Undici settembre, la catastrofe che è costata agli Usa oltre 5.800 miliardi

Una ferita sempre aperta. Che non si può rimarginare: con gli stessi sentimenti di sgomento, di dolore e incredulità, il mondo ricorda gli attentati alle Torri Gemelle del World Trade Center di New York dell’undici settembre, per il 22esimo anno. Il primo dei quattro aerei di linea dirottati, schiantatosi sulla Torre nord a circa 750 km/h, tra il 93° e il 99° piano, ha dato una svolta alla storia contemporanea. Erano le 8.46 (14.46 in Italia) di quella che sembrava essere una splendida giornata. A tutti i livelli, le ricadute della catastrofe sono state importanti. E magari nemmeno immaginabili.

Le spese militari

Tra il 2001 e il 2022 gli Usa hanno speso oltre 5.800 miliardi di dollari. La cifra viene dalle stime del Watson Institute della Brown University; alla stessa vanno aggiunti i costi di cura dei veterani – almeno altri 2.200 $ stimati fino al 2050. All’indomani degli attentati dell’undici settembre l’obiettivo era l’uccisione di colui che fu riconosciuto come il principale responsabile. Ovvero di Osama Bin Laden (1957-2011). La morte del fondatore e leader di Al Qaeda non ha portato, però, a risultati concreti nella lotta alla stessa organizzazione terroristica internazionale. La riprova sta nel ritiro delle truppe statunitensi e della coalizione Nato dall’Afghanistan, avvenuto nel maggio 2021. Azione che, di fatto, ha dato lo Stato in pasto ai talebani. Le operazioni militari si collocavano nella mission denominata nation building. Miravano, cioè, alla costruzione di uno Stato afghano che rispettasse i criteri della democrazia e della stabilità. Oltre alle risorse impiegate sul piano bellico si pensi a quanto speso in sicurezza nel sistema di prevenzione di nuovi attentati. Perché da quel giorno l’intero Occidente si è sentito e continua a sentirsi sempre più vulnerabile.

Undici settembre, il valore della Memoria

Ricordare significa dare giustizia alle vittime e ai loro familiari. Circa 3000 i morti accertati, dalla mattina degli attentati nel cuore della Grande Mela agli ultimi anni, a causa delle patologie sviluppate, correlate allo stesso evento drammatico. La lista è sconfinata, e ancora aggiornata: nelle scorse ore il corpo dei vigili del fuoco ha aggiunto 43 nomi nuovi; le autorità di New York hanno dato un nome ad altre due vittime delle stragi, identificati grazie a un test avanzato del Dna. Tecniche all’avanguardia hanno permesso di non lasciare ignote alcune delle persone che se ne sono andate. Così la tecnologia (almeno quella) ha fatto progressi utili all’umanità. Tuttavia, va considerato che ancora il 40 per cento delle vittime totali resta non identificato. Il memoriale dell’undici settembre ha raggiunto persino Marte. Artefici dell’impresa i rover Spirit e Opportunity che vi hanno portato un ricordo interplanetario per le vittime degli attentati. Una lezione di umanità. Un messaggio che agli extraterrestri in giro per la galassia può dire quanto siamo stupidi noi mortali, capaci di farci del male; ma pure di trovare la via della rinascita e del riscatto.

Robot al posto degli studenti: quando la tecnologia è al servizio dell’etica

Gli abbiamo visti in azione durante la pandemia da Covid 19. Quando le restrizioni rendevano impossibile la frequenza, gli assembramenti, le sedute di laurea fatte in presenza. Adesso nelle scuole del Giappone i robot potrebbero prendere nuovamente il posto degli studenti: è l’idea avanzata dalle autorità di Kumamoto, città che ha già fatto tra le aule l’esperienza del metaverso. Lo riporta il portale Insider Paper. C’è da scommettere che la proposta troverà applicazione, compimento, in un Paese estremamente avanzato sul piano tecnologico. Questa può essere presa a modello.

L’obiettivo dei robot

L’iniziativa, che dovrebbe partire a novembre, è finalizzata all’azione di contrasto contro l’assenteismo ed il bullismo nelle scuole. Un sostegno a quanti manifestano, in generale, difficoltà di inserimento nelle classi degli istituti scolastici che frequentano. Robot di altezza non superiore al metro potrebbero spostarsi da una classe all’altra autonomamente, controllati a distanza dagli studenti, per fare in modo che i “sostituti” possano prendere parte alle lezioni e alle discussioni con i compagni.

“Comunicare attraverso questi robot non è completamente reale, ma può dare un certo senso di realtà ai bambini che sono ancora insicuri e hanno paura di interagire con gli altri. Speriamo che questo aiuti questi bambini a superare le loro paure”. Così il portavoce della città Maki Yoshizato motiva il progetto. In particolare, l’idea di utilizzare i robot nasce dall’esigenza di porre un argine all’incremento del numero di assenze degli studenti. I quali preferiscono starsene a casa per non subire umiliazioni dai loro coetanei e tenere a bada i sentimenti di paura o ansia. Il fenomeno del bullismo, infatti, può fare danni consistenti, anche permanenti. L’assenteismo in Giappone ha coinvolto il numero record di  244.940 studenti delle scuole primarie e secondarie. Lo attesta l’ultima indagine del ministero dell’Istruzione, con riferimento al 2021.

Il pericolo incombente

Gli aggressori sono giovani ma anche adulti. Si pensi a quanto capitato, lo scorso mese di maggio, ad uno studente di Tokyo accoltellato da un anziano nei pressi di una stazione ferroviaria. Anche l’Italia deve fare i conti con l’incremento degli episodi di violenza. Sono infatti in costante crescita i casi di molestie, bullismo o cyber bullismo negli ultimi cinque anni, dei quali sono vittime bambini e adolescenti – 32.600 nel periodo 2022/2023. Violenze fisiche o psicologiche che richiedono interventi. Dal Belpaese al continente asiatico, anche la tecnologia può fare la sua parte per instillare nei più giovani la cultura del rispetto. Come aveva preannunciato il primo cittadino di Kumamoto Kazufumi  Onishi, qualsiasi azione, allora, può essere messa in campo per offrire più opzioni a quegli studenti che non possono raggiungere il luogo dove dovrebbero essere.

Modello Coluccia: la Chiesa che ci piace sa dare fastidio

È il prete simbolo della lotta allo spaccio e alla criminalità a Roma. Ma non chiamatelo eroe: don Antonio Coluccia è stato vittima di una intimidazione, perché fa il proprio dovere. L’episodio si è verificato durante una marcia per la legalità in Via dell’Archeologia. Nel pomeriggio di ieri, martedì scorso 29 agosto, un uomo ha cercato di investirlo in scooter per le strade di Tor Bella Monaca, dove si stava tenendo la manifestazione. L’aggressore non è andato a segno. Infatti, si è frapposto un agente della scorta, il quale ha reagito sparando e ferendolo la stessa persona. Un grande spavento per il sacerdote salentino originario di Specchia, che ha confidato di aver avuto paura. Il responsabile dell’aggressione era un bielorusso 28enne già noto alle forze dell’ordine. In quanto aveva precedenti per droga – dopo una colluttazione è stato poi trasportato al Policlinico Casilino.

Don Antonio Coluccia, la missione ininterrotta

“L’aggressione non mi fermerà. Continuerò la mia battaglia che sto portando avanti contro la criminalità che controlla le piazze di spaccio a San Basilio, Quarticciolo e Tor Bella Monaca”. Così don Antonio Coluccia ha commentato l’agguato che poteva costargli la vita. Il suo lavoro, portato avanti da venticinque anni contro la criminalità organizzata e lo spaccio di droga (vive sotto scorta), non può piacere a chi delinque. Soprattutto, non viene visto di buon occhio l’attenzione del religioso verso i più giovani, i quali vengono sottratti alla cultura della morte, attraverso le numerose iniziative in cui vengono coinvolti.

