è la più coinvolgente… Tanto che al sottoscritto ha ispirato “La dea dell’arpa”. Un volume voluto per omaggiare l’unicità del suo talento. Il mio libro accende i riflettori sull’arpa: dalle origini e dalla storia del più antico strumento a corde a noi noto, agli interpreti che hanno contributo allo sviluppo del repertorio arpistico, alla funzione o missione della musica colta – classica, il racconto è permeato dalla presenza dell’arpista più brava del mondo incoronata all’International Harp Contest in Israel 2022. Questo saggio intende avvicinare lo strumento al pubblico profano. Il tributo va a tutte le eccellenze. A quelle pugliesi, italiane o estere, che nel nome dell’Arte operano e sono legate, per promuovere la cultura del rispetto e la pace che passano attraverso l’ascolto individuale e partecipato. “La dea dell’arpa” è pubblicato da Passerino Editore e disponibile nelle librerie digitali.

La dea dell’arpa

Vincitrice del Primo Premio all’International Harp Contest in Israel 2021, Claudia Lucia Lamanna è la seconda italiana nella storia ad aggiudicarsi, dopo oltre vent’anni, la più antica e prestigiosa competizione per arpa al mondo. La sua “vibrante energia” (Harp Column), “maturità interpretativa” e “solida personalità” (La Voce di Mantova), unite al suo “virtuosismo naturale” (La Gazzetta del Mezzogiorno), la rendono una tra i più entusiasmanti solisti della nuova generazione. È inoltre vincitrice di oltre 30 competizioni internazionali. Si è esibita con numerose orchestre. Ha all’attivo due album – il primo rilasciato con l’etichetta discografica Linn Records, il secondo con Orchid Classics. Nel 2020 ha pubblicato la trascrizione per arpa delle Variaciones del Fandango español di Félix Máximo López, che rappresenta un’aggiunta totalmente nuova al repertorio arpistico. Il suo percorso di studi: dopo la Laurea di Secondo Livello con Lode e Menzione d’Onore presso il Conservatorio di Musica “Nino Rota” di Monopoli, si è ulteriormente perfezionata presso la Norwegian Academy of Music di Oslo, e alla Royal Academy of Music di Londra, infine ultimato la sua formazione presso l’Università Mozarteum di Salisburgo. La pugliese nativa di Noci è stata anche l’arpista dell’Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala di Milano per il biennio 2017-2019. Classe 1998, destinata a una carriera longeva, La dea dell’arpa va ascoltata dal vivo in un recital.

Strage di Capaci, il lungo esilio dei sopravvissuti

Ricordare sempre. Sebbene non sia sufficiente: il 23 maggio 1992 mille chilogrammi di tritolo, azionati con telecomando da Giovanni Brusca, fanno saltare in aria un tratto dell’autostrada A29 che collega Palermo con l’aeroporto di Punta Raisi, presso lo svincolo di Capaci. Accade nel momento esatto in cui transitano tre automobili. Quella su cui viaggia Giovanni Falcone insieme alla moglie, e le due auto della scorta. Per mano di Cosa Nostra, muoiono il magistrato antimafia e Francesca Morvillo, gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Quattro sono i sopravvissuti. Due di loro, l’agente di scorta Angelo Corbo e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza, hanno raccontato recentemente come è cambiata la loro vita.

Capaci, la strage dopo la strage

“La mia vita è cambiata. Ma è dopo l’attentato che è iniziata la mia strage: dopo 18 mesi di malattia, sono tornato in tribunale e mi aspettavo un’accoglienza diversa”. “Invece, non riuscivano a trovarmi un posto, una mansione – denuncia Giuseppe Costanza a Caro Marziano, il programma di Pierfrancesco Diliberto e Luca Monarca, andato in onda su Rai3 – mi facevano fare il tappabuchi, a volte ho pensato che in questo Paese è una disgrazia se rimani vivo”. L’uomo ha già ricordato che per anni non è mai stato invitato alle celebrazioni commemorative. Anche se quell’attentato lo hai vissuto sulla propria pelle, lui. Invece le celebrazioni sono state una passerella istituzionale utile a personaggi illustri. Si ricorda la protesta del testimone diretto sopravvissuto che, il 23 maggio 1994, arrivò a incatenarsi davanti il tribunale di Palermo, per far sentire la propria voce. Una delle tante mortificazioni subìte dopo la strage di Capaci. 