Sulla scia di don Pino Puglisi

Don Antonio Coluccia rimanda a un’altra grande figura di riferimento del passato non troppo remoto. Il sacerdote che ha combattuto la mafia in Sicilia, a Palermo: don Pino Puglisi. Il quale amava proprio i giovani. E per toglierli dalla strada, dalle mani della mafia che li reclutava sin da giovanissimi, si impegnò, con la collaborazione di un amico e di un gruppo di suore – ricordiamo il film di Roberto Faenza Alla luce del sole (2005) che per la prima volta in televisione ne raccontò la storia. Don Pino Puglisi fu minacciato e picchiato. Infine assassinato. La determinazione del prete, che ha portato avanti la propria missione, è il segno della perseveranza che non trova ostacolo neanche di fronte al pericolo incombente della morte.

Così don Antonio Coluccia lascia intendere tutta la propria inarrestabile forza. L’auspicio è che l’esito sia diverso: che non venga lasciato solo. Se non altro, lo stesso ha ricevuto le telefonate del ministro Matteo Piantedosi, del primo cittadino di Roma Roberto Gualtieri, del Capo della Polizia Vittorio Pisani e di altre autorità. Compresa la solidarietà degli esponenti del mondo della politica. L’episodio può avere una duplice lettura… Come ha dichiarato il Presidente del Municipio VI delle Torri Nicola Franco, quanto accaduto dimostra che gli sforzi di don Coluccia “danno fastidio in questa zona”. Viva la Chiesa e gli uomini di Dio che scelgono la strada della lotta educativa e non quella della compromissione.

I 159 anni della prima Convenzione di Ginevra: la vita è sacra sempre

Reiterare l’impegno a tutela dei diritti delle vittime nelle guerre e promuovere la cultura del rispetto. È questa la mission nel ricordo della prima Convenzione di Ginevra – il 159 anniversario della nascita ricorre oggi, ventidue agosto. I diritti da tutelare includono quelli dell’assistenza a feriti e malati, il riconoscimento del prezioso lavoro offerto dalle strutture sanitarie e dal personale medico.

La sacralità della vita sotto la minaccia costante della guerra

“Ancora oggi assistiamo a numerose violazioni del Diritto internazionale umanitario (Diu) che minacciano pesantemente la protezione dei civili, nonché di tutti gli operatori umanitari e il personale medico impegnati a salvare vite umane”. Lo ha detto il presidente della Croce Rossa Italiana Rosario Valastro. Ricordando le parole di Henry Dunant, che sono un vivo monito nel presente: la vita è sacra sempre. Lo è anche in mezzo agli orrori della guerra. Laddove il virus della bestialità annebbia la mente e indurisce i cuori, sino alla sconfitta dell’umanità.

Prima convenzione di Ginevra

Sei erano le convenzioni negli anni che precedettero la prima e la seconda guerra mondiale. La Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei militari feriti in guerra fu adottata il 22 agosto 1864 a Ginevra. Ad ispirarla fu lo stesso Henry Dunant, il quale fu impressionato dalle sofferenze inflitte a 40mila soldati durante la battaglia di Solferino, che nel 1859 contrappose l’esercito francese a quello austriaco. Promotore dell’iniziativa fu il Comitato Internazionale della Croce Rossa. Fattasi conoscere nel 1863, la “Società Ginevrina per il Benessere Pubblico” raccolse i rappresentanti di 11 Paesi europei, e degli Stati Uniti d’America, con l’obiettivo di salvare vite umane e prevenire o alleviare le sofferenze. Oltre all’Italia firmarono: Spagna, Prussia, Francia, Portogallo, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Assia, Baden, Confederazione Svizzera e Wurtemburg. Mentre i rappresentanti di Inghilterra, Sassonia, Svezia e Stati Uniti non ebbero poteri di firma.

I valori

In linea di principio, la prima Convenzione di Ginevra dovrebbe tutelare tutte le persone “non combattenti”. Ovvero quanti sono vittime di conflitti che non vorrebbero minimamente. In realtà, come già denunciato più volte, tale principio non viene applicato quotidianamente in tutto il globo, nelle aree più disagiate particolarmente. Laddove non vengono garantiti i principi fondanti della stessa Convenzione di Ginevra, che sono sette: umanità, imparzialità, neutralità, indipendenza, volontarietà, unità e universalità. Valori che sono il faro della Croce Rossa.

Le quattro Convenzioni del 1949

Attingendo a quegli accordi e a quei valori, all’indomani della Seconda guerra mondiale (1939-1945) si tenne una conferenza internazionale, sempre a Ginevra, presieduta dal consigliere federale Max Petitpierre. L’iniziativa nacque dall’esigenza di compiere maggiori sforzi nella direzione della tutela delle vittime di guerra. Le quattro Convenzioni ratificate universalmente vennero poi integrate da tre protocolli aggiuntivi nel ’77 e nel 2005. Tutto questo rappresenta le fondamenta del diritto internazionale consuetudinario valido per tutti gli Stati e le parti in conflitto nel mondo.

Meteo, nessun caldo africano a ferragosto: quando si cade nel catastrofismo climatico

La premessa è che occorre combattere in modo concreto e celere quanto è correlato all’azione umana. Ovvero il tanto discusso, pernicioso fenomeno del cambiamento climatico, responsabile degli eventi meteo estremi. Pensiamo anche agli incendi che hanno fatto vittime e trasformato in un inferno il paradiso delle Hawaii. Come pure va contrastato il negazionismo di chi ha perso il contatto con la realtà. Ma non bisogna neppure esagerare, cadere nel catastrofismo facendo allarmismo climatico: con riferimento alle previsioni meteo per ferragosto, ad esempio, i media nazionali insistono su un’ondata di caldo rovente africano. Che non ci sarà, a quanto pare, in Italia. A denunciarlo sono gli esperti del portale meteobook. I quali osservano, studiano le carte, con professionalità, e lavorano nella logica contraria al sensazionalismo acchiappa like.

Previsioni meteo ferragosto: cosa dicono i modelli

Guardando alla circolazione delle masse d’aria prevista per le ore centrali di giorno quindici agosto, alla quota di 5.500 metri, si può osservare che le correnti in transito sull’Italia provengono da nord, e hanno un’origine marittima. Ovvero originate alle medie latitudini dell’Atlantico. Il tanto temuto caldo africano finirà invece tra la Grecia e l’Egeo. Così, guardando alla circolazione delle masse d’aria nei bassi strati, a 1.500 metri, si può notare che il pennacchio rovente nord-africano defluirà in direzione della Spagna. Ciò non significa che farà fresco sulla Penisola italiana. Ma che la stessa andrà ad auto produrre il caldo in proporzione alla compressione anticiclonica, detta subsidenza, e all’irraggiamento solare: condizione che farà salire le temperature sino a punte di 35-37 gradi, in alcuni casi. Insomma, caldo sì, ma niente di eccezionale. Non un’ondata assimilabile alle tre settimane di fuoco che abbiamo visto nel mese più caldo di sempre. Qual è stato luglio 2023.

Ancora meglio al Meridione

Le previsioni per ferragosto sono piuttosto rassicuranti. Al momento, la Puglia è interessata da venti settentrionali. E la circolazione non dovrebbe cambiare. L’estremo sud peninsulare, in particolare, potrebbe addirittura risentire di un’infiltrazione relativamente più fresca proveniente dai Balcani, capace di contenere l’aumento delle temperature. Che dovrebbero mantenersi vicine alla media. Ci avviciniamo, cioè, alla fine dell’estate. L’anticiclone africano potrebbe avere altre occasioni favorevoli per riguadagnare campo. Non nel breve termine, in ogni caso: dimentichiamo i quaranta gradi e oltre registrati, per più giorni consecutivi, in diverse località dell’Italia, a causa del flusso canicolare proveniente dall’entroterra sahariano. Non ci sarà alcun ritorno di Nerone, l’anticiclone porta caldo, come è stato soprannominato – sarebbe il caso, anche, di smetterla con la mania di dare un nome a tutte le ondate di calore o le perturbazioni che raggiungono ogni anno lo Stivale.

Energia pulita, la prima batteria gravitazionale in Cina

La buona notizia viene dal Paese che più inquina. Ovvero dalla Cina, corresponsabile in larga parte del fenomeno del surriscaldamento globale, del quale stiamo facendo tutti le spese. C’è da benedire l’entrata in funzione della prima batteria gravitazionale. Il progetto portato a termine nei pressi di Shanghai, nella provincia di Jiangsu, porta la firma di Energy Vault, azienda svizzera. È il primo impianto di stoccaggio a gravità non pompato al mondo.

Batteria gravitazionale, come funziona

Il progetto utilizza i nuovi sistemi di sollevamento a nastro dell’azienda. Quella appena partita è una torre con molti motori elettrici alimentati dall’energia solare. Struttura di stoccaggio a gravità da 25 MW/100 MWh. Tali motori, quando l’energia viene fornita dalla fonte, sollevano verso l’alto i blocchi da 24 tonnellate; gli stessi, quando ricadono, generano nuovamente elettricità, che può essere utilizzata per lo scopo previsto. L’efficienza prevista è dell’80 per cento pari a quella delle batterie e degli accumulatori idroelettrici. I quali funzionano secondo un principio simile. Va precisato che le batterie consentiranno di immagazzinare l’energia in eccesso prodotta dai parchi solari ed eolici; e che per produrre i blocchi è possibile utilizzare il suolo o gli scarti delle miniere. Avviata la prima fase di messa in funzione della batteria, la connessione alla rete elettrica è prevista per il quarto trimestre dell’anno in corso.

Un punto di partenza, modello virtuoso

“Sebbene questo rappresenti un traguardo significativo, il nostro lavoro in Cina è solo all’inizio, visti i recenti annunci locali di accumuli di energia a gravità per svariate ore GW, tra cui i progetti annunciati nel 2022 a sostegno dell’iniziativa cinese ‘Parchi a zero emissioni di carbonio’ con la tecnologia di accumulo di energia a gravità di Energy Vault”. Così il presidente e amministratore delegato della stessa azienda svizzera Robert Piconi commenta il piano di costruzione di cinque progetti dalla capacità di accumulo combinata di 2 GWh. Il sistema complessivamente funziona: il progetto dimostrativo installato nel 2020 in Svizzera ha dimostrato un’efficacia, efficienza di andata e ritorno del 75%. Energy Vault dichiara che prevede di migliorarla fino all’80 per cento circa.

Così la lotta al cambiamento climatico è possibile

C’è un altro aspetto non affatto secondario da sottolineare attorno a questa iniziativa. Ed è la collaborazione senza precedenti dimostrata tra i team degli Stati Uniti e della Cina: le due superpotenze, le maggiori economie del mondo, hanno unito le forze per affrontare il cambiamento climatico in modo concreto, significativo. Lo ha rilevato l’amministratore delegato di Atlas Renewable Eric Fang. Energy Vault aveva già annunciato che attraverso gli impianti installati nei nuovi parchi industriali a zero emissioni di CO2, Pechino intende raggiungere un risultato intermedio nel 2030 e la neutralità climatica entro il 2060. Dal continente asiatico all’America, passando per l’Europa, le grandi sfide del presente e del futuro si vincono attraverso l’innovazione e la cooperazione. Va ribadito.

Crisi climatica: la riprova che ci interessano solo i problemi di casa nostra

Incendi e devastazioni, precipitazioni intense e caldo record: in questi giorni non si parla d’altro che di clima, in piazza e tra i media. Di eventi meteo estremi dalle conseguenze catastrofiche. I riflettori sono calati su altre tragedie, contesti di crisi, sul piano nazionale e internazionale, come la guerra in Ucraina. E ancor meno si parla degli altri conflitti in corso – pensiamo a quello che sta insanguinando il Sudan, da oltre cento giorni. La dimostrazione che ci interessa ciò su cui abbiamo interessi di natura economica. Ora il clima, ora gli intrecci che legano l’Occidente e l’Europa all’Ucraina, alla Federazione russa.

Crisi in Sudan

Una guerra che ha superato i cento giorni. La pace appare ancora lontana in Sudan, dove cresce il numero delle vittime: i rifugiati nei Paesi confinanti sono oltre 740mila. Tanti gli sfollati. Dall’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) è arrivato l’appello per chiedere la fine dei combattimenti. Ma senza soluzione di continuità, l’escalation continua. A farne le spese sono soprattutto i bambini. Secondo quanto denunciato dall’Unicef, sono almeno 435 i piccoli uccisi, e più di duemila quelli rimasti feriti. Gli ospedali sono al collasso. Tanto che il 68 per cento delle strutture è stata costretto a sospendere il servizio, nelle aree più colpite. Il conflitto ha avuto inizio il 15 aprile scorso, ricordiamo. E vede contrapposti i due gruppi di membri del Consiglio di sovranità di transizione: l’esercito sudanese contro le Rapid Support Forces.

Quando la guerra diventa un problema

Più della violazione dei diritti umani, altro finisce dentro il dibattito… Il Sudan è il secondo Paese al mondo per esportazione di gomma arabica. Si tratta di una materia prima molto utilizzata nell’industria alimentare, cosmetica e farmaceutica. Il commercio di questa sostanza si è interrotto con la guerra. Alcune aziende internazionali, come quelle che producono Coca-Cola potrebbero risentire negativamente del deficit di gomma arabica, la quale può essere sostituita come ingrediente nella produzione di cosmetici, ma non in quella delle bevande gassate. Difficile ipotizzare la crisi di queste aziende. Ma quantomeno, il rischio ha acceso i riflettori su una guerra che potrebbe far collassare il continente intero, l’Africa. Allora sì che la questione ci interesserebbe.

Clima, dalle parole ai fatti

Un vizio tipicamente italiano è la gestione dell’emergenza. A catastrofe ormai avvenuta: poco o niente si fa nella prevenzione. Ci occupiamo dell’emergenza. E nel caso del clima, la comunità adesso è divisa tra fanatismo e negazionismo: tra quanti vorrebbero veder riconvertito il sistema produttivo economico, con la bacchetta magica, e coloro che non negano il cambiamento climatico (sarebbe folle), bensì la sua origine antropica. L’auspicio è che le posizioni trovino un punto di incontro e si mettano in campo soluzioni concrete e immediate nell’azione di contrasto al processo irreversibile del cambiamento climatico.

Disconnessi, come riappropriarsi del tempo ricaricando corpo e mente

Dieci giorni senza pc e senza cellulare. Va bene anche meno: il necessario per “staccare la spina” in senso letterale. Un esperimento che andrebbe provato, in modo da ricaricare il corpo e la mente, almeno una volta, o ogni tanto. Cosa accade, quando riusciamo a farlo? Il tempo scorre più lentamente. Ce n’è per guardarsi intorno: per ascoltare il rumore delle cicale fino a sera tarda, quando si sta all’aria aperta; per dare più attenzione a se stessi o agli altri; per far riemergere freschi o vecchi ricordi; per ordinare i pensieri, o per lasciarli in disordine. Una scelta controcorrente, stare “disconnessi”. Perché siamo immersi in tempi nei quali l’utilizzo delle tecnologie si fa sempre più dirompente. Ma pur controcorrente, la stessa scelta consente di risintonizzarsi con la maggioranza. Ovvero con le abitudini perpetuate per millenni dall’essere umano – fino agli anni Novanta del secolo scorso.