Nulla è cambiato, in sostanza, dal ‘92

Le inquietudini di Giuseppe Costanza trovano condivisione nelle parole di Angelo Corbo. Che facendo riferimento alla preparazione del cosiddetto attentatuni, ha aggiunto la presenza di soggetti esterni alla mafia come possibilità concreta. Parla anche dell’indecente trattamento ricevuto in ospedale dagli agenti rimasti feriti dall’esplosione. Prima che il circo mediatico prendesse il via. E poi dopo: trattati, i sopravvissuti, come testimoni scomodi persino per le istituzioni. Adesso Angelo Corbo raggiunge le scuole. Lo fa per non rimuovere la strage di Capaci dalla memoria collettiva, per sensibilizzare le nuove generazioni alla cultura della legalità, alla lotta al crimine; ma anche per non pensare a quanto gli è accaduto, dice, non negando il cambiamento, la maggiore attenzione data al fenomeno mafioso. Dall’altro lato c’è l’ipocrisia. La commemorazione? “È un anniversario dal quale vorrei scappare. La falsità delle istituzioni è qualcosa che ancora mi dà fastidio”. Perché “nulla è cambiato dal ‘92”. E per questo il poliziotto, che continua a credere nello Stato, e nel servizio pubblico, non rimette quasi più piede nella sua terra natia. La denuncia si accompagna al senso di inadeguatezza voluto proprio dalle istituzioni. Da quella parte corrotta, che ha affidato la sicurezza di Giovanni Falcone (e poi pure la vita di Paolo Borsellino) a persone impreparate al delicato compito specifico.

Ingrid Bergman e Roberto Rossellini: “La paura”

L’otto maggio nasceva uno dei padri del neorealismo, regista di “Roma città aperta”. Ovvero Roberto Rossellini. Rivediamo le immagini tratte da “La paura”, l’ultimo film, datato al 1954, nel quale il grande regista lavorò con Ingrid Bergman – il loro sodalizio artistico cominciò nel ’49 con “Stromboli – Terra di Dio”. Si tratta di un thriller. Poco conosciuto, e molto distante, potremmo dire, dalla violenza del genere che si aspetterebbe oggi il pubblico. I temi sviluppati sono quelli che ruotano attorno al tradimento e al senso di colpa fortissimo. La prima versione è doppiata in lingua inglese

Amnesty International: stop al trasferimento di armi a Israele

Le forze armate israeliane hanno utilizzato armi di fabbricazione statunitense per condurre attacchi illegali o per uccidere civili. Hanno fatto uso delle Joint Direct Attack Munitions (JDAM) e delle Small Diameter Bombs (SDB): lo denuncia Amnesty International nel rapporto che fornisce un resoconto degli incidenti avvenuti nella campagna israeliana contro i militanti di Hamas – nella Striscia di Gaza e non solo. Casi nei quali sono stati feriti o uccisi dei civili.

Il rapporto di Amnesty International

Gli incidenti sottolineano il modello generale di attacchi illegali da parte delle forze israeliane e il rischio estremamente elevato che armi di fabbricazione statunitense e altri materiali e servizi forniti al governo israeliano vengano utilizzati in violazione del diritto internazionale. È quanto si legge nel rapporto. Quanto sta avvenendo, dunque, secondo Amnesty International, dovrebbe essere indagato come potenziale crimine di guerra.

Il monito

“Il governo degli Stati Uniti deve sospendere immediatamente il trasferimento di tutte le armi e di altri articoli al governo israeliano fino a quando non sarà dimostrato il rispetto del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani”. Lo stop va condiviso. Il rapporto di Amnesty International cita anche altri casi in cui le armi non sono state identificate o non erano di origine statunitense.