Disconnessi, ma riposati

È risaputo che i dispositivi elettronici sono nemici del sonno. Lo attestano diversi studi e ricerche effettuate. Non avere, allora, cellulare o tablet quando si va a letto, giova al riposo notturno. Ovvero alla qualità del sonno. Stare disconnessi per qualche giorno potrebbe essere il miglior rimedio per combattere la vera e propria insonnia da smartphone che colpisce gli italiani, adulti e adolescenti, in numero sempre crescente: la luminosità del display tiene in qualche modo attivo, ancora sveglio il cervello, sollecitandolo inoltre agli stimoli provenienti dall’esterno. Col risultato di favorire le apnee notturne e le interruzioni del sonno. La notte come di giorno, il cellulare crea una vera e propria e subdola dipendenza. Dalla quale occorre disintossicarsi in qualche modo. Va da sé che per favorire il riposo notturno non basta liberarsi di questi aggeggi: occorre spegnere le preoccupazioni, e combattere altri fattori di disturbo. Quali possono essere le zanzare pericolose e il gran caldo di questi giorni.

Elogio della lentezza

Andiamo sempre di corsa. Rallentare i ritmi, riallineandoli a quelli dei nostri antenati, quando l’evasione dalla ruotine e dalla quotidianità diventa una concreta possibilità (il momento migliore per fare questa esperienza è senz’altro la vacanza), significa abbattere lo stress godendosi il panorama. Riprendere il contatto con la realtà senza lasciarsi fagocitare dalla stessa. E se il corpo rallenta, assecondando il passo dell’eleganza, l’agilità mentale migliora, si rafforza. Così la capacità di analisi e di approfondimento. Stare disconnessi, e magari riprendere le letture più impegnate, come le riviste settimanali o i romanzi “mattone” lasciati impolverati durante l’anno, stimola la curiosità rispetto a ciò che ci accade intorno. Senza l’assillo di dover rispondere a chiamate e messaggi, appena li riceviamo, potremmo dare la precedenza ad altro. Riscoprire anche la noia. Che per qualche giorno soltanto, può diventare una compagnia salutare. L’otium può prendersi la rivincita sul suo contrario.

Liu Shikun: “Il concorso Tchaikovsky è un potente carro armato”

Guerra e musica. Gli orrori del conflitto, che vedono insanguinata l’Ucraina, tra i Paesi coinvolti nella umana follia, e la missione salvifica della prima. Ad accostarle si fa peccato. Perché sono davvero agli antipodi. Ma il paragone rende l’idea: per Liu Shikun il concorso Tchaikovsky è un potente carro armato. Lo ha detto proprio ai media russi il pianista e compositore cinese. Che è membro della giuria del concorso internazionale, giunto alla 17esima edizione. Un messaggio pieno di forza.

Liu Shikun, il senso delle sue parole

“Il Concorso Tchaikovsky è come un potente carro armato, con tutto ciò che contiene, mentre tutti gli altri concorsi internazionali sono armi leggere. Senza dubbio rimane, se non il più difficile, uno dei concorsi più impegnativi al mondo”, ha detto il musicista. Liu Shikun ha poi augurato ai finalisti di fare del loro meglio (il vincitore sarà proclamato quest’oggi 29 giugno) e di continuare a servire l’arte nel mondo. Pur credendo nella superiorità della Musica, riconosce che la stessa spesso viene messa in posizione subalterna dalla politica. “Il che è molto frustrante – denuncia – ma questo non ha influito sul livello della competizione e dei concorrenti, ancora alto”.

Il musicista

Classe 1939, Liu Shikun ha iniziato a suonare il pianoforte a soli 3 anni – a 5 cominciava ad esibirsi in pubblico. Ha studiato al Conservatorio centrale di Musica di Pechino e si è diplomato a quello di Mosca. Nel 1958 ha condiviso con Lev Vlassenko il secondo premio alla prima edizione del concorso Tchaikovsky di Mosca, vinto dall’americano Van Cliburn. La sua fama crebbe, non solo in Cina, dove portano il suo nome tante scuole di musica, fino ad essere considerato uno dei migliori concertisti. Fece l’esperienza del carcere: otto anni di prigione, quando la musica occidentale è stata bandita. Attualmente ricopre diversi incarichi. È stato membro della giuria di concorsi pianistici internazionali, tra cui il Franz Lizt e il Van Cliburn, oltre al Tchaikosky.  

Intelligenza artificiale, il potere è nelle nostre mani

È il tema del secolo. E in queste ore tanto se ne parla: l’intelligenza artificiale sta per impattare nelle nostre esistenze, fino a condizionarle. Di un’arma a doppio taglio si tratta. Così l’ha definita Elon Musk, mettendo in guardia dai rischi che potremmo sperimentare. Un’arma talmente potente da poterci sottomettere in futuro. Non sappiamo se avverrà. Probabilmente entreremo dentro questo processo senza nemmeno accorgercene, alla stregua di quanto successo con internet e il cellulare. Ad ogni modo, siamo sempre in tempo per arrestarlo: lo sviluppo delle tecnologie non si arresta, ma rispetto a qualsiasi novità, a decidere se e come utilizzarle è sempre l’essere umano.

Intelligenza artificiale, cosa ne pensa l’opinione pubblica oltre i confini dell’Italia

Una ricerca interessante arriva dalla Russia. Dall’indagine condotta dagli esperti di AlfaStrakhovanie, per la quale il 48 per cento di 1200 intervistati dichiara di non essere pronto ad affidare la propria auto alle tecnologie di intelligenza artificiale. Le motivazioni sono varie. Dallo stesso studio emerge che un automobilista su quattro si diverte a guidare un’auto. Un altro terzo degli intervistati dichiara che, prima o poi, i veicoli senza pilota faranno parte della quotidianità. Mentre il 32% dichiara che queste auto rappresentano una seria minaccia.

Gli esempi

Entrando nel merito dell’esempio di applicazione dell’intelligenza artificiale, c’è chi teme che la colpa di un incidente con un drone ricadrebbe sul costruttore; secondo altri finirebbe sulla coscienza del proprietario dell’auto. I test comunque vanno avanti. E vengono superati: i primi camion senza conducente hanno cominciato a circolare, tra Mosca e San Pietroburgo, lungo l’autostrada. Lo riportano i media locali. Li vedremo anche sulle nostre strade? Chissà. Intanto, tra i buoni usi e offerte più promettenti dell’intelligenza artificiale, strumento di supporto alla sicurezza degli esercizi commerciali, c’è Veesion: un algoritmo che è in grado di individuare i furti avvisando tempestivamente le guardie.

La promessa che mantenne Berlusconi: la squadra più forte di tutti i tempi è stata il suo Milan

Si può essere antiberlusconiani e insieme milanisti? Proprio negli anni in cui Silvio Berlusconi era alla guida del Milan? Assolutamente sì. Lo è stato persino quel comunista di Fausto Bertinotti. Al netto della politica, della questione morale o della giustizia, bisogna riconoscere le capacità imprenditoriali di chi sapeva sognare in grande, e cercava il benessere di ogni persona. Così in ambito sportivo. Dove il presidente, scomparso ieri, ha dato tanto, nel mondo del pallone.