I numeri

Le autorità palestinesi affermano che più di 34mila persone sono state uccise negli attacchi aerei israeliani e nelle operazioni di terra successivi agli attacchi dei militanti dello scorso sette ottobre. La maggior parte delle quali sono donne e bambini. Va ricordato che gli Stati Uniti sono stati a lungo il principale sostenitore militare di Israele, fornendo più di 3 miliardi di dollari all’anno in aiuti alla sicurezza. Intanto proseguono i raid israeliani su Rafah. Per la cessazione delle ostilità c’è una convergenza, ha riferito all’agenzia Reuters una fonte diplomatica francese, ma permangono gli ostacoli sulla natura a lungo termine della tregua.

Suicidi in carcere, le morti silenziose che sono in aumento costante

Sono esseri umani. E la vita di ogni persona è sacra: lo è quella dei detenuti che abitano le carceri italiane. Soggetti da riabilitare. Uomini e donne che, il più delle volte, non trovano nella casa circondariale il luogo della espiazione e rieducazione ma un vero proprio inferno, capace di tradursi in una trappola mortale. Si pensi che i suicidi in carcere sono già 30 nel 2024. Si va verso un nuovo record, dopo quello registrato due anni fa, con 85 decessi accertati – nel 2023 erano 71. Pertanto la media attuale è di un suicidio ogni tre giorni e mezzo.

Suicidi in carcere e sovraffollamento

L’altro dato allarmante riguarda il tasso di affollamento. Lo dicono i numeri riferiti a quest’anno: al 31 marzo le persone detenute erano 61.049, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti. “Le cause di questa crescita sono diverse: maggiore lunghezza delle pene comminate, minore predisposizione dei magistrati di sorveglianza a concedere misure alternative alla detenzione o liberazione anticipata, introduzione di nuove norme penali e pratiche di Polizia che portano a un aumento degli ingressi”, riporta il dossier Nodo al collo pubblicato da Antigone. I tassi di affollamento più alti a livello regionale si continuano a registrare in Puglia (152,1%), in Lombardia (143,9%) e in Veneto (134,4%). Solo il Covid ha frenato la crescita nel recente passato. Dalla fine del 2019 alla fine del 2020, a cause delle misure deflattive adottate durante la pandemia, le presenze in carcere erano infatti calate di 7.405 unità, precisa lo stesso XX rapporto dell’associazione italiana che si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario.

Le vittime

L’età media di chi si è tolto la vita è di 40 anni. La fascia più rappresentata, infatti, è quella compresa tra 30 e 39 anni. Muoiono gli stranieri più degli italiani. Considerando che la loro presenza in carcere è leggermente inferiore a un terzo della popolazione detenuta totale (31,3%). Oltre alle persone giovani o giovanissime, a quelle di origini straniera, sono numerose le situazioni di presunte o accertate patologie psichiatriche, riconducibili ai suicidi in carcere. Il che certamente non può essere considerata la normalità. Per alcuna ragione, infatti, la sofferenza di un individuo dovrebbe essere portata alla disperazione totale. Tra le vittime in carcere ci sono persone passate dal tunnel della tossicodipendenza. O quelle che erano senza fissa dimora.

Cosa si può fare per arrestare il trend di crescita allarmante? Secondo gli esperti di Antigone occorre favorire percorsi alternativi al carcere, e migliorare la qualità della vita all’interno degli istituti, al fine di ridurre il più possibile il senso di isolamento e di marginalizzazione, che stanno alla base dei suicidi in carcere. Concretamente si potrebbe incentivare una maggiore apertura nei rapporti con l’esterno. Le telefonate andrebbero liberalizzate: “Poter parlare con una persona cara può far tanto, per chi si trova in una situazione di profondo dolore potrebbe anche salvare la vita”. Occorrerebbe poi ripensare il sistema carcere. Che già da tempo, ormai, non è più il luogo dove marcire per aver commesso uno o più reati.