Il Milan di Silvio Berlusconi

Lo ha detto anche l’Uefa. Che il Milan di Arrigo Sacchi, con presidente Silvio Berlusconi, è stato la squadra più forte di tutti i tempi. Tra il 1988 e il 1990 i due vinsero 2 Coppe dei Campioni consecutive. Inoltre due Intercontinentali ed altrettante Supercoppe europee. Erano gli anni del trio delle meraviglie, formato dagli olandesi Marco Van Basten, Ruud Gullit e Frank Rijkaard. Una squadra che non ricercava solamente la vittoria ma anche lo spettacolo come mission. E non si dica che con quei giocatori, chiunque avrebbe potuto vincere… La storia anche recente (si veda la Juventus di Cristiano Ronaldo, incapace di vincere la Champions League) dimostra che per raggiungere i grandi obiettivi non bastano gli investimenti e i grandi calciatori: serve l’ambiente giusto, l’amalgama degli ingredienti utili, la presenza di motivatori, dentro e fuori il campo di gioco.

Dalla polvere alle stelle

Berlusconi viene riconosciuto come l’artefice della rinascita del Milan. Quando nel 1986 subentra a Giussy Farina e rileva la proprietà della società rossonera: dichiara di voler portare il club sul tetto del mondo. L’anno successivo ingaggia Sacchi come allenatore. Arrivano i campioni e i trionfi. Ventinove trofei durante la presidenza dell’ex Presidente del Consiglio, dal 1986 al 2017, prima della vendita a Yonghong Li. Vanno ricordati gli otto scudetti e le cinque Champions League / Coppa dei Campioni. Tanti i fuoriclasse che ha voluto: da Dejan Savicevic a George Weah, da Roberto Baggio a Andriy Shevchenko, da Kakà a Zlatan Ibrahimovic. Oltre ai tre famosi olandesi. Ha avuto fiuto anche nella scelta degli allenatori che dopo Sacchi si sono succeduti – 9 i trofei vinti con Fabio Capello. Dei 15 tecnici il primo è stato il “Barone” Nils Liedhom.

Milan-Steaua Bucarest

Le immagini di questi fenomeni sono consegnate alla storia. I rossoneri vincono per 4-0 la finale della Coppa dei Campioni 1988-89 al Camp Nou di Barcellona, sulla malcapitata Steaua Bucarest – vanno a segno due volte Van Basten e Gullit. Il Milan vince grazie ai suoi finalizzatori, al pressing, al gioco a tutto campo, che sono stati in quegli anni le sue prerogative. La squadra di Sacchi ha inciso profondamente sulla storia moderna del calcio: i suoi concetti fondamentali hanno trovato applicazione nel gioco degli allenatori più vincenti, come Pep Guardiola o José Mourinho, che hanno studiato proprio l’allenatore romagnolo. Il quale è ricordato anche per la finale persa ai campionati del mondo di Usa ’94: l’Italia, ahinoi, non era questo Milan.

Rai News: studentesse avvelenate in Afghanistan, è la prima volta da quando ci sono i Talebani

Un titolo che colpisce. Quello realizzato dai giornalisti di Rai News mette l’accento sulla “prima volta” di un avvelenamento tra studentesse afghane, da quando in Afghanistan ci sono i Talebani al potere – agosto 2021. Niente da eccepire. È corretto, l’articolo. Ma è come se il nostro sguardo, centrato sulla guerra in Ucraina, dove sono concentrate le nostre risorse e ogni sforzo, fosse incapace di dirigersi altrove. Alle atrocità e violenze ben note.

Gli attacchi in Afghanistan

Almeno 82 ragazze afghane sono state ricoverate in ospedale dopo essere state avvelenate in due scuole nel nord del Paese, nella provincia di Sar-e-Pol. L’attacco arriva dopo l’ultimo colpo talebano inflitto ai diritti fondamentali della persona. Ovvero il divieto all’istruzione, imposto a dicembre scorso. Colpite le donne che non possono frequentare la scuola secondaria e l’università. I responsabili degli attacchi restano sconosciuti, per ora. Il primo è avvenuto sabato scorso: ha colpito 56 studentesse, 4 insegnanti, di cui 3 donne, un padre e due custodi. Il secondo avvelenamento si è verificato il giorno dopo. Colpite altre ragazze, ventisei, e quattro insegnanti. Lo riporta l’agenzia di stampa Efe. Segnatamente, secondo quanto riferito da un funzionario dell’istruzione locale, Mohammad Rahmani, 60 ragazze sono state avvelenate nella scuola Naswan-e-Kabod Aab e altre diciassette nella Naswan-e-Faizabad, nel distretto di Sangcharak.

Un lungo avvelenamento

“Nessuno parla di salute mentale. È come se le persone venissero avvelenate lentamente. Giorno dopo giorno, le giovani e i giovani stanno perdendo la speranza”. È il monito contenuto nel reportage della BBC. Lavoro fresco di pubblicazione, che accende i riflettori sul dramma vissuto in Afghanistan dalla popolazione. Il malessere è così diffuso da generare una vera e propria “pandemia di pensieri suicidi”. Lo confidano le stesse ragazze, costrette a convivere con ansia e depressione. La conferma viene dai medici che parlano di decine di richieste di aiuto ricevute ogni giorno. Due terzi degli adolescenti riportano sintomi di depressione. Lo attesta uno studio condotto nella provincia di Herat dall’Afghanistan Center for Epidemiological Studies, pubblicato a marzo scorso.

Come in Iran

L’attacco succede a un’ondata di avvelenamenti in massa di bambine in Iran. Centinaia gli studenti di oltre novanta scuole che, nei mesi scorsi, sono finiti in ospedale a causa dell’uso di gas velenoso – il 16 marzo scorso se n’è occupato il Parlamento europeo. Tra le province colpite, la capitale Teheran. Le autorità iraniane avevano minimizzato l’accaduto attribuendolo a fughe di monossido di carbonio. Poi però, per impulso della pressione della popolazione, è stata aperta un’indagine sulla “possibilità di atti criminali e premeditati”. La paura ha preso il sopravvento, ad ogni modo. Tanto che molte famiglie hanno deciso di non mandare a scuola le figlie. E diverse scuole di Qom, la città santa sciita, sono state costrette a chiudere.

Il fenomeno delle case a 1 euro in Sicilia conquista gli inglesi

Non solo catapecchie. Le case a 1 euro possono rivelarsi un vero affare, una volta fatte oggetto di ristrutturazione. Lo è stato per Hussai Ramzan. A riportare la storia, il quotidiano britannico The Sun: l’immobile è stato acquistato a Mussomeli, comune del libero consorzio comunale di Caltanissetta in Sicilia. L’inglese 31enne originario del Portogallo e residente a Watford, ha dichiarato l’intenzione di raggiungere la sua casa ogni anno nella stagione estiva. Ma anche in inverno, insieme alla moglie e ai tre figli.

Case a 1 euro

L’obiettivo del progetto nato nel 2019 è quello di arrestare lo spopolamento dell’area e di incoraggiare i turisti stranieri. Un’iniziativa sempre più condivisa. Perché il ripopolamento dei piccoli paesi, e la riqualificazione dei centri storici, rappresentano in tutto il Paese un’importante sfida. Va sottolineato che tanti borghi sono di una bellezza incredibile. Un patrimonio da difendere in ogni modo. Il successo del progetto è attestato dai numeri: oltre 400 le proprietà vendute a Mussomeli, delle quali una cinquantina a cittadini inglesi. La Sicilia poi continua ad essere una terra attrattiva. Dove tra mari e monti, l’ampia offerta in cultura, c’è solo l’imbarazzo della scelta per la località più suggestiva.

Quando l’investimento conviene

“È stato un vero affare, praticamente un intero edificio per me e la mia famiglia”, ha detto l’uomo, fattosi affascinare dall’opzione della vacanza a basso costo. “La casa costava solo 4.500 euro (3.900 sterline), poi ho speso 3mila euro (2.600 sterline) per ristrutturarla e 3.000 euro per l’atto di proprietà e tutte le pratiche, comprese le spese notarili”. Anche i tempi sono stati favorevoli. Hussai Ramzan, infatti, è riuscito a completare la proprietà in soli tre mesi, prima che scoppiasse la pandemia. “Ha aggiunto di essere stato aiutato anche dalle autorità locali che hanno redatto tutto in inglese, dato che lui non parla italiano”, chiarisce lo stesso giornale britannico che riporta la notizia. In totale il fortunato ha speso solo 9mila sterline. Mentre una casa simile costa 500.000 sterline nel Regno Unito. Novanta metri quadrati con due camere da letto. Il caso non è l’unico. Si cita la testimonianza di una donna, Meredith Tabbone, che ha investito in una casa da 1 euro, sempre in Sicilia stimando che presto potrebbe valere quasi mezzo milione di sterline.

Per amore della Costituzione, nostra speranza

Nel suo ultimo saggio, fresco di stampa, l’avvocato Lucarella accende i riflettori sulle ragioni e sulle conseguenze della riforma che ha portato alla riduzione del numero dei parlamentari. Nonché sul processo di indebolimento della democrazia in Italia

La materia è complessa. E affascina il lettore, nei giorni in cui si discute di presidenzialismo e premierato per le riforme istituzionali, della possibilità di mettere mano alla Costituzione non intoccabile, e di come farlo perché i benefici siano superiori ai rischi paventati. In “DemOligarchisc” (la Bussola, pp. 176, 18 euro) Angelo Lucarella riporta l’attenzione sulla già avvenuta riduzione del numero dei parlamentari. Ovvero sulle ragioni e sulle conseguenze della riforma che venne approvata dal Parlamento e dagli elettori. La scelta di Angelo Lucarella è giusta, scrive Luciano Violante nella prefazione. L’obiettivo è dimostrare che il taglio non è stata la conseguenza di una strategia riformatrice, bensì di una ideologia demolitrice, progressiva, nata col governo Renzi nel 2014. Più in generale si guarda al processo di indebolimento della nostra democrazia. Segnatamente alla concentrazione del potere politico nelle mani di una ristretta oligarchia parlamentare, per effetto combinato della riduzione del numero dei parlamentari e della legge elettorale. Al netto della denuncia, in forza della stessa, DemOligarchisc vuole essere un atto d’amore e di fiducia verso la politica, per la Carta costituzionale al centro dell’interesse dell’Autore di Martina Franca. Proprio alla Costituzione viene affidata la speranza di mantenere saldo il Paese nel periodo complicato che attraversiamo. Mentre il perdurare del clima di sfiducia o rabbia verso la politica, favorito da una informazione non adeguata, dalle paure in allegato, rappresenta l’antefatto di quanto analizzato in questo saggio. Un’opera che conferma l’acuta sensibilità di Angelo Lucarella per i problemi costituzionali. E pure la bravura, tanto che l’avvocato si è guadagnato l’attenzione del Presidente emerito della Camera dei Deputati, Luciano Violante. Il quale peraltro, in un recente articolo pubblicato su la Repubblica, ha evidenziato tutti i limiti del presidenzialismo, e la necessità di intervenire sulla Costituzione in modo da formare una “democrazia decidente”. DemOligarchisc offre spunti di riflessione attraverso un linguaggio immediato. La ricca bibliografia attesta la qualità del lavoro di ricerca effettuato.

Avvocato esperto di contenzioso tributario, docente presso l’Università di Napoli “Federico II”, Angelo Lucarella ha all’attivo diverse pubblicazioni: tra le ultime, Metamorfosi politica, intervento contenuto nel libro di Salvatore Di Bartolo e Draghi vademecum, pubblicati lo scorso anno. La vis polemica di chi scrive anche articoli per giornali è corroborata proprio dall’amore per la Costituzione della Repubblica italiana. Che non va tradita ma recuperata. Ovvero studiata, affinché i suoi valori possano ispirare una vera azione riformatrice orientata al progresso e al benessere generale.

(Pubblicato su L’Adriatico n. 194)

Remco Evenepoel fuori dal Giro: c’è della logica dentro questa follia

Un’assurdità. L’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato la fine dell’emergenza Covid: significa che possiamo ridimensionare il virus, conviverci, andare persino in ospedale senza indossare la mascherina. Al Giro d’Italia invece si fanno ancora i tamponi. E se risulti positivo, puoi essere estromesso dalla corsa, anche se hai vinto la tappa e la maglia rosa. Ovvero anche se stai bene. È quanto successo a Remco Evenepoel, costretto a ritirarsi dalla corsa rosa dopo aver vinto la prova a cronometro di ieri, Savignano sul Rubicone-Cesena. Si tratta di una decisione interna alla squadra del campione del mondo. L’Unione ciclistica internazionale non ha diramato, invece, direttive anti Covid; e nemmeno RCS, la società organizzatrice della grande manifestazione.

Le motivazioni

Sebbene il mondo stia andando in tutt’altra direzione, e già da tempo non si fanno più i tamponi per andare a lavoro, va sottolineato che non sono persone “normali” questi corridori: si sottopongono a sforzi intensi e prolungati, per più giorni consecutivi – tre settimane di corsa. La tutela della loro salute allora va messa al primo posto. Non si conoscono ancora gli effetti a lungo termine del virus, che tre anni fa ci aveva colti di sorpresa; nel breve, è stato riscontrato che lo stesso è responsabile di problematiche respiratorie, e a volte anche cardiache. Le ricadute negative sull’organismo possono condizionare o compromettere l’intera stagione. Il sospetto è che si sia voluto preservare la forma fisica del campione, per farlo correre il Tour de France nelle migliori condizioni.

Il dolore di Remco Evenepoel

“Ho il cuore spezzato, e con questa tristezza devo annunciare che lascio il Giro dopo che un test anti Covid di routine della squadra ha dato sfortunatamente un risultato positivo. La mia esperienza qui è stata davvero speciale, e non vedevo l’ora di competere nelle prossime due settimane”. Così il corridore ha dato notizia di quanto accaduto. Aggiungendo il ringraziamento verso lo staff, e quanti hanno fatto tanti sacrifici per il Giro, dicendosi orgoglioso di lasciare la corsa rosa con due tappe vinte e quattro maglie rosa. “Ringrazia” il nuovo leader della classifica generale. Che è il gallese della Ineos, Geraint Thomas.

Il precedente

Prima del belga, accreditato come il fenomeno del ciclismo di oggi, anche Filippo Ganna aveva dovuto lasciare il Giro d’Italia, perché risultato positivo al Covid. L’italiano però presentava sintomi influenzali. E nella crono dei Trabocchi, alla prima tappa del Giro, aveva tradito le aspettative, non riuscendo ad aggiudicarsi la prova. Altre positività erano stata riscontrate in Giovanni Aleotti del team Bora-Hansgrohe, in Nicola Conci (Alpecin-Deceuninck) e nel francese Clément Russo dell’Arkea-Samsic. Insieme a Remco Evenepoel è andato a casa anche Rigoberto Uran. L’assenza del giovane 23enne della Soudal Quick-Step si farà di certo sentire, in termini di attrattività e di spettacolo che il corridore avrebbe continuato ad offrire, nel ruolo di gran favorito.

Estate 2023, le previsioni: ondate di calore con afa ed eventi estremi

Le carte non promettono niente di buono. Premesso che le previsioni meteo vanno prese con il beneficio del dubbio, sono affidabili solo nel breve termine, a poche ore (e alle volte sbagliano pure a un’ora), quelle stagionali indicano la direzione: ondate di calore, afa ed eventi estremi sono altamente probabili, in continuità con quanto successo nella scorsa stagione. Lo confermano gli esperti de ilMeteo.it

Le temperature

Il trend è in crescita continua. Sono previsti valori superiori alla norma, da 1,5 a 2 gradi in più, sull’Italia e su gran parte dell’Europa. Le previsioni si riferiscono ai mesi di giugno e luglio – meno certezze per la seconda parte dell’estate, ad agosto, ma identiche proiezioni. Sarà l’anticiclone africano il principale responsabile dell’innalzamento delle temperature. Elevati i tassi di umidità, che portano lo stesso caldo ai limiti della sopportazione. Vanno ricordati i record battuti lo scorso anno. I 44 gradi registrati, ad esempio, in Sicilia, o le temperature elevate nel Regno Unito, che non avevano mai raggiunto i quaranta. Altra caratteristica delle ondate di calore è stata la persistenza. E nell’estate 2023 continuerà ad esserlo.

Estate 2023, il rischio di grandinate è concreto

Nel 2022 abbiamo assistito a precipitazioni intense. A chicchi di grandine grossi come palle da tennis, capaci di sfondare i parabrezza delle automobili, e di procurare danni ingenti. Il guaio è che questi fenomeni non si possono prevedere. O meglio, localizzare. È certo che con il caldo aumenta l’energia potenziale in gioco, i contrasti termici: si creano le condizioni per la formazione di celle temporalesche, alte fino a quindici chilometri. Gli effetti del cambiamento climatico afferiscono ad un processo ormai irreversibile. E l’uomo può solo adattarsi, imparare a convivere con questi eventi. Il che significa anche dover lasciare terre abitate da migliaia di anni! Si stima che nei prossimi 50 anni vaste aree, compresa l’Europa centrale, saranno inabitabili per quasi la metà della popolazione mondiale (3,5 miliardi di persone).

Tra agricoltura e filosofia, i pensatori che guardano agli equilibri della natura

Abitare la natura in un magico equilibrio armonico – Questa l’essenza del libro di Maria Cristina  Cantàfora

L’equilibrio della terra”

Recensione di Stefania Romito

L’equilibrio della terra di Maria Cristina Cantàfora, scritto insieme a Marco Rusconi e a Clementina Cantàfora (con Prefazione di Paolo Carnemolla, edito da Agribio Edizioni), è uno splendido compendio delle principali linee guida delineate dai più importanti esperti di agricoltura biologica, Padri fondatori di quella che può essere considerata a tutti gli effetti una “scienza naturale”.

Ad affascinare la lettura è il comprendere come l’agricoltura, protagonista indiscussa di questo prezioso volume, venga vissuta osservata analizzata mediante un approccio filosofico-esistenzialista, tralasciando in parte l’aspetto puramente tecnico, con l’obiettivo di sensibilizzare la coscienza del lettore orientandola verso la visione metafisica di una tematica che si sta imponendo sempre più con urgenza ed emergenza nel sistema economico-sociale della nostra contemporaneità.

Una emergenza dovuta a svariati fattori tra cui il progressivo allontanamento dell’uomo dalla terra, attirato da fonti di reddito più vantaggiose, così come il non rispetto della ciclicità delle stagioni e uno sconsiderato sfruttamento delle risorse naturali. Fonte di questi deleteri comportamenti è la bramosia di denaro che rischia di condurre l’uomo all’autodistruzione.

L’equilibrio della terra pone già dal titolo l’accento su uno degli aspetti imprescindibili di una condotta responsabile e rispettosa di quelle che sono le risorse naturali del nostro pianeta: l’equilibrio in un armonico agire. Ed è proprio a partire da questo concetto, tanto semplice da comprendere quanto complesso da perseguire, che si snodano le concezioni teoriche e pratiche dei personaggi protagonisti di queste pagine. Da Steiner ad Altieri, passando per Mollison e Fukuoka.

Un excursus coinvolgente tra le considerevoli esperienze biografiche e professionali di illustri pensatori che hanno intuito l’importanza di preservare gli equilibri della natura ponendo in essere innovative prospettive. E così, la biodinamica del filosofo viennese Steiner, generata dall’esigenza di penetrare in maniera profonda e totalizzante nel mondo dello spirito, mira a stabilire un legame armonico tra natura ed elemento spirituale, in una fusione panteistica di immanente rilevanza.

Ma se Steiner focalizza l’attenzione sul congiungimento armonico dell’uomo spirituale allo spirituale dell’universo tramite l’antroposofia, il giapponese Fukuokapromuove la “rivoluzione del filo di paglia” generata dal rispetto del meccanismo di autoregolazione che disciplina i cicli legati all’agricoltura e dalla “non azione” da parte dell’uomo: «La natura in sé è completa, basta servirla perché fornisca all’uomo l’indispensabile per il suo sostentamento. È fondamentale stare nel vuoto, nell’essenza delle cose, attribuendo valore alle cose meno rilevanti come un filo di paglia».

Il concetto di armonia, legato al senso di equilibrata convivenza, connota anche il pensiero pioneristico del biologo Mollison, noto come “permacultura”. Un sistema volto alla sussistenza che agisce in sinergia con le altre realtà semistanziali quali l’allevamento di animali, la selezione di colture e l’utilizzo del fuoco controllato per regolare i raccolti, in regime di assoluta autosufficienza. E come sostiene Altieri, altro illustre scienziato ricordato in questo importante testo, è necessario rinvenire una giusta interazione tra agricoltura ed ecologia al fine di preservare l’ambiente, poiché la sicurezza alimentare può essere garantita soltanto nel pieno rispetto della biodiversità.

L’intelligenza umana sta proprio nel riuscire ad assicurare la sicurezza alimentare senza compromettere quegli equilibri naturali che non devono essere intaccati perché, come ci ricordano gli autori: «Quando avremo finito con questo pianeta, non ce ne daranno un altro. Ognuno di noi può iniziare a preservarlo attraverso piccoli gesti di consapevolezza».

Consapevolezza, responsabilità, armonia. Questi i precetti fondanti sui quali si basa l’indagine esplorativa di Maria Cristina Cantàfora, Marco Rusconi e Clementina Cantàfora. Autori di un libro che ci riporta al valore intrinseco della terra mediante la riscoperta di quel senso di naturalità che abita la nostra intima essenza.

Staffetta dell’Umanità, l’Italia che non vuole più inviare armi ma messaggi di pace

Stop alla guerra e all’escalation che conduce a un nuovo conflitto mondiale o nucleare. Ovvero cessate il fuoco, in Ucraina, e avvio di un negoziato: è l’obiettivo della Staffetta dell’Umanità ideata da Michele Santoro. Un’iniziativa utile a far sentire la voce di chi crede nella pace. E quand’anche fosse inutile, perché ai piani alti inascoltata, la manifestazione da realizzare rappresenta una nota di merito, elemento non aggiuntivo ma consustanziale al sistema democratico. Al dibattito che dovrebbe veder confrontarsi tutte le parti in un Paese civile e libero come l’Italia.

Il percorso

Quattromila chilometri e migliaia di persone in strada a camminare. Un serpentone umano che, domenica 7 maggio, alle ore 11.00, collegherà Aosta a Lampedusa, ovvero tutte le regioni italiane in contemporanea. Transetti da 25 km andranno a costituire il tracciato – per partecipare sarà possibile percorrere anche un solo chilometro. Il percorso della staffetta è stato realizzato dall’Associazione Compagnia dei Cammini. La carovana sarà segnata dai colori dell’arcobaleno.

L’appello dei promotori della Staffetta dell’Umanità

I governi continuano a ignorare il desiderio di pace dei popoli e proseguono nella folle corsa ad armi di distruzione sempre più potenti. Mentre milioni di persone sono costrette dalle inondazioni, dalla siccità e dalla fame, a lasciare le loro terre, centinaia di migliaia di euro vengono spesi per aumentare la devastazione dell’ambiente e spargere veleni nell’aria. È quanto si legge nell’appello dei promotori della Staffetta dell’Umanità. Gli stessi chiariscono, tra l’altro, che Putin è sì il responsabile dell’invasione, “ma la Nato, con in testa il Presidente degli Stati Uniti Biden, non sta operando soltanto per aiutare gli aggrediti”. Mentre la missione dell’Occidente che si batte per esportare la democrazia nel mondo viene bollata come una menzogna reiterata. Della quale la stragrande maggioranza dei mezzi d’informazione è responsabile.

Da Massimo Cacciari a Fausto Bertinotti, da Luigi De Magistris a Leoluca Orlando, da Riccardo Scamarcio a Elio Germano, ad Anna Falcone e Moni Ovadia: tanti gli esponenti del mondo politico, culturale o dello spettacolo che hanno firmato l’appello per la pace. Tra questi, naturalmente, il giornalista Michele Santoro. Le diverse sensibilità sono chiamate in causa per sensibilizzare sull’emergenza legata alla guerra in Ucraina e insieme su quella climatica. Due emergenze che sono intrecciate. Perché il massimo dispiegamento di energie e di risorse dovrebbe essere concentrato nell’azione di contrasto al fenomeno che minaccia la sopravvivenza dell’umanità e del creato: il cambiamento climatico, i cui effetti saranno sempre più devastanti – si stima che nei prossimi 50 anni vaste aree, compresa l’Europa centrale, saranno inabitabili per quasi la metà della popolazione mondiale (3,5 miliardi di persone).

Per aderire all’iniziativa del 7 maggio scrivere alla mail staffetta.pace@gmail.com specificando nome e cognome, numero di telefono e località di residenza. Il lettore può cliccare qui per individuare il transetto da percorrere lungo il tracciato.

Yanomami, le sofferenze di un popolo a rischio estinzione

Più che una crisi umanitaria, si tratta di un genocidio. Un popolo che combatte, o meglio si arrende a malattie spesso mortali: in Brasile gli Yanomami vedono minacciata la loro stessa esistenza, che fino agli anni Quaranta del secolo scorso era preservata dal completo isolamento nel quale si trovavano a vivere. La causa va ricercata nelle condizioni disagiate aggravate dall’arrivo dei cercatori d’oro nelle zone abitate da loro. I minatori, infatti, scavando nelle viscere della terra, hanno raccolto acqua che ha attirato zanzare portatrici di malaria. Lo hanno denunciato i membri della comunità locale. Aggiungendo che i fiumi su cui fanno affidamento sono passati dal blu al “colore della Coca-Cola” – colpa del mercurio impiegato per l’estrazione del metallo. Così gli indigeni stanno morendo di fame e di malattie.

La responsabilità politica

Tre mesi fa, il ministro della Giustizia e della Pubblica sicurezza, Flavio Dino (Psb) aveva ordinato l’apertura di un’indagine su presunti reati di genocidio e crimini ambientali nella regione abitata dal popolo degli Yanomami, nello Stato del Roraima. La gravissima crisi sanitaria alimentare ambientale veniva ricondotta in buona parte proprio all’invasione dei minatori e dei cercatori d’oro illegali, dei 20mila “garimpeiros”. Si riconosceva anche che gli stessi sono favoriti dalle iniziative politiche del governo Bolsonaro. Il quale fu colpevole della negligenza dimostrata nei confronti degli Indigeni, e del degrado ambientale alla base dell’emergenza continua.

Le ambizioni di Lula

A parlare di “forti indizi sul crimine di genocidio” è stato lo stesso ministro che ha invitato la polizia federare a indagare sull’ex amministrazione Bolsonaro. Così il giudice della Corte Suprema Luis Roberto Barroso vuole vederci chiaro. Dopo che già l’anno scorso aveva chiesto al governo di espellere i cercatori d’oro. Ad ogni modo, sebbene si parli di genocidio, l’utilizzo di armi è stato escluso. L’emergenza è affrontata da Luiz Inacio Lula da Silva. Almeno nelle intenzioni del presidente del Brasile, che vorrebbe combattere la fame nel Paese: la situazione sembra essere sfuggita di mano, ai danni di questa popolazione.

Le vittime tra gli Yanomami

Almeno 99 i bambini di età inferiore ai 5 anni che hanno perso la vita nel 2022, a causa di “malattie prevenibili”. La denuncia viene da ricercatori incaricati dal Ministero della Salute. Il tasso di mortalità dei più piccoli è superiore di 9 volte alla media nazionale, attesta il reportage condiviso da Survival International. Dal 2018 al 2021 i casi di malaria sono più che raddoppiati, a oltre 20mila. I bimbi uccisi anche dalla malnutrizione sono stati 570 negli ultimi 4 anni. Va ricordato che prima dell’arrivo dei garimpeiros gli Yanomami erano entrati in contatto con il mondo esterno solo grazie ai missionari provenienti anche dai Paesi europei: una presenza benefica ma non risolutiva, rispetto alle sofferenze che si sono poi acuite Già nel 1933 tante donne e bambini finirono vittime degli ospiti più sgraditi.

Covid, l’addio alla mascherina va festeggiato come la fine della pandemia

Una notizia che non deve passare sottotraccia: tra pochi giorni scadranno le ultime restrizioni usate nell’azione di contrasto al virus terribile. Anche negli ospedali si potrà fare a meno della mascherina. Il 30 aprile, infatti, sarà l’ultimo giorno in cui non si potrà accedere alle strutture sanitarie senza indossare sul volto lo strumento protettivo, che nel pieno della pandemia ha salvato tante vite. E successivamente lo ha fatto nell’azione sinergica con il vaccino anti Covid. L’auspicio è di ritardare il più possibile l’arrivo di una nuova inevitabile pandemia, evento che si ripete nella storia.

Abbiamo atteso a lungo la luce in fondo al tunnel. Quando la televisione pullulava di virologi, esperti che studiavano l’andamento della curva epidemiologica, e il principio della gradualità ispirava le azioni del Governo nell’allentamento delle restrizioni. Rischiamo di non vederla adesso, la luce in fondo al tunnel, perché presi da altre preoccupazioni, come il vicolo cieco della guerra in Ucraina. L’addio alla mascherina va festeggiato come la fine della pandemia. O quantomeno il ridimensionamento forte della malattia, ospite che resta sempre sgradito, col quale bisogna convivere: l’Europa sta andando in questa direzione, con l’abbattimento delle ultime restrizioni, cadute già in Germania e in Portogallo, nei giorni scorsi. Il ritorno alla cosiddetta normalità significa potersi guardare in faccia e cercare l’altrui volto.  Cercare e non temere più le folle.

Sappiamo bene che ospedali, studi medici e strutture di riposo per anziani erano gli ambienti più a rischio per la circolazione e la trasmissione del virus. Il pericolo persiste finché l’Organizzazione mondiale della sanità non dichiara la fine della pandemia – potrebbe avvenire nei prossimi mesi. Caduto l’obbligo, l’utilizzo della mascherina sarà opportuno in particolari situazioni: nei reparti di Pneumatologia, o in strutture che assistono pazienti molto fragili, come i malati oncologici. Sui casi specifici potrebbero essere i direttori sanitari a decidere